PASQUALE I, papa
PASQUALE I, papa. – Figlio di un certo Bonoso e di Teodora, nacque nella seconda metà dell’VIII secolo, forse a Roma, dove ebbe la sua formazione clericale all’interno del patriarchium lateranense.
Stando alle notizie fornite dal Liber Pontificalis egli fu prima suddiacono e poi presbitero, secondo una prassi comune per l’epoca, acquisendo una profonda conoscenza del canto salmodico e delle sacre scritture. Successivamente, forse proprio in virtù delle sue competenze in ambito liturgico, venne nominato da papa Leone III (795-816) rettore del monastero di S. Stefano Maggiore presso la basilica di S. Pietro, uno dei monasteri che garantivano quotidianamente il servizio liturgico alla basilica vaticana. Egli venne presentato ai monaci ivi residenti, sempre secondo il Liber pontificalis, come uomo dalle straordinarie virtù morali e religiose, fulgido esempio di vita consacrata: virtù che sembra furono confermate durante la sua attività all’interno del monastero, dove Pasquale si distinse nell’opera di assistenza ai bisognosi utilizzando direttamente i propri averi. Sebbene questa rappresentazione del presbitero Pasquale abbia molti dei connotati del testo agiografico, è comunque degno di nota che i suoi biografi abbiano tenuto a specificare che egli operò misericordiosamente usando dei suoi possessi, fatto questo che sembra comunque indicarne la particolare statura morale. L’attività presso questo monastero e la fama ricevuta per i suoi comportamenti lo portarono di lì a poco a essere eletto al soglio di Pietro: Pasquale infatti successe a Stefano IV pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta il 24 gennaio 817, probabilmente il 26 dello stesso mese. La breve vacanza di Sede tra i due pontificati, cosa insolita per il periodo, conferma l’idea di un’ampia convergenza delle diverse componenti sociali che partecipavano all’elezione del papa verso la figura del rettore di S. Stefano.
Appena salì al soglio di Pietro, il nuovo papa dimostrò subito anche una buona attitudine politica. Egli inviò infatti un’ambasceria all’imperatore franco Ludovico il Pio, con la quale lo informò della sua elezione, avvenuta secondo i canoni e senza alcuna ambizione da parte sua. L’anonimo biografo di Ludovico, noto come l’Astronomo, ci informa anche che a questa prima legazione ne seguì, poco dopo, un’altra, guidata dal nomenclator Teodoro, con la quale il nuovo papa intese garantirsi l’appoggio dell’imperatore, confermando i tradizionali rapporti di amicizia che legavano le due istituzioni. In segno di riconoscenza per il gesto papale, l’imperatore consegnò al legato di Pasquale un patto, sotto forma di privilegio, con cui egli rinnovò l’intesa tra la dinastia carolingia e i papi, concedendo e confermando i possedimenti che la Chiesa di Roma teneva in potestà, e garantendo il sostegno imperiale ai fini di un corretto svolgimento delle future elezioni papali.
In questo testo, noto come Hludowicianum, l’imperatore, riprendendo un atto di pari tenore che era stato il frutto della trattativa con il predecessore di Pasquale, Stefano IV, durante il soggiorno di questi a Reims avvenuto nell’816, concesse pertanto a s. Pietro e al suo vicario in pieno diritto la città di Roma e il suo Ducato, la Tuscia romana e la Campagna; e rinnovò le donazioni già fatte dal suo predecessore Carlo relative all’Esarcato, alla Pentapoli, alla Sabina e alle città della Tuscia longobarda e del Beneventano, impegnandosi anche a garantire con il proprio operato la difesa di questi territori e il completo esercizio delle prerogative papali su di essi.
Se i rapporti con il mondo carolingio erano molto buoni (favoriti dal progressivo disinteresse di Ludovico per le questioni italiane), così non era con l’altra autorità universale che si affacciava sul Mediterraneo, l’imperatore di Bisanzio. Sin dall’813, infatti, la capitale orientale era nuovamente in mano a un partito contrario al culto delle immagini, che aveva trovato nel generale armeno Leone il suo paladino. L’avvento del nuovo papa fece forse credere all’imperatore di poter trovare un alleato nella sua campagna iconoclasta; tra la fine dell’817 e i primi mesi dell’818 egli inviò una legazione a Roma per convincere il neoeletto della bontà delle proprie posizioni. Stando ad alcuni cenni di una lettera inviata a Pasquale dal monaco greco Teodoro Studita, l’ambasceria potrebbe essere stata composta sia da delegati imperiali sia da rappresentati del patriarca illegittimo di Costantinopoli, Teodato, ma il papa accolse solo i primi, rifiutando di incontrare coloro che recavano la lettera sinodica del patriarca.
Il testo della lettera imperiale non è giunto sino a noi, ma ci è stata tramandata (nel manoscritto Ambrosiano H257 inf., ff. 138v-140, della Biblioteca Ambrosiana di Milano, databile, nelle sue varie sezioni, tra il XII e il XIV secolo) la parte dogmatica della lettera di risposta di Pasquale. Scritto in greco, il testo dimostra una profonda conoscenza da parte del pontefice dei Padri della Chiesa orientali, dai quali il pontefice trasse tutta una serie di estratti dogmatici per argomentare teologicamente la sue obiezioni all’imperatore e affermare la sua fede iconodula come l’unica legittima. Per la redazione della lettera egli usufruì forse di quei monaci orientali che, sotto minaccia di persecuzione, si erano trasferiti a Roma.
La posizione iconodula del pontefice non si manifestò unicamente a sostegno di coloro che tra gli orientali permanevano nell’ortodossia iconodula, ma si concretizzò anche nelle opere architettoniche e decorative che Pasquale realizzò in città sin dall’inizio del suo pontificato. Vi sarebbe infatti una corrispondenza diretta tra gli orientamenti della Chiesa romana riguardo al culto delle immagini e la scelta di alcuni particolari programmi decorativi, specialmente con quelli di S. Maria in Dominica e di S. Prassede, che ruotavano intorno alla figura di Maria in trono con il bambino, con un chiaro riferimento al dogma della Theotokos. (cfr. Ballardini, 2007, pp. 200 s.). Sempre secondo il Liber Pontificalis, tra l’817 e l’820 il pontefice condusse infatti una poderosa opera di ristrutturazione e costruzione ex novo di alcuni luoghi di culto cittadini, che lo resero uno dei principali artefici della rinascenza artistica di questo secolo.
Nell’817 (tra gennaio e agosto) egli costruì l’oratorio dei Ss. Processo e Martiniano presso la basilica di S. Pietro, luogo destinato a mausoleo personale del pontefice, dotandolo di un mosaico; tra la fine di quello stesso anno e l’agosto dell’818 riedificò la basilica di S. Prassede all’Esquilino, dove fece realizzare un mosaico e un arco trionfale; tra il settembre 818 e l’agosto 819 trasferì alcune reliquie nella basilica di S. Prassede da poco ultimata, vi edificò l’oratorio di S. Zenone, destinato a mausoleo della madre Teodora, e la dotò di un monastero, costruito dalle fondamenta, che venne affidato a una comunità di monaci orientali. Nello stesso periodo, inoltre, ricostruì completamente la chiesa di S. Maria in Dominica, sita sul Celio, adornandola di mosaici e dotandola dell’arredo liturgico necessario; tra il settembre dell’820 e l’agosto dell’821, infine, ricostruì la basilica di S. Cecilia e vi trasferì le reliquie della santa e dei suoi compagni di martirio, ritrovate dopo una miracolosa inventio (secondo un topos agiografico, la santa sarebbe apparsa direttamente in sogno al pontefice indicandogli il suo luogo di sepoltura).
All’intensa attività di recupero dei luoghi di culto corrispose nella volontà del pontefice anche una campagna di ricerca e traslazione delle reliquie dei martiri dalle basiliche cimiteriali periferiche ai luoghi di culto interni alla città: Pasquale fu il primo pontefice a organizzare su larga scala un’operazione di questo tipo, che segnò il definitivo declino della devozione secolare presso i santuari suburbani. Una lapide conservata ancora oggi presso la basilica di S. Prassede, fatta apporre da Pasquale, rende bene l’idea della portata dell’iniziativa: in essa si ricorda che per volontà del pontefice duemilatrecento corpi di martiri vennero traslati dalle catacombe alla chiesa urbana da lui edificata.
Questo impegno sembra però essersi fortemente ridotto a partire dall’820. Il Liber Pontificalis infatti attribuisce al triennio successivo unicamente donazioni di arredi sacri e qualche piccolo lavoro di restauro: nulla di comparabile con i cantieri di qualche anno prima. Unica eccezione fu la rifondazione, presso il palazzo del Laterano, del cenobio dei Ss. Sergio e Bacco, trovato dal pontefice in completo abbandono, e divenuto sede di una comunità monastica.
Anche questa iniziativa sembra inserirsi in un più ampio progetto di sostegno e riassetto delle comunità monastiche cittadine, di cui egli aveva fatto parte prima di essere eletto vescovo: il papa infatti prima di riorganizzare il monastero lateranense, aveva già edificato ex novo tre cenobi presso S. Prassede e S. Cecilia, affidando a monaci il servizio liturgico presso alcuni tituli cittadini, e inoltre avrebbe continuato a riservare un’attenzione particolare per il monastero di S. Stefano anche dopo aver assunto la carica papale.
Grazie a una sua serie di concessioni, infatti, tale monastero assunse un ruolo di primo piano nella realtà romana, come l’assegnazione della cappella vaticana di S. Maria de Turre che garantiva alla congregazione il controllo dell’accesso alla basilica di S. Pietro.
Alla diminuzione dell’attività in Roma corrisponde dopo l’820 un maggiore impegno nella politica estera. Ripresero infatti le ambascerie verso i Franchi, e a una prima nell’821, guidata dal vescovo Pietro di Civitavecchia e dal nomenclator Leone, ne seguì una successiva guidata da un certo Floro e dal primicerius Teodoro – già nomenclator al tempo della prima ambasceria dell’817 – con la quale il papa inviò doni per le nozze di Lotario, il figlio dell’imperatore affiancato al trono sin dell’817, e a cui era stata affidata dal padre la cura degli affari italiani. Forse fu proprio per adempiere a questi compiti che il giovane principe franco intraprese un viaggio nella penisola tra la fine dell’822 e i primi mesi dell’823. Pasquale lo invitò a Roma affinché celebrasse con lui la Pasqua, probabilmente con il desiderio di rinsaldare i rapporti con la dinastia carolingia e per consolidare la sua posizione all’interno della città; e in questo contesto si inserì l’improvvisa incoronazione con il diadema imperiale di Lotario durante la solenne messa pasquale celebrata in S. Pietro il 5 aprile.
La mossa del pontefice però non sembrò sortire gli effetti desiderati. Il giovane imperatore infatti si dimostrò meno docile del padre e più autoritario e risoluto nella gestione delle vicende romane. Chiamato in causa dal pontefice per avallare il desiderio della Chiesa di Roma di estendere i propri diritti sull’importante abbazia di Farfa, nel territorio sabino, il giovane imperatore sostenne, pur senza pronunciare un giudizio definitivo, la posizione di Ingoaldo, abate farfense, il quale rivendicava la protezione imperiale, concessagli sotto forma di tuitio e defensio dai re longobardi, e confermata da Carlomagno, contro le richieste papali, presentate dal bibliotecario apostolico Sergio.
A questa sorta di sconfitta si aggiunse l’improvviso inasprirsi della situazione interna alla città, dove gli aristocratici locali, scontenti forse del pontefice, avevano trovato in Lotario un appoggio solido per intraprendere delle azioni contro il clero cittadino e contro lo stesso papa.
In questo mutato contesto politico, poco dopo la partenza da Roma dell’imperatore furono incarcerati, accecati e in seguito decapitati il primicerio Teodoro e suo genero Leone, fedeli dell’imperatore e per questo forse ritenuti colpevoli di congiurare contro il papa. L’evento destò l’attenzione della corte imperiale che collegò l’uccisione dei due funzionari ai loro rapporti con Lotario e, pur con qualche riserva, individuò in Pasquale il possibile mandante dell’omicidio: per far luce sugli eventi l’imperatore inviò a Roma due suoi fedeli, l’abate di St. Vaast, Adalongo, e il conte di Chur, Hunfrido.
Il tentativo del papa (concretizzatosi nell’invio dei legati Giovanni vescovo di Silva Candida e Benedetto arcidiacono della Sede apostolica) di evitare questa missione investigativa risultò vano; ma egli non si perse d’animo, radunò in sinodo i vescovi e, compiendo il gesto della purgatio ad sacramentum, si proclamò innocente. Prese inoltre le difese degli autori materiali degli assassini, appartenenti alla familia Sancti Petri (il contingente di armati di stanza presso le domuscultae) dichiarando che essi avevano legittimamente ucciso coloro che si erano macchiati del crimine di lesa maestà. Lotario richiamò allora i suoi legati, che furono accompagnati nel viaggio di ritorno da una qualificata ambasceria papale (composta da Giovanni di Silva Candida, dal bibliotecario Sergio, dal suddiacono Quirino e dal magister militum Leone) con il compito di scortarli ed esporre la situazione all’imperatore Ludovico. L’esito fu positivo: l’imperatore infatti fu soddisfatto dalle motivazioni addotte dai legati, forse anche in virtù di un pragmatismo politico che rendeva auspicabile il rinnovo dell’alleanza tra lui e il papa.
Poco dopo il ritorno degli ambasciatori a Roma però Pasquale morì, probabilmente l’11 febbraio dell’824, giorno in cui viene tutt’ora celebrata la sua memoria liturgica, lasciando Roma e l’amministrazione lateranense in un clima di instabilità e incertezza politica.
Che la situazione cittadina fosse tutt’altro che pacificata lo dimostra il resoconto delle sue esequie redatto dal vescovo franco Tegano (altro biografo di Ludovico). Il popolo romano si oppose fortemente alla sepoltura di Pasquale nella basilica del Vaticano, sino a quando non gli fosse succeduto al soglio di Pietro l’arcipresbitero di S. Sabina Eugenio, sostenuto dalla fazione aristocratica: cosa che avvenne solo dopo una vacanza di circa tre mesi. Dopo una prima probable inumazione nella basilica di S. Prassede da lui fondata, il corpo di Pasquale venne traslato nella basilica di S. Pietro, dove venne sepolto nel sacello dei Ss. Processo e Martiniano, sotto lo sguardo dell’immagine del Cristo che egli aveva fatto realizzare subito dopo la sua elezione.
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