PIO IV, papa
PIO IV, papa. – Giovan Angelo Medici nacque a Milano il 31 marzo 1499, da Bernardino, notaio, e da Cecilia Serbelloni. Seguì gli studi giuridici prima a Pavia poi a Bologna, dove si laureò in diritto civile e canonico l’11 maggio 1525. L’anno seguente si portò a Roma, dove iniziò la sua carriera curiale come protonotario apostolico, coltivando l’amicizia di Giovanni Morone e Alessandro Farnese, futuro Paolo III.
Non esistono indizi di un legame tra i Medici milanesi e la più nota casata fiorentina: tuttavia, spinti probabilmente da interessi politico-militari, sia papa Clemente VII sia Cosimo I, allusero in più di una circostanza a rapporti di parentela tra le due famiglie. Il percorso di Giovan Angelo si intreccia con quello del fratello Gian Giacomo (detto il Medeghino), noto uomo d’armi, in quegli anni burrascosi diviso tra interessi signorili e alleanze antimperiali. Le loro carriere bene rappresentano le nuove strategie adottate per legittimare la propria posizione sullo scacchiere italiano: alle antiche condizioni di sangue fu necessario affiancare sia lo status di patrizio sia una coerente militanza filoasburgica. Dopo gli accordi di Bologna fu giocoforza per il ribelle Gian Giacomo accettare di porsi definitivamente al servizio di Carlo V e del suo maggiore alleato italiano, il duca di Firenze. Suggello alla sua nuova collocazione, supportata a Roma con ogni mezzo dal fratello, furono la nomina a marchese di Marignano e l’ingresso nel senato milanese (1550).
Sotto il pontificato di Paolo III Giovan Angelo Medici fece le prime esperienze nell’amministrazione temporale dello Stato pontificio: come governatore d’Ascoli Piceno, Città di Castello, Parma e Fano. Fu l’avvio di una carriera che lo vide ricoprire con successo le principali cariche dello Stato ecclesiastico e della Chiesa. Nel 1542 venne nominato commendatario perpetuo dell’abbazia di S. Gemolo di Ganna, poi donata nel 1556 all’ospedale Maggiore di Milano, ma riservando per la propria famiglia parte dei beni situati a Frascarolo, in provincia di Varese. Nello stesso anno assunse la funzione di commissario delle truppe pontificie inviate in Ungheria e Polonia contro turchi e luterani, nella stessa missione a cui partecipò il fratello. Rientrato in Italia, nel 1544 venne destinato al governo di Ancona e nominato referendario apostolico.
La parentela con Paolo III, per via del matrimonio di Gian Giacomo con Marzia Orsini, cognata di Pierluigi Farnese, rafforzò la posizione di Giovan Angelo in curia. Nel 1544 fu nominato al seggio episcopale di Ragusa (Dalmazia). Nel 1546 venne di nuovo chiamato a ricoprire il ruolo di commissario generale al seguito delle truppe ausiliare pontificie alleate di Carlo V contro la Lega di Smalcalda. L’anno seguente fu governatore di Bologna e, dopo la congiura ordita da Ferrante Gonzaga contro Pierluigi Farnese, i legati radunati nel concilio gli affidarono, in virtù dei suoi legami parentali e della precedente esperienza di governo, la missione a Parma per riconfermare l’obbedienza della città a Ottavio Farnese. Fu poi inviato come vicelegato a Perugia. Dopo queste esperienze, che affinarono le sue doti amministrative, militari e diplomatiche, l’8 aprile 1549 fu nominato cardinale presbitero con il titolo di S. Pudenziana.
Con le promozioni cardinalizie del 1549 Paolo III intese rafforzare il gruppo di propri aderenti per ostacolare i piani per il pontificato del cardinale Ercole Gonzaga e del fratello Ferrante, suoi acerrimi nemici dopo i fatti del 1547. Nel conclave del 1550 Medici si unì al partito imperiale, capeggiato da Alessandro Farnese, contrapposto a quello francese. Le due fazioni raggiunsero infine un accordo sul nome di Giovan Maria Ciocchi del Monte, eletto papa contro le candidature del partito spagnolo e le aspirazioni alla tiara di Ercole Gonzaga.
Sotto Giulio III, Giovan Angelo fu nominato prefetto della Segnatura di Grazia e governatore di Campagna e Marittima (1552). Ricevette in commenda l’abbazia di S. Silano in Romagnano e il priorato di S. Maria di Calvenzano, presso Marignano. Nel 1553 Carlo V lo ricompensò con il vescovado di Cassano Ionio, di giuspatronato imperiale, da Giovan Angelo concesso in amministrazione al nipote Marco Sittico Altemps. Incaricato nel luglio 1550 con il cardinale Bernardino Maffei di predisporre un piano di riforma della curia e del conclave, presentò il progetto definitivo in concistoro nel settembre 1552. Sulla questione venne di nuovo coinvolto da Marcello II e infine, durante il proprio pontificato, riordinò l’intera materia con la bolla In eligendis del 9 ottobre 1562.
La morte improvvisa di papa Cervini rese necessaria nel maggio 1555 la convocazione di un nuovo conclave. Farnese guadagnò anche Giovan Angelo Medici all’ipotesi di Gian Piero Carafa che divenne papa con il nome di Paolo IV. Le sue relazioni con i congiunti del nuovo pontefice furono improntate a un reciproco rispetto e a una confidenza che crebbe con gli anni. Nel 1556 divenne membro della Congregazione del S. Uffizio e ottenne il vescovado di Foligno. Il conflitto tra il pontefice e Filippo II pose il cardinale milanese nella difficile situazione di dover giustificare la propria condizione di suddito del re cattolico, viste anche le pressioni da lui esercitate per una soluzione pacifica, causa dei risentimenti del pontefice. Le difficoltà di quella congiuntura, il desiderio di consultarsi con il proprio protettore Cosimo I, ma anche la gotta e il catarro (che gli imponevano periodiche cure termali) lo indussero a lasciare Roma nell’estate 1558. Il 17 luglio entrò in Firenze, di dove partì dopo un breve riposo per i bagni di Lucca.
Intanto gli giunse notizia della sua possibile candidatura alla cattedra arcivescovile di Milano, ostacolata tuttavia dal possesso dei vescovadi di Cassano Ionio e Foligno (quest’ultimo dato in coadiutoria al nipote Gian Antonio Serbelloni, riservandosi il regresso, la collazione dei benefici e la metà della rendita). Giovan Angelo pensò, d’accordo con Cosimo I, di cedere il vescovado di Cassano a Giulio Medici. Il 20 luglio il cardinale d’Este, titolare del beneficio, presentò Giovan Angelo come suo successore, con il solito vincolo di regresso e il diritto di pensione.
Il corso degli eventi gli impose dunque di lasciare temporaneamente la Toscana per Milano, tanto più che ai primi di agosto gli giunse la notizia della morte del cognato Giberto Borromeo. Ricevuto da Filippo II il placet per il possesso temporale dell’arcivescovado, la sua nomina incontrò ancora qualche difficoltà per via delle pretese di Ippolito d’Este. Medici sollecitò la soluzione della vertenza raccomandandosi a Carlo Carafa: «io ho messo tutte le speranze in lei», gli confidò il 24 settembre. Gli chiese pure di «voler essere mezo con Sua Santità» per fargli «haver il priorato di Vertemate, quale è in casa mia et confina a le cose mie» (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 5698, c. 15). Lasciata Milano l’anno successivo, venne a conoscenza della morte di Carafa il 18 agosto 1559: la convocazione del conclave (5 settembre) e il suo esito lo condussero, questa volta definitivamente, a Roma.
Giovan Angelo Medici fu nominato pontefice dopo uno tra i più lunghi conclavi della storia il 26 dicembre 1559. La contrapposizione tra il partito francese e quello spagnolo si risolse a suo favore quando decisero di far convergere su di lui i loro voti anche i cardinali della fazione carafesca. Sui banchi delle scommesse le sue quotazioni furono elevate sin dalle prime votazioni: «È tenuto alto [spiegava l’informatore mantovano Bernardino Pia in un dispaccio dell’11 novembre] perché vi sono dua cardinali che hanno in lui in scommesse spesi più di sei millia scudi» (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 889, c. 654v).
L’Avvisatore romano dette conto nei primi mesi del 1560 dell’arrivo a Roma dei numerosi nipoti di Pio IV: futuri cardinali, vescovi, abati commendatari, candidati ai maggiori uffici curiali e amministrativi, nonché destinatari di pingui rendite ecclesiastiche. Innanzitutto i due Borromeo, Carlo e Federico; poi Gian Antonio, Gian Battista, Gabriele e Fabrizio Serbelloni; quindi Marco Sittico Altemps, con altri due suoi fratelli, Gabriele e Iacopo Annibale. Ricevuto definitivamente nelle proprie mani l’arcivescovado milanese, Pio IV lo destinò in amministrazione al cardinal nepote Carlo Borromeo il 7 febbraio 1560 (a Ippolito d’Este andarono, quale contropartita, tre abbazie francesi). Il fratello di Carlo, Federico, fu investito del bastone del Generalato della Chiesa: la sua morte precoce rese vano il tentativo della diplomazia pontificia di farlo principe di un piccolo Stato in territorio italiano. I legami parentali della famiglia del pontefice si stavano intanto allargando ai della Rovere, con il matrimonio proprio di Federico con Virginia, figlia di Guidobaldo duca di Urbino, e ai Gonzaga di Guastalla: la nipote Cecilia, figlia del marchese di Marignano, sposò Ottavio, fratello di Cesare Gonzaga, a sua volta unito in matrimonio con Camilla Borromeo; il terzo figlio di Ferrante, Francesco, venne nominato da Pio IV protonotario apostolico e quindi cardinale nel 1561. In doti, regali, rendite e pensioni Pio IV distribuì ai propri parenti durante i suoi sei anni di pontificato un’ingente quantità di denaro della Camera apostolica e della Dataria, superando ampiamente la somma utilizzata per questi stessi fini da Paolo IV.
Agli obiettivi perseguiti dalla politica nepotistica non furono del tutto estranee le misure di riforma del conclave e le preoccupazioni più volte manifestate da Pio IV sul sistema di nomina papale e sulle «mutationi» continue nella Corte romana che esso comportava. Si trattava infatti non solo di stabilire un giusto equilibrio tra i poteri giurisdizionali del Sacro Collegio e quelli delle autorità cittadine nel periodo di vacanza, ma anche di assicurare un passaggio al nuovo pontificato il più possibile indolore per i nipoti del papa defunto.
Nel settembre del 1561 Pio IV portò all’attenzione dei cardinali la questione, già affrontata da Paolo IV, relativa all’eventuale riconoscimento del diritto del papa di nominare un successore. I pareri dei teologi e dei dottori consultati furono in larghissima maggioranza negativi e il pontefice diede veste ufficiale al responso nel concistoro del 19 novembre. Nel settembre del 1561 venne inoltre pubblicata la bolla che proibiva la nomina del papa da parte dei prelati riuniti in concilio e indicava l’unica sede a ciò idonea in un conclave da convocarsi a Roma. La riforma dell’ottobre 1562 prevedeva la limitazione delle spese della Camera apostolica in sede vacante, la sospensione dell’attività delle Segnature di Grazia e Giustizia e della Dataria, la limitazione delle facoltà del camerlengo e del penitenziere, più rigide regole di clausura per i partecipanti, l’ammissione al conclave anche dei cardinali sottoposti a censura o scomunica, la riduzione del numero dei conclavisti, l’esclusione da questo ruolo di fratelli e nipoti di cardinali, di mercanti, ministri di principi, padroni di giurisdizioni temporali; infine pene più severe per chi avesse contravvenuto al divieto di fare scommesse su nomine papali e cardinalizie.
Non è difficile intravedere in queste disposizioni gli echi del processo ai Carafa, voluto da Pio IV subito dopo la sua nomina: apertosi il 1° luglio 1560, si concluse nel gennaio successivo con la condanna a morte del cardinale Carlo e del fratello Giovanni, conte di Montorio (Pattenden, 2013). La scelta di Pio IV di perseguire penalmente e con tanta ostinazione i nipoti di Paolo IV fu dovuta a precisi interessi e motivazioni: rafforzare l’autorità del pontefice di fronte al collegio cardinalizio, smobilitare una fazione ancora forte in Curia, indebolendo in questo modo gli stessi Farnese per renderli più malleabili ai suoi piani, destinare ai propri nipoti i beni sequestrati ai condannati. Vi influì probabilmente anche il ricordo dei sospetti di eresia che su di lui aveva sollevato durante il conclave Alfonso Carafa, arcivescovo di Napoli, infine ‘graziato’ in cambio di pesanti riparazioni monetarie (trattamento simile subì il cardinale Innocenzo del Monte, incarcerato per un delitto commesso mentre si recava al conclave del 1559).
La politica di papa Medici fu caratterizzata da alcuni tratti tipici dei pontificati del primo Cinquecento e si indirizzò apertamente contro le rigidità teologiche del suo predecessore. La riabilitazione di Giovanni Morone, l’assoluzione di Pietro Carnesecchi e la riammissione nei loro ruoli di altre personalità cadute in disgrazia sotto Paolo IV erano la dimostrazione dello scontro in atto ai vertici della Curia papale e della supremazia, in quella fase, del partito imperiale, costituito in larga parte da cardinali consapevoli, tra l’altro, di dover affrontare con strategie più accomodanti le urgenze del mondo germanico. Affidandosi a uomini come Giovanni Morone, Ercole Gonzaga, Girolamo Seripando per i maggiori problemi allora in discussione nell’Europa cristiana, Pio IV dimostrò di condividere, seppure nei limiti imposti dai tempi mutati, un abito mentale ancora disponibile al compromesso. Inoltre, con la promulgazione nel 1564 del cosiddetto Indice tridentino egli intese da un lato attenuare le censure di Paolo IV su alcune categorie di libri, dall’altro investire gli ordinari diocesani di competenze fino allora esercitate dai commissari del S. Uffizio (come quella di soddisfare le richieste di lettura dei volgarizzamenti biblici da parte dei laici). Si trattò di scelte volte a contenere i poteri dell’Inquisizione: con questo obiettivo Pio IV aveva tra l’altro subordinato al proprio giudizio finale l’esito dei processi contro personalità laiche ed ecclesiastiche. Il suo pontificato, nonostante le conclusioni del Tridentino dovessero infine indirizzare anche le sue scelte verso esiti più coerenti con il clima di chiusura di quegli anni, costituì dunque una parentesi per la Chiesa romana: di moderazione e pragmatismo.
La ripresa del concilio richiese al papa lunghe trattative con le maggiori potenze cattoliche (Spagna, Impero e Francia). In particolare Filippo II desiderava fosse esplicitamente affermata nella bolla di convocazione la continuità con le precedenti assemblee, mentre Parigi e Vienna auspicavano l’apertura di un’assemblea del tutto nuova. La situazione francese angustiava non poco Pio IV per la politica di apertura verso i calvinisti adottata da Caterina de’ Medici. Sul fronte tedesco, immediato, dopo la rottura tra Impero e papato sotto Carafa, fu il riconoscimento della validità della nomina imperiale di Ferdinando I e di quella a re dei Romani del figlio Massimiliano.
La sensibilità verso i problemi dell’area germanica fu evidente nella decisione di concedere a Massimiliano, re di Boemia, la comunione con il calice; di riconoscere il medesimo privilegio anche ai cattolici di alcuni principati tedeschi e austriaci; di dichiararsi disponibile a discutere la richiesta imperiale di concedere il matrimonio ai preti in Germania. Il fallito attentato del 1564 va probabilmente contestualizzato nel clima di malumori (curiali e spagnoli) determinato proprio da queste posizioni di compromesso (Bonora, 2011).
L’assemblea conciliare si aprì finalmente il 18 gennaio 1562, incontrando le prime serie difficoltà a primavera, quando il confronto si incentrò sull’obbligo di residenza. La divisione tra i sostenitori dell’obbligo de iure divino e i curialisti suscitò contrasti tra gli stessi legati (alle posizioni radicali di Gonzaga e Seripando fece da contraltare il curialismo dell’uomo di fiducia di Pio IV, il cardinale Ludovico Simonetta). Iniziò così una difficile fase nei rapporti tra le differenti componenti nazionali, partitiche e teologiche presenti a Trento, tra Pio IV e Filippo II (anche per il ruolo svolto nella vertenza dai prelati spagnoli), tra gli stessi legati e Roma. Prevalse infine, anche sull’indecisione del pontefice, il punto di vista dei curialisti.
Per la positiva conclusione del concilio, dopo le minacce di abbandonare i lavori dei prelati francesi e imperiali decisi a sostenere fino in fondo le loro richieste in merito alla riforma della Curia, alla definizione dei poteri del papa e ad alcune questioni dogmatiche, fu decisivo il ruolo di Giovanni Morone, subentrato nella carica di presidente a Ercole Gonzaga, deceduto nel marzo del 1563.
L’opera di applicazione del Tridentino prese avvio fra altrettante difficoltà e opposizioni. I decreti vennero confermati dal pontefice nel concistoro del 26 gennaio 1564 (la bolla fu pubblicata solo il 30 giugno); nel marzo 1564 fu ribadito l’invito ai vescovi presenti in curia a rispettare l’obbligo di residenza; ad agosto venne istituita la congregazione sopra l’Esecuzione e l’osservanza del concilio. A Roma intanto Pio IV avviò la visita delle chiese cittadine e l’erezione del seminario, affidandosi per quest’opera ai gesuiti, nonostante le polemiche di parte del clero secolare contro la Compagnia.
La chiusura dei lavori conciliari non risolse le incomprensioni, teologiche e giurisdizionali, tra Pio IV e il re Cattolico. Sui loro rapporti, destinati a rimanere difficili, pesò anche il rammarico del pontefice per il suo temporeggiare nella questione turca. Si giunse così all’asprezza di toni dei tempi di Paolo IV, tanto più che si intensificarono contemporaneamente i tentativi della S. Sede di riallacciare più strette relazioni con la corte francese.
La decisione di delegare al pontefice la cosiddetta riforma dei principi, presa a Trento per questioni di opportunità politica, lasciò a Pio IV ampi margini di manovra sulle questioni (amministrative, fiscali e relative a decime e benefici) che erano costantemente motivo di discussione o materia di scambio di favori tra Roma e le corti principesche. La politica di Pio IV fu rivolta a salvaguardare il nuovo equilibrio raggiunto in Italia con la pace di Cateau-Cambrésis.
Nel sostenere la politica conciliare i maggiori principati italiani riconoscevano la stretta dipendenza dei loro interessi dalla posizione del papato sullo scacchiere europeo. In tale contesto Pio IV fu ben disposto a concedere ai duchi di Firenze, Mantova e Urbino e alla Repubblica di Venezia i diritti di nomina alle principali chiese cittadine (giuspatronato), così come la facoltà di riscuotere decime o di tassare i beni ecclesiastici per finanziare università, biblioteche, accademie. Per l’importante ruolo avuto in occasione del conclave e del Concilio Cosimo I de’ Medici fu ricompensato con le nomine cardinalizie dei figli Giovanni e Ferdinando e del favorito Angelo Nicolini. Nell’ambito del piano di ripristino delle rappresentanze papali nelle capitali degli Stati italiani, nel 1562 venne definitivamente istituita la nunziatura di Firenze. Cosimo I ricevette poi da Pio IV l’approvazione dell’Ordine militare religioso di S. Stefano, dotato di rendite di provenienza regolare. Ma soprattutto spettò a Pio IV l’avvio dell’iniziativa che portò il successore Pio V a riconoscere ai Medici il titolo di granduchi. L’attività antiprotestante costituì il terreno di confronto, tra collaborazione e incomprensioni, con Venezia. Proprio nell’ambito della lotta contro l’eresia crebbe invece la relazione tra Pio IV ed Emanuele Filiberto, in particolare dopo l’istituzione della Nunziatura (1560), motivo d’onore per il duca. Particolarmente privilegiato, e non poteva essere altrimenti, fu il rapporto di Pio IV con la propria città natale, Milano. La particolare attenzione al Collegio di cui era stato membro portò Pio IV a riconoscere ai giureconsulti milanesi la dignità di conti dei Palazzi Apostolici (1560), confermando l’antico privilegio di creare notai, giudici e dottori, e concedendo loro il diritto di presentare una terna di nomi per gli uffici di avvocato concistoriale e di auditore di Rota nella curia pontificia. Una certa inquietudine (e un’opposizione infine vincente guidata dai vescovi lombardi) suscitò nel 1563 il temporaneo consenso papale alla richiesta di Filippo II di introdurre a Milano l’Inquisizione spagnola. Alla sua corte arrivarono con i nipoti altri milanesi, avviati a una carriera curiale il cui esito fu per molti il cardinalato: su 46 nomine cardinalizie quasi il 20% fu costituito da lombardi (Visceglia, 2013, p. 233).
L’attività politico-diplomatica degli anni di Pio IV richiese alla Curia papale e alla sua diplomazia un intenso impegno nella conduzione degli affari spirituali e temporali della Chiesa. La Segreteria di Stato conobbe proprio in quegli anni significativi mutamenti nella propria organizzazione. A interventi di riforma furono soggetti tra il 1561 e il 1562 anche i maggiori dicasteri e tribunali, con provvedimenti intesi a ridimensionare la pletora degli uffici, a precisarne procedure e competenze, a migliorarne, come nel caso della Camera apostolica, l’amministrazione interna. Si trattò di riforme attinenti più all’operato della Chiesa come autorità universale e spirituale che all’ambito di intervento della sua potestà temporale. Sotto quest’altro aspetto prevalse la salvaguardia dell’equilibrio raggiunto tra feudalità, ceti dirigenti cittadini e legati papali nei decenni precedenti. A causa del vistoso aumento delle uscite – in particolare per l’organizzazione del concilio, la difesa di Avignone, lo sviluppo urbanistico promosso in Roma – anche l’organizzazione fiscale e finanziaria dovette in parte essere rivista. Si fece fronte alle enormi spese soprattutto attraverso una pesante tassazione, che colpì le popolazioni degli Stati pontifici causando agitazioni e sommosse. Servirono allo scopo anche la ripresa su vasta scala della vendita degli uffici, l’incremento dell’attività di composizione ‘in denari’ delle liti giudiziali e la rinnovata pratica, nonostante i decreti tridentini, di concedere regressi e resignazioni. Le stesse promozioni cardinalizie, immettendo sul mercato le cariche lucrose di chierico e di auditore di Camera lasciate vacanti dai neoeletti, finirono per costituire una cospicua voce d’entrata. Pio IV incrementò poi il debito pubblico istituendo Monti e cariche onorarie che rappresentavano per il titolare un investimento a interesse e un’immediata promozione sociale. La sensazione degli investitori privati fu tuttavia quella di trovarsi di fronte a un quadro economico-finanziario estremamente debole, in cui gran parte delle entrate dello Stato e della Curia erano praticamente ipotecate, in costante aumento le uscite, soggetti a processi deflazionistici i titoli onorifici, a rischio, per il conflitto religioso in corso, le entrate cosiddette spirituali.
L’opera di Pio IV in campo culturale e artistico è stata giustamente giudicata degna di un pontefice del Rinascimento. Pio IV accolse molti intellettuali presso gli uffici curiali e la Biblioteca Vaticana, colmandoli di benefici ed elevandone alcuni anche alla porpora. Chiamò a Roma Paolo Manuzio, fondatore della Stamperia romana. Nell’Accademia delle Notti Vaticane, fondata da Carlo Borromeo, furono accolti tra gli altri Sperone Speroni, Francesco Alciati, Silvio Antoniano e Giovanni Battista Amalteo. Ma fu in campo urbanistico e architettonico, dove si servì in particolare dell’opera di Michelangelo e dell’eclettico Pirro Ligorio, che Pio IV ebbe modo di manifestare compiutamente il proprio mecenatismo. Egli pianificò lo sviluppo di Roma fondando, a partire da esigenze difensive, Borgo Pio; migliorò la rete viaria, affidò a Michelangelo il progetto di Porta Pia, continuò la costruzione di S. Pietro; portò a compimento il Belvedere e il Casino che porta il suo nome; favorì numerose altre fabbriche, civili e religiose, obbligando i cardinali al restauro delle chiese di cui erano titolari e trasformando egli stesso le Terme di Diocleziano in S. Maria degli Angeli, sempre su disegno di Michelangelo. Come già era accaduto per Roma, Pio IV intraprese opere di fortificazione anche nei porti di Civitavecchia, Ostia, Ancona e in altre città dello Stato.
Pochi mesi prima di morire, il 18 maggio 1565, tracciò davanti ai cardinali riuniti in concistoro una sorta di bilancio del proprio pontificato, ritornando sui temi a lui cari della lega contro i turchi, della nomina del successore, delle conseguenze per la S. Sede della politica nepotistica. Diviso tra pentimento per gli errori commessi e consapevolezza della necessità di imporre delle regole più rigide per impedire lo sfaldamento della Sede apostolica, Pio IV trovò comunque ancora modo di giustificare la richiesta di favori per i propri familiari e collaboratori. Segno emblematico di un’attività riformatrice costretta entro l’‘antico’ sistema di valori, il dovere di carità (pietas) verso il proprio clan conobbe un ultimo sussulto l’8 dicembre. Sul letto di morte, Pio IV chiese ai cardinali riuniti nella sua stanza considerevoli somme di denaro, rendite e doti per i propri parenti. Nel testamento, infine, dichiarò erede per un quinto il fratello Agosto, per le altre quattro parti i figli delle due sorelle, Carlo Borromeo e i fratelli Marco Sittico, Iacopo Annibale e Gabriele Altemps.
Morì il 9 dicembre 1565, probabilmente per le complicazioni seguite a un’infezione alle vie urinarie. Il suo corpo, sepolto dapprima in S. Pietro, fu definitivamente trasferito in S. Maria degli Angeli il 4 gennaio 1583.
Fonti e Bibl.: Per le indicazioni archivistiche e bibliografiche si rimanda a: L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, VII, Roma 1950; e F. Rurale, Pio IV, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 142-160; da integrare con le recenti pubblicazioni: M.C. Giannini, Fra autonomia politica e ortodossia religiosa: il tentativo d’introdurre l’inquisizione “nel modo di Spagna” nello Stato di Milano (1558-1566), in Società e storia, XIV (2001), pp. 79-134; F. Rossi, Lo zio di S. Carlo: Pio IV, il papa che ‘scoprì’ Carlo Borromeo, Milano 2001; A. Menniti Ippolito, Il governo dei papi nell’età moderna, Roma 2007; E. Bonora, Morone e Pio IV, in Il cardinale Giovanni Morone e l’ultima fase del concilio di Trento, Bologna 2010, pp. 21-52; S. Redaelli, Pio IV, un pirata a San Pietro. Santi e tagliagole nell’Italia del 1500, Milano 2010; E. Bonora, Roma 1564. La congiura contro il papa, Roma 2011; M. Pattenden, Pius IV and the fall of the Carafa, Oxford 2013; M.A. Visceglia, Morte e elezione del papa. L’età moderna, Roma 2013.