PAOLO IV, papa
PAOLO IV, papa. – Gian Piero Carafa nacque il 28 giugno 1476 a Capriglia (Avellino) da Giovanni Antonio, barone di Sant’Angelo della Scala, e da Vittoria Camponeschi.
Una precoce vocazione religiosa lo indusse agli studi teologici e, nel 1494, a trasferirsi a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica sotto la protezione dello zio, l’arcivescovo di Napoli e cardinale Oliviero Carafa, raffinato cultore di lettere e mecenate, dal quale fu introdotto diciottenne alla corte di Alessandro VI. Rapida la sua ascesa curiale: cameriere pontificio nel 1500 e protonotario apostolico nel 1503, nel 1506 fu inviato da Giulio II a Napoli per rendere omaggio a Ferdinando il Cattolico e negoziare il tributo d’investitura feudale della Corona di Napoli alla Santa Sede.
Vescovo di Chieti nel 1505, prese possesso della diocesi solo l’anno seguente a causa dell’ostilità del governo spagnolo verso la sua famiglia, tradizionalmente filoangioina, e vi risiedette fino al 1513. Malgrado le scarse notizie sulla sua attività episcopale, sappiamo che ebbe vivaci contrasti con le autorità e che avviò un’azione di riforma imperniata sul rafforzamento del potere del vescovo e su un austero disciplinamento dei costumi del clero locale.
Rientrato a Roma per partecipare al V Concilio Lateranense, fu impegnato fino al 1520 in missioni diplomatiche in Inghilterra (dove incontrò Erasmo, che ne lodò in alcune lettere l’erudizione e le qualità religiose), nelle Fiandre e in Spagna. Qui conobbe il futuro cardinale di Burgos, Juan Álvarez de Toledo, cui lo unì una duratura amicizia e, in seguito, una comune scelta religiosamente intransigente. Anche a causa del suo convinto antispagnolismo, non appena fu eletto imperatore Carlo V, che pure ne approvò la nomina a vescovo di Brindisi (1518), rientrò a Napoli (dove si adoperò per ristabilire la Confraternita dei Bianchi, dedita all’assistenza dei condannati a morte), poi a Roma (partecipando qui all’attività dell’oratorio del Divino Amore) e cominciò ad avvertire l’esigenza di una severa risposta della Chiesa alla diffusione della Riforma protestante, giudicata l’esito più nocivo della cultura filologica e umanistica.
Sotto il pontefice Adriano VI collaborò all’avviata opera di riforma curiale, ben presto però arenatasi al pari di quella abbozzata da Clemente VII, che, in vista del giubileo del 1525, lo incaricò di esaminare i vescovi consacrandi e di curare l’istruzione religiosa del clero romano. A questa data, però, Carafa aveva già riposto le proprie speranze di riforma nella creazione di un ordine religioso, pensato altresì come efficace strumento di contenimento antiereticale. Nel 1524 erano infatti nati, per volontà sua e del vicentino Gaetano di Thiene, i chierici regolari (noti poi come teatini, dal nome latino, Teate, della sua diocesi chietina), stabilitisi a Roma e ai quali aveva donato tutti i suoi beni (rinunziando nello stesso tempo ai vescovati, di cui conservò tuttavia la titolarità per volere del papa), divenendone superiore fino al 1527, quando fu sostituito da Gaetano.
Rigidamente disciplinati, i teatini congregarono preti che, pur agendo nel secolo, non erano obbligati a una particolare osservanza e dipendevano direttamente dal pontefice – e non come consuetudine dal vescovo della diocesi in cui operavano – distinguendosi per un rigorismo morale, che, accanto alla loro indefessa attività di denuncia degli eretici, alimentò contro di loro e contro Carafa una diffusa e feroce satira (‘chietino’ divenne allora sinonimo di santità affettata e fanatico bigottismo).
Tre anni dopo la fondazione dei teatini, i fallimentari esiti della politica antimperiale di Clemente VII conducevano al sacco di Roma, dal quale il Carafa scampò rifugiandosi con i suoi confratelli a Venezia, dove rimase fino al 1536 dedicandosi a un’infaticabile azione di controllo del clero e della predicazione, di riforma dei monasteri e di salvaguardia dell’ortodossia nei confronti delle prime esplicite manifestazioni di dissenso eterodosso nel Veneto. Gli incarichi affidatigli da Clemente VIII – come quello per la riforma dei francescani conventuali della provincia veneta – si risolse sistematicamente in denunce di infiltrazioni ereticali (così nel caso del maestro di teologia veneziano Girolamo Galateo e di altri conventuali, come Bartolomeo Fonzio e Alessandro Pagliarini), mentre i teatini, di cui tornò a essere superiore dal 1530, s’impegnarono a combattere la corruzione ecclesiastica, a raccogliere informazioni sugli eretici e a promuovere la propaganda cattolica.
Un’intransigenza che lo condusse a dubitare dell’ortodossia dello stesso Ignazio di Loyola (conosciuto appunto a Venezia) e soprattutto ad appellarsi al pontefice, cui nel 1532 indirizzò un lungo scritto nel quale, ribadendo l’intangibilità delle dottrine cattolico-romane e del primato della Sede apostolica, lanciava un grido d’allarme per l’intollerabile dilagare dell’eresia nella penisola (spesso, lamentava, favorita da ambigue accondiscendenze curiali) e ne indicava i rimedi non solo nella repressione ma anche nella realizzazione di una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche, il cui stato di corruzione, discredito e impotenza reputava la principale causa delle lievitanti simpatie incontrate tra i fedeli e tra lo stesso clero dal dissenso eterodosso. Di qui – come dimostrò poi la sua opera da pontefice – l’enucleazione di un uso assai estensivo del concetto di eresia, applicabile tanto al protestantesimo e a ogni forma di critica religiosa quanto ai responsabili di abusi ecclesiastici.
Proprio l’insistenza sulla reformatio Ecclesiae gli permise di collaborare nella seconda metà degli anni Trenta con quelle personalità più moderate e non di rado intimamente filoluterane, come il vescovo di Verona Giovan Matteo Giberti e il cardinale veneziano Gasparo Contarini, che peroravano un radicale rinnovamento della Chiesa nell’intento, opposto a quello carafiano, di avviare un dialogo con il mondo protestante. Occasione concreta di questa collaborazione fu l’avvento al soglio pontificio di Paolo III, che nel 1536 chiamò presso di sé gli ecclesiastici più aperti alle prospettive innovatrici (oltre a Carafa, a Giberti e a Contarini, Iacopo Sadoleto, Gregorio Cortese, Federico Fregoso, Reginald Pole) per lavorare alla riforma della Chiesa in vista della convocazione del concilio.
Lasciata così Venezia alla volta di Roma, dove il 22 dicembre 1536 ottenne la porpora cardinalizia, Carafa redasse insieme con gli esponenti delle correnti ireniche il celebre Consilium de emendanda ecclesia, il documento forse più significativo delle istanze riformatrici pretridentine. I drastici suggerimenti in esso contenuti, in particolare in materia beneficiale, suscitarono le risentite reazioni degli ambienti più tradizionalisti della Curia, accentuate poi dai tentativi di ristrutturazione della Dataria apostolica e, tra il 1539 e il 1540, della Penitenzieria (già pesantemente criticata da Carafa nel memoriale del 1532). Proprio allora però, mentre si palesava l’inconcludenza del rinnovamento promosso da Paolo III, Carafa si dissociò dalle posizioni riformatrici più radicali, probabilmente in virtù dell’adesione di non pochi esponenti curiali alle sue posizioni di inflessibile lotta all’eresia non condivise da Contarini. L’atteggiamento di compromesso dottrinale tenuto da quest’ultimo nel corso dei colloqui di religione cattolico-protestanti di Ratisbona del 1541 fu anzi duramente stigmatizzato da Carafa, ormai leader di un fronte intransigente in grado di sfruttare le crescenti preoccupazioni dei vertici ecclesiastici per la diffusione dell’eresia in molte città italiane e di ottenere così da Paolo III, con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, l’istituzione del tribunale del S. Uffizio, che, centralizzando l’attività delle inquisizioni locali operanti nella penisola, rappresentò quell’efficace strumento di repressione antiereticale da lui a lungo invocato.
Nelle sue mani l’Inquisizione romana divenne tuttavia anche e forse anzitutto un organo capace di epurare la classe dirigente ecclesiastica tramite indagini e processi contro prelati, vescovi e cardinali anche solo lontanamente sospettabili di aderire alle dottrine d’oltralpe. Con questi metodi il S. Uffizio riuscì a bloccare l’ascesa ai vertici della Chiesa e allo stesso papato degli esponenti dell’ala moderata, rappresentata dopo la morte di Contarini (1542) dai cardinali Giovanni Morone e Reginald Pole, favorevoli alla politica di conciliazione interconfessionale dell’imperatore Carlo V giudicata invece da Carafa un incentivo alla diffusione del protestantesimo.
Non meraviglia, pertanto, che nel 1547, in occasione della rivolta esplosa a Napoli contro il tentativo di introdurvi l’Inquisizione spagnola, egli cercasse di spingere Paolo III all’occupazione del Regno ergendosi a referente del baronaggio napoletano di antica fedeltà angioina. Di chiaro segno antispagnolo, d’altronde, fu la sua nomina nel 1549 ad arcivescovo di Napoli, dove il suo vicario, il fedele Scipione Rebiba, proseguì l’infaticabile opera repressiva contro i locali circoli valdesiani già precedentemente avviata dai teatini.
Nello stesso 1549, dopo la morte di Paolo III, Carafa sventò l’elezione pontificia di Pole presentando in conclave la compromettente documentazione sulla sua ‘eresia’ raccolta in gran segreto dall’Inquisizione. Sebbene il nuovo papa Giulio III cercasse di arginare simili iniziative liberando dalle carceri inquisitoriali il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo e bloccando l’inchiesta in corso su Morone, nei conclavi successivi il S. Uffizio riuscì a proporre come pontefici direttamente e con successo i propri membri: la tiara toccò infatti nell’aprile del 1555 al cardinale e inquisitore Marcello Cervini (Marcello II) e, dopo il brevissimo pontificato di questi, il mese seguente allo stesso Carafa (Paolo IV) in grado di battere in breccia le rinnovate candidature di Pole e Morone grazie alle ormai consuete accuse di eresia.
Dal soglio di Pietro Paolo IV riprese immediatamente l’opera riformatrice di fatto abbandonata negli anni Quaranta, revisionando le procedure per l’assegnazione delle diocesi, avviando la riforma disciplinare di conventi e monasteri, convocando una commissione per la rorganizzazione degli uffici e tribunali curiali e ampliando le competenze dell’Inquisizione, di cui seguiva personalmente i lavori, alla repressione degli abusi ecclesiastici. Un autoritario controllo esteso anche al governo temporale (emblematica in tal senso la creazione della Congregazione del Terrore degli ufficiali di Roma, diretta a vigilare sull’attività dei funzionari) e che colpì anche le comunità ebraiche dello Stato della Chiesa, dapprima con le aspre disposizioni contenute nella bolla Cum nimis absurdum del 14 luglio 1555, istitutiva del ghetto ebraico a Roma, e quindi, nell’autunno dello stesso anno, con una violenta campagna contro i marrani di origine portoghese da anni presenti ad Ancona.
Nel frattempo il pontefice diede seguito alla sua antica avversione antiasburgica, cercando e ottenendo a questo fine il sostegno della Francia di Enrico II, degli esuli partenopei francofili e di quelli ostili al governo mediceo di Firenze, allora principale alleato di Carlo V in Italia. Di segno antimperiale fu la stessa assegnazione del cardinalato (7 giugno 1555) e della conduzione degli affari politici al nipote Carlo Carafa, uomo d’armi transitato dal servizio asburgico a quello francese, già partecipe di azioni e congiure antispagnole e vicino alle cerchie del fuoriuscitismo regnicolo e antimediceo. In un clima di crescente tensione – con arresti e persecuzioni di prelati e rappresentanti filospagnoli a Roma e in cui Paolo IV giunse a contestare la legittimità dell’elezione imperiale del fratello di Carlo V, Ferdinando I, perché ottenuta con i voti dei principi protestanti tedeschi – inevitabile fu lo scontro con il baronaggio romano fedele agli Asburgo e capeggiato dai Colonna, il cui feudo di Paliano venne occupato dalle truppe pontificie.
Poiché l’alleanza con la Francia (dicembre 1555) non divenne operativa a causa dalla tregua franco-spagnola di Vaucelles (5 febbraio 1556), Paolo IV intensificò la sua provocatoria azione contro i Colonna, scomunicati ed espropriati di tutti i possedimenti (4 maggio 1556), e conferì Paliano in ducato al nipote Giovanni Carafa, conte di Montorio. Al contempo aprì negoziati con le corti europee per la riconvocazione del concilio con il solo intento di guadagnar tempo e convincere Enrico II a entrare nel conflitto ormai iniziato nel settembre del 1556 con l’arrivo di una spedizione spagnola diretta a recuperare i domini dei Colonna. La divergenza d’intenti emersa in queste delicatissime circostanze tra Carlo Carafa, disposto a trattare con gli spagnoli in cambio del ventilato acquisto di Siena, e Paolo IV, intenzionato a proseguire la guerra, influì negativamente sui successivi sviluppi bellici e politici, sebbene nel gennaio 1557 fosse stato raggiunto l’obiettivo di assicurarsi il tanto invocato aiuto militare francese.
S’intensificava intanto l’attività del S. Uffizio, ormai interessato a colpire gli esponenti più prestigiosi del dissenso religioso interno alla Chiesa anche in qualità di personalità di spicco del fronte filoasburgico. Di qui il 31 maggio 1557 l’arresto di Morone, a conclusione di un processo che fornì oltretutto preziose informazioni su altri indiziati (come l’ex protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, i vescovi Pietro Antonio di Capua, Giovanni Tommaso Sanfelice, Vittore Soranzo, Giovanni Francesco Verdura, Egidio Foscarari) subito anche questi processati; e di qui il tentativo di sottoporre ad analogo trattamento anche Pole, scampato però a sicura detenzione perché allora a Londra, dove nel 1558 morì.
Lo stesso rigore inquisitoriale Paolo IV non mostrò nei confronti dei suoi alleati e collaboratori politici: per il capo indiscusso del fuoriuscitismo antimediceo, Piero Strozzi, che svolse indisturbato un rilevante ruolo politico-militare al servizio del pontefice nonostante le accuse di eterodossia e persino di ateismo circolanti sul suo conto; per Renata di Francia, consorte dell’alleato duca di Ferrara, Ercole II d’Este, il cui processo per eresia avviato nel 1554 fu prudentemente insabbiato; per il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, esule in Francia dal Regno di Napoli, giunto a Roma nell’estate del 1557, insieme con Strozzi, per cooperare all’azione militare antipagnola, malgrado le sue note propensioni filoprotestanti (approdate poi all’adesione al calvinismo); per uno stretto collaboratore del pontefice come il conte Camillo Orsini, le cui simpatie eterodosse divennero oggetto dell’interesse inquisitoriale solo dopo la sua morte (1559); e così anche per il filoprotestante marchese Alberto di Brandeburgo, con il quale la Santa Sede cercò di negoziare un’alleanza antimperiale promettendo in cambio concessioni religiose per il suo Stato.
La sconfitta delle truppe francesi a Paliano a opera di quelle spagnole (27 luglio 1557) obbligò tuttavia Paolo IV ad accettare una pace (stipulata a Cave il 14 settembre 1557) che lo obbligava a sciogliere la lega antispagnola, a revocare la scomunica contro i Colonna e a togliere al nipote il feudo di Paliano. Un esito politicamente fallimentare, che lo spinse da un lato a concentrarsi nuovamente sull’attività riformatrice interrotta durante la guerra (con una serie di severi provvedimenti per la riforma del clero, dei tribunali curiali, della collazione dei benefici ecclesiastici, della vendita degli uffici) e dall’altro a inasprire l’azione antiereticale e di rafforzamento delle competenze del S. Uffizio.
Eclatante fu la regolamentazione dell’accesso al papato sancita il 15 febbraio 1559 con la bolla Cum ex apostolatus officio che dichiarava nulla l’elezione pontificia di chi avesse precedentemente deviato dall’ortodossia e privava dei diritti in conclave i cardinali sospettati di simpatie eterodosse. E ancor più rilevante l’emanazione del primo Indice dei libri proibiti della Chiesa: a una prima versione compilata nel 1557 dal S. Uffizio ma non approvata dal papa ne seguì una seconda, ancora affidata all’Inquisizione, promulgata alla fine del 1558 e pubblicata l’anno seguente. L’indiscriminato e grossolano rigore con cui questo Indice falciava la migliore cultura europea, da Boccaccio all’intera produzione letteraria di Erasmo, da alcune opere di Savonarola (contro cui Paolo IV aveva nel 1558 riaperto il processo) a quelle di Machiavelli, suscitò le proteste di moltissimi stampatori e librai e fece emergere le difficoltà di dare a esso esecuzione da parte degli inquisitori locali, costringendo il S. Uffizio a emanare nello stesso 1559 un’apposita istruzione che cercava di mitigarne il furore censorio.
Nell’ultimo scorcio del suo pontificato, Paolo IV non mancò di far pagare ai nipoti la loro pessima gestione della politica antiasburgica: il 27 gennaio 1559 privò Carlo Carafa delle funzioni di governo e Giovanni Carafa di quelle di capitano generale della Chiesa, esiliandoli entrambi da Roma e consegnando l’intera direzione degli affari temporali a un organo collegiale, il Sacro Consiglio, composto da Camillo Orsini e da inquisitori e fedeli teatini.
L’opera di severo riordinamento amministrativo intrapresa dal Sacro Consiglio fu però bruscamente interrotta dalla morte di Paolo IV, scomparso dopo una lunga malattia il 18 agosto 1559. Quello stesso giorno il popolo di Roma, oppresso da quattro anni di cupo rigore inquisitoriale, esplose in un tumulto nel corso del quale fece scempio della statua del papa e incendiò la sede dell’Inquisizione romana, liberando i prigionieri, mentre satire e pasquinate sbeffeggiavano la «vile e scelarata setta» del «carafesco seme» «fin dal ciel negletta».
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