PELAGIO II, papa
PELAGIO II, papa. – Nacque a Roma, figlio di Vinigildo (forse d’origine gota), in data imprecisata.
Non si ha alcuna notizia su di lui antecedentemente all’elezione a vescovo di Roma: succedette a Benedetto I, dopo una vacanza di quasi quattro mesi, domenica 26 novembre 579 (senza l’approvazione preliminare dell’imperatore Tiberio I, probabilmente a causa della situazione militare, essendo la città in quel momento – secondo il Liber pontificalis – assediata dai Longobardi).
Dell’inizio del pontificato, si segnala innanzitutto un atto gravido di conseguenze per il futuro: Pelagio convinse Gregorio, il quale dal 575 aveva abbandonato la vita pubblica per ritirarsi nella residenza di famiglia sul Celio trasformata in monastero, a entrare al servizio della Chiesa romana come diacono e lo inviò come apocrisario a Costantinopoli (fine 579). Tra i principali compiti del suo pontificato vi era quello di riposizionare Roma sullo scacchiere della politica internazionale.
Nel 580 le relazioni con il Regno franco furono pertanto riallacciate, non senza difficoltà. Il papa si rivolse ad Aunario, vescovo di Auxerre, che non poteva raggiungere Roma per ragioni di sicurezza, inviando reliquie destinate anche al re franco Childeberto II, e auspicando la richiesta da parte del vescovo di un intervento militare dei Franchi contro i Longobardi. La corrispondenza tra i due ebbe poi un seguito nel 586 o 587, quando Aunario aggiornò Pelagio in merito ai progressi della fede e alla costruzione di numerose nuove chiese raccomandandosi alla preghiera del papa. Pelagio gli rispose rallegrandosi per la prosperità della Chiesa e domandò, a sua volta, al vescovo di pregare per i Romani.
Sul fronte costantinopolitano, nel 584 Pelagio, attraverso il «notarius» Onorato e il vescovo Sebastiano, inviò una lettera all’apocrisario Gregorio. Descrisse il tradimento dei Longobardi, che avevano «violato i loro giuramenti», riferendosi con queste parole alla restaurazione del Regno (dopo la fase di interregno seguita alla morte di Alboino). Poiché il patrizio Decio, rappresentante in Italia dell’autorità imperiale, aveva dichiarato di trovarsi nell’impossibilità di difendere Roma, Pelagio incaricò Gregorio di chiedere all’imperatore l’invio di un «magister militum» e di un «dux» per la regione di Roma.
Nel 585, dopo alcuni tentativi militari infruttuosi, l’esarca Smaragdo (subentrato a Decio) concluse con Autari una tregua triennale, che consentì a Pelagio di dedicarsi a impegni più specificamente ecclesiastici. Forse in questo stesso periodo Pelagio ebbe contatti con le Chiese africane. In data ignota ricevette tramite il chartularius Ilario una petizione dei vescovi di Numidia, in cui gli veniva chiesto di convalidare le antiche consuetudini peculiari della loro provincia. Pelagio rispose positivamente alla richiesta, che tra l’altro riguardava le procedure per potere accedere all’episcopato.
In questo stesso anno oppure nel successivo Pelagio incaricò Onorato del ruolo di apocrisario, richiamando a Roma Gregorio per consentirgli di tornare alla vita monastica, continuando tuttavia a servirsene quale consigliere. E ancora nel 585, oltre vent’anni dopo la morte di Pelagio I, Pelagio cercò di restaurare la comunione con le Chiese dell’Italia settentrionale (in particolare della Liguria e della «Venetia et Histria»), ormai da tre generazioni di vescovi separate da Roma in nome della fedeltà alla causa dei Tre Capitoli (condannati nel 553 dal secondo Concilio di Costantinopoli) e riunite attorno al patriarca di Aquileia.
Approfittando della tregua con i Longobardi, il papa mandò in legazione il vescovo Redento di Ferentino e l’abate romano Quodvultdeus con una lettera destinata al vescovo di Aquileia Elia e ai suoi sostenitori. La moderazione e la prudenza di questo testo, sia nella sostanza (non vengono menzionati né i Tre Capitoli né la parola scisma) sia nella forma, rivelano un’evoluzione della politica papale. Si prospettava così una road map di riconciliazione estremamente semplificata: non era necessario che il vescovo di Aquileia si spostasse dalla sua sede, né si reclamava una condanna dei Tre Capitoli.
Pelagio lanciava un pressante appello all’unità e presentava una professione di fede molto simile a quella di Pelagio I, in cui proclamava la sua adesione alla fede degli apostoli e ai quattro Concili ecumenici di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia, omettendo il secondo Concilio di Costantinopoli. Dopo aver anatemizzato senza ulteriori specificazioni tutti gli eretici, dedicava un paragrafo agli eventuali sospetti nutriti dai vescovi dell’Italia settentrionale. Infine, la parte più sviluppata della lettera condannava ogni forma di divisione interna alla Chiesa, appoggiandosi a un variegato florilegio di testi paolini. La replica del presule aquileiese (che in una missiva presentata come collettiva tornò sull’esame della documentazione teologica e pose come condizione sine qua non per una riconciliazione delle Chiese della «Venetia et Histria» l’annullamento della condanna dei Tre Capitoli, e inviò a sua volta a Roma alcuni legati, con l’incarico di studiare insieme al pontefice il dossier tricapitolino) fu intransigente. La trattativa proseguì con una seconda lettera di Pelagio, che spostò il piano della discussione dalle specifiche questioni tricapitoline al problema generale dello scisma, appoggiandosi a testi agostiniani antidonatisti quasi a voler avviare un nuovo dibattito sul tema del fondamento istituzionale dell’autorità dottrinale di Roma. Propose inoltre ai suoi interlocutori di inviare a Roma legati accreditati a prendere le necessarie decisioni; e in subordine – se la soluzione prospettata non avesse incontrato l’approvazione di Elia – un concilio a Ravenna (sotto la tutela anche militare dell’esarca) per valutare nuovamente la questione e celebrare la riconciliazione. Alla ulteriore risposta negativa di Elia (che si appoggiava anche sulla memoria di Vigilio I e la sua battaglia contro la condanna dei Tre Capitoli), seguì una controreplica redatta dal diacono Gregorio, secondo una tradizione risalente a Paolo Diacono, spesso contestata, ma dimostrata di recente da Paul Meyvaert.
La controreplica del diacono Gregorio era un abile tentativo per riaprire la discussione sui Tre Capitoli, oltre trent’anni dopo il Concilio di Calcedonia. La strategia era quella di dilatare al massimo il terreno di intesa: era scontato che i vescovi scismatici condividevano con Roma non solo la fede dei primi quattro concili, ma anche il riconoscimento dell’autorità dei concili e della Sede romana, fino a Vigilio incluso, e con la menzione di «Giustiniano di pia memoria» l’accordo istituzionale veniva esteso implicitamente all’imperatore. Avendo in tal modo ridotto il dissenso al solo mutamento d’opinione di Vigilio, il terreno della discussione poteva spostarsi: i vescovi scismatici avevano fondato il loro giudizio su testi lacunosi e difettosi, un errore condiviso per lunghi anni da Vigilio e che spiegava la sua apparente volubilità. Dopo aver invitato tacitamente Elia a imitare Vigilio, il papa denunciava l’eresia dei Tre Capitoli, che non necessitava di alcuna dimostrazione. In quest’ultimo testo, il vescovo di Roma appariva tuttavia più combattivo. Se pure accettava ancora di render conto della sua «recta fides», poteva a sua volta ergersi ad accusatore degli interlocutori come fautori di divisione. Elia e i vescovi della «Venetia et Histria» erano sempre chiamati «dilectissimi fratres», ma la loro ostinazione era esplicitamente designata come peccato e non più soltanto come errore: lo scisma generava la propria condanna. L’ultimo paragrafo del lunghissimo testo conteneva un estremo appello alla riconciliazione, senza contemplare neppure le forme concrete di un ritorno alla comunione, al quale Pelagio/Gregorio sembravano aver cessato di credere.
Il tentativo di riconciliazione si tradusse in un fallimento. In seguito, il papa cambiò politica, chiedendo all’esarca Smaragdo un intervento militare, che provocò ovviamente da parte di Elia una richiesta (accettata) di protezione contro queste vessazioni. Tuttavia, alla morte di Pelagio nessun progresso era stato compiuto ai fini della riconciliazione dei sostenitori dei Tre Capitoli.
D’altra parte, dopo il 587, anche i rapporti con la chiesa di Costantinopoli si deteriorarono. Dagli atti di un sinodo riunito a Costantinopoli dal 587 Pelagiò apprese che il patriarca Giovanni IV il Digiunatore veniva designato come «patriarca ecumenico», appellativo che giudicò superbo, nefasto e pernicioso. Invalidò pertanto parte degli atti del sinodo e ordinò all’apocrisario di rifiutare la comunione a Giovanni finché non avesse rinunciato a quel titolo. Ma anche questo conflitto era destinato a rimanere, dopo la sua morte, un dossier aperto.
Qualche successo Pelagio lo ottenne sul piano del governo più propriamente ecclesiastico. Nel 588 estese alla Sicilia la disciplina romana, secondo la quale i subdiaconi già coniugati dovevano separarsi dalla moglie oppure rinunciare al ministero. Verso la fine del pontificato, Pelagio diede ascolto alle rimostranze di un chierico di Salona, Onorato, il quale sosteneva che il suo vescovo Natale voleva consacrarlo presbitero con l’intento di escluderlo dalla successione episcopale. Pelagio scrisse al vescovo di Salona per proibirgli di promuovere un chierico contro la sua volontà e dispose che venisse svolta sulla questione un’indagine minuziosa, che tuttavia non era stata ancora avviata alla morte del pontefice.
A Roma, Pelagio trasformò la propria casa in un ospizio per i poveri. Convalidò il testamento di un presbitero, Giovanni, che nella sua casa fondava un oratorio in cui insediare una comunità monastica. L’edificio, menzionato in due lettere di Gregorio Magno (ep. 6, 44; 9, 137), era situato «iuxta Thermas Agrippianas», nel Campo Marzio. Pelagio si occupò poi della risistemazione della cripta di S. Pietro, facendo ricoprire la tomba dell’apostolo di lastre d’argento (Liber Pontificalis, 65, 1, p. 309; Gregorio Magno, ep. 4, 30; Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, nr. 4117). Secondo una menzione di Gregorio (ep. 4, 30), i lavori di Pelagio furono accompagnati da un segno terrificante («signum ei non parvi terroris apparuit»). Inoltre, all’epoca di Pelagio, fu collocato nella basilica vaticana un nuovo ambone su cui era incisa un’iscrizione conservata dalla silloge di Einsiedeln. Il testo (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, nr. 4118) riporta la dedica del pontefice che fu coadiuvato nell’esecuzione dell’opera da «Iulianus praepositus secundicerius». Promosse degli interventi anche nella catacomba di Bassilla, sulla via Salaria, erigendovi in onore di s. Ermete una piccola basilica le cui vestigia, scoperte da Antonio Bosio nel 1608, furono restaurate nel 1843. Malgrado le resistenze, fece costruire una nuova chiesa a fianco della basilica costantiniana, sulla tomba di s. Lorenzo, che fu decorata con placche d’argento. Si conserva il mosaico dell’arco absidale, che rappresenta il Cristo in maestà, con santi, e Pelagio, unico personaggio privo di aureola, che offre il modello della nuova chiesa con le mani velate. Due iscrizioni (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VII, nr. 17671, 18371) celebrano la luminosità del nuovo edificio e ricordano le circostanze della costruzione. Durante i lavori venne aperta inavvertitamente la tomba del martire e monaci e guardiani presenti, dopo aver visto il corpo del santo, morirono tutti nell’arco di dieci giorni (Gregorio Magno, ep. 4, 30).
Nell’autunno del 589 l’Italia fu devastata da catastrofiche inondazioni; scoppiò una violenta epidemia (di peste bubbonica, secondo Gregorio di Tours) e il pontefice, il 7 febbraio, fu una delle prime vittime. Fu sepolto a S. Pietro in Vaticano; il suo epitaffio è perduto.
Fonti e Bibl.: Pelagius II, Epistulae, in PL, LXXII, coll. 703-706; G.B. de Rossi, Le due basiliche di S. Lorenzo nell’Agro Verano, in Bullettino di Archeologia Cristiana, II (1864), pp. 33 s.; Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, III, 20, 24, a cura di L. Bethmann - G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, pp. 103, 105; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 309-311; Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di G.B. de Rossi, II, Romae 1888, p. 156; Epistulae II ad Aunuarium Autissiodorensem, a cura di W. Gundlach, in Epistolae Merowingici et Karolini aevi tom. I, in MGH, Epistolae, III, a cura di W. Gundlach - E. Dümmler, 1892, pp. 448-450; Epistula ad Gregorium diaconum, in Gregorii I papae Registrum epistolarum lib. VIII-XIV, ibid., II, 3, a cura di P. Ewald - L.M. Hartmann, 1899, pp. 440 s.; Epistulae III ad episcopos Istriae, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, a cura di E. Schwartz, Strasbourg 1914, pp. 105-132; L. Duchesne, L’Église au VIe siècle, Paris 1925, pp. 244 s.; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, II, Tübingen 1933, pp. 352 s., 366-373; Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi - A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935; VII, a cura di G.B. de Rossi - A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1980; Gregorius episcopus Turonenses, Libri historiarum X, X, 1, in MGH, Scriptores rerum Merovingicarum, I, 1, a cura di B. Krusch - W. Levison, 19512, p. 477; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 225-230; B.M. Apollonj Ghetti et al., Esplorazioni sotto la confessione di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1951, p. 193; R. Krautheimer - S. Corbett - W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), II, Città del Vaticano 1962, pp. 1-146; Gregorius I papa, Dialogorum libri IV III, 16, 19, a cura di A. de Vogüé, Paris 1979 (Sources Chrétiennes, 260), p. 326; IV, 59, a cura di A. de Vogüé, Paris 1979 (Sources Chrétiennes, 265), p. 196; Il Suburbio, 1, a cura di U. Broccoli, in Corpus della scultura altomedievale, VII, 5, Spoleto 1981, pp. 211-234; Gregorius I papa, Epistola 1, 75 (petizione dei vescovi di Numidia); 2, 17, 18, 19 (istanza del diacono Honoratus di Salona); 2, 43 (lettera contro i Tre Capitoli); 4, 30 (signum durante i lavori a S. Pietro e a S. Lorenzo); 4, 34 (regolamentazione relativa ai suddiaconi); 5, 39, 41, 44; 9, 157 (conflitto con Giovanni il Digiunatore); 9, 138 (sulla fondazione dell’oratorio del prete Iohannes), in Registrum Epistularum, a cura di D. Norberg, Turnhout 1982 (Corpus Christianorum, Series Latina, 140, 140A), pp. 83 s.; 102, 104, 106; 132; 248 s.; 254; 315, 320 s., 329 s., 714; 689; Ch. Pietri, La géographie de l’Illyricum ecclésiastique et ses relations avec l’Église de Rome (Ve-VIe siècles), in Villes et peuplement dans l’Illyricum protobyzantin. Actes du colloque de Rome, 12-14 mai 1982, Roma 1984, pp. 21-62 e in Id., Christiana Respublica. Éléments d’une enquête sur le christianisme antique, Roma 1997, pp. 547-588; A. Tuillier, Grégoire le Grand et le titre de patriarche øcuménique, in Grégoire le Grand. Actes du colloque CNRS, Chantilly, 15-19 septembre 1982, a cura di J. Fontaine et al., Paris 1986, pp. 69 s.; P. Meyvaert, A letter of Pelagius II composed by Gregory the Great, in Gregory the Great: a symposium, a cura di J.C. Cavadini, Flanner Hall (Ind.) 1996, pp. 94-116; R.A. Markus, Gregory the Great and his world, Cambridge 1997; C. Sotinel, The Three Chapters and the transformations of Italy, in The Three Chapters and the failed quest for unity (Studies in the Early Middle Ages), a cura di C. Chazelles - K. Kubitt, Turnhout, 2007, pp. 82-120; C. Straw, Much ado about nothing: Gregory the Great’s apology to the Istrians, ibid., pp. 121-160. Si vedano inoltre i lemmi seguenti: Enciclopedia cattolica, IX, s.v., coll. 1078 s.; Dictionnaire de théologie catholique, XII, 1, Paris 1932-33, s.v., coll. 669-675; Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, Freiburg 19632, s.v., col. 250; Catholicisme, X, Paris 1985, s.v., coll. 1090 s.; Lexicon Topographicum Urbis Romae, II, Roma 1995, s.v. Domus: Pelagius II, p. 154; Dizionario storico del Papato, a cura di P. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1296 s.; Enciclopedia dei Papi, Roma, 2000, s.v., pp. 541-545.