PAOLO III, papa
PAOLO III, papa. – Alessandro Farnese nacque a Canino il 28 febbraio 1468, secondogenito di Pier Luigi e di Giovannella Caetani, figlia di Onorato III duca di Sermoneta.
La madre apparteneva all’antico baronaggio che aveva dato alla Chiesa un papa, Bonifacio VIII, e sei cardinali; il padre discendeva da una famiglia nobile di media grandezza originaria del Lazio settentrionale, dove fin dal Duecento possedeva alcuni castelli e che acquistò rilevanza politica e sociale grazie al valore militare di molti suoi membri al soldo dello Stato pontificio e di Firenze. Nel 1450 il nonno di Alessandro, Ranuccio il Vecchio, definiva il casato «magnifica domus de Farnesio» e lasciava agli eredi numerose terre sulla riva occidentale del lago di Bolsena, concesse in feudo o in vicariato perpetuo quale ricompensa del servizio alla Chiesa.
Tuttavia, nell’educazione di Farnese, sulle tradizioni militari paterne prevalsero le relazioni curiali dei Caetani, che lo orientarono verso la carriera ecclesiastica. Avviato agli studi umanistici da Stefano dell’Aquila e Pomponio Leto e designato da Sisto IV (4 febbraio 1482) scrittore apostolico, dovette interromperli per motivi non chiari, ma verosimilmente legati al conflitto tra Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona (1485-86), cui il fratello Angelo prese parte al soldo di Lorenzo il Magnifico, schierato contro il papa. Tenuto in ostaggio a Castel Sant’Angelo, ne evase il 25 maggio 1486, trasferendosi nell’estate a Firenze, accolto dalla sorella Gerolama, moglie di Puccio Pucci, intimo di Lorenzo. Introdotto nella cerchia di illustri umanisti di cui questi si circondava, poté approfondire con Demetrio Calcondila la conoscenza del greco. In seguito alla riappacificazione tra Innocenzo VIII e il Magnifico, sigillata dal matrimonio della figlia di quest’ultimo con Franceschetto Cibo (1487), figlio naturale del papa, e dal cardinalato al figlio Giovanni (9 marzo 1489), futuro Leone X, Lorenzo, tramite il suo ambasciatore a Roma Giovanni Lanfredini, raccomandò Farnese al papa «quanto farei Piero mio figluolo», per «essere nato della casa che è» e per avere «molte et singulari parte in sé, tra le quali sono molto abundante le lettere et buoni costumi, perché è et doctissimo et uno exemplo di buona et laudabile vita» (Firenze 10 aprile 1489, in Lorenzo de’ Medici, Lettere, XV, a cura di L. Böninger, 2010, p. 79).
Lasciata Firenze tra agosto e settembre 1489, con l’intenzione di tornarvi per prolungare il soggiorno nel culturalmente raffinato ambiente mediceo, trascorse cinque mesi a Capodimonte, dove fu probabilmente raggiunto dall’umanista Paolo Cortesi, che ne fece un interlocutore del De hominibus doctis dialogus, ambientato nell’isola Bisentina sul lago di Bolsena. Rientrato a Roma il 1° marzo 1490, riottenne (16 agosto 1490) l’ufficio di scrittore apostolico e, grazie alla sua vasta cultura, intrattenne rapporti con i maggiori umanisti allora presenti a Roma, pur dedicandosi – convinto che «nova consilia tentanda sunt et alia aggrediendum via […] ut donec vixero maiorum inixis vestigiis rem Farnesiam non desinam augere» (lettera a Puccio Pucci del gennaio 1490, in Frugoni, 1940, p. 209) – a tessere utili alleanze matrimoniali.
Tra queste la più proficua si rivelò quella della sorella Giulia con Orsino Orsini, la cui madre, Adriana del Mila, era figlia di Pedro, cugino dell’allora cardinale Rodrigo Borgia, nel cui palazzo vennero celebrate le nozze (9 maggio 1490). Invaghitosi della bellissima Giulia, con la quale almeno dal 1491 ebbe una relazione, Borgia assicurò a Farnese la nomina a protonotario apostolico (8 luglio 1491) e, divenuto papa Alessandro VI (11 agosto 1492), vantaggiose promozioni: dalla designazione a tesoriere generale pontificio (6 settembre 1492) alla creazione cardinalizia (20 settembre 1493) con il titolo diaconale dei Ss. Cosma e Damiano, mutato in quello di S. Eustachio (29 novembre 1503), ricompensa dell’essere «consanguineus Julie Belle, ejus concubine» (Burchard, II, 1883, pp. 84 s.).
Nonostante la prestigiosa dignità, Farnese si dibatté tra difficoltà economiche che inasprirono spesso i suoi rapporti con il papa e che lo indussero, usando spregiudicatamente la sorella come arma di ricatto per ottenere entrate adeguate al rango, a minacciarlo di allontanarla da lui. Finalmente, grazie alla cacciata dei Medici da Firenze, gli fu conferita l’ambita Legazione del Patrimonio, tolta al cardinale Giovanni de’ Medici (14 novembre 1494), carica che gli consentì di governare da Viterbo, dove andò a risiedere, la provincia in cui era situato il patrimonio familiare.
Dipendente dagli oscillanti rapporti tra Alessandro VI e Giulia, la carriera di Farnese non fu però lineare: rimosso dalla carica nel settembre 1496, soltanto il 28 aprile 1501 gli fu data in amministrazione, avendo solo gli ordini minori (ebbe suddiaconato e diaconato il 4 aprile 1494), la diocesi di Corneto e Montefiascone che mantenne fino al 1519. Gli introiti della Chiesa non risolsero peraltro i suoi problemi, se nel febbraio del 1498 corse voce che «per esser povero cardinal, pareva volesse refutar il capello» (Sanuto, 1879-1903, I, col. 871) e se nel 1500, con una rendita annua di 2000 ducati, figurava tra i cardinali poveri. Il 26 novembre 1502 il conferimento della remunerativa Legazione della Marca anconitana, che deterrà fino al 1509 e dove sembra essersi periodicamente recato, migliorò la sua situazione. A integrare i proventi di benefici e uffici contribuirono certamente i beni patrimoniali, visto che dal 1495 aveva iniziato, con l’acquisto di palazzo Ferriz e di parcelle limitrofe, a investire in un’area caratterizzata da insediamenti dell’antico baronaggio e della nobiltà cittadina, dove dal 1514, deciso ad affrancare la famiglia dalle origini provinciali e installarla durevolmente nel contesto urbano, diede avvio alla costruzione di un sontuoso palazzo.
A quella data poteva contare su quattro figli destinati a succedergli. Infatti, sebbene sul «fradello di madona Julia», così come su Giuliano Cesarini, fatto cardinale dopo le nozze del fratello con Girolama, figlia naturale di Alessandro VI, pesasse la fama negativa dei Borgia e venissero giudicati «zovani di pocha reputation in corte» (relazione al senato di Paolo Capello, 28 settembre 1500, in Sanuto, 1879-1903, III, col. 843), delle numerose concubine attribuite a Farnese nulla si sa, mentre è documentato il suo legame stabile, dal 1499 al 1513, con Silvia Ruffini, vedova nel 1501 di Giovanni Battista Crispo, che gli diede quattro figli – Costanza (1500 circa), Pier Luigi (1503), Paolo (1504) e Ranuccio (1509) – assicurando la continuità del casato. Da Giulio II ottenne (1505) la legittimazione dei due primi maschi, confermata ed estesa a Ranuccio da Leone X (1518) insieme con la facoltà di trasmettere loro i propri beni e all’investitura perpetua dei feudi ricaduti per la morte di fratelli e nipoti in suo possesso. Il matrimonio (1519) di Pier Luigi con Gerolama, figlia di Ludovico Orsini, conte di Pitigliano, dal quale nacquero Vittoria (1519), Alessandro (1520), Ottavio (1525), Ranuccio (1530) e Orazio (1532), garantì ulteriormente la trasmissione ereditaria, nonostante la morte dei figli Paolo e Ranuccio.
Con Giulio II, eletto il 1° novembre 1503, Farnese intrattenne buoni rapporti cementati dal matrimonio (1505) di Laura, figlia di Giulia e di Orsino Orsini (ma, si diceva, di Alessandro VI), con Nicola Franciotto Della Rovere, figlio di Luchina, sorella del papa, da questi adottato. Scarne le notizie sul suo ruolo in questi anni, ma tali da segnalarlo tra i cardinali più ascoltati. Raggiunse il papa a Bologna nel dicembre 1506, quando i Bentivoglio vennero cacciati dalla città e vi trascorse l’inverno, tornando il 27 marzo 1507 a Roma, dove fece parte della commissione cardinalizia che si pronunciò per l’adesione della Santa Sede alla lega di Cambrai contro Venezia (23 marzo 1509). Fu di nuovo al seguito del papa nel settembre 1510, quando questi cercò di riconquistare Bologna, e lo accompagnò a Cervia e a Ravenna sottratte dalle truppe pontificie alla Repubblica di Venezia.
Al rientro a Roma (26 giugno 1511), Giulio II indisse contro il conciliabolo di Pisa il V Concilio Lateranense, che si aprì il 3 maggio 1512 con l’allocuzione del papa, gravemente malato, letta da Farnese. Se, da un canto, coerente con la sua politica centralizzatrice, Della Rovere cercò inutilmente nel 1507 di privare Farnese, alla morte senza eredi di Federico Farnese, di parte dei feudi laziali, dall’altro fu generoso in benefici ecclesiastici, concedendogli in amministrazione (28 marzo 1509) la ricca diocesi di Parma, che Farnese mantenne fino all’elezione al papato e dove fece il suo solenne ingresso solo nel dicembre 1515, tornandovi in rare occasioni e nominando suo vicario il lucchese Bartolomeo Guidiccioni. Nel 1516 avviò la visita pastorale, emanò costituzioni per la riforma del clero (15 gennaio 1516), vi celebrò un sinodo nel 1519 per l’applicazione dei decreti lateranensi e il 29 ottobre la sua prima messa dopo l’assunzione degli ordini maggiori e la consacrazione episcopale (26 giugno e 2 luglio 1519). Durante quest’ultimo soggiorno si spinse fino al lago di Garda, accolto con «incredibile dimostratione de amore» dai rappresentanti della Repubblica di Venezia (Sanuto, 1879-1903, XXVIII, col. 31), con la quale fin da allora dovette intrattenere rapporti di natura personale. La funzione episcopale e il matrimonio della figlia Costanza con Bosio II Sforza di Santa Fiora (1517), titolare di feudi nel Piacentino e nel Parmense, favorirono il futuro insediamento a Parma e Piacenza del figlio Pier Luigi. Il conferimento della diocesi di Vence (1508-16) testimonia la sua adesione al partito francese.
Più impegnato appare sotto Leone X, cui fin dal soggiorno fiorentino, per la comune passione per le lettere e la caccia, era molto legato, come appare anche dall’affresco di Raffaello nella Stanza della Segnatura, Gregorio IX approva le decretali, dove il papa ha i tratti di Giulio II e i due cardinali al suo fianco quelli di Giovanni de’ Medici e di Farnese. Testimonianza della fiducia papale la sua nomina (8 aprile 1513) tra i cardinali incaricati di ricevere Alfonso I d’Este venuto a chiedere la restituzione di Modena e nel giugno la designazione, nell’ambito del V Concilio Lateranense, nella deputazione di cardinali «pro rebus pacis universalis componendae inter principes christianos et pro extirpatione scismatis», e prova della loro familiarità l’ospitalità concessa spesso al pontefice nei feudi farnesiani.
Di fronte all’acuirsi della minaccia turca e all’urgenza dell’invio di legati ai principi cristiani per sollecitarne l’intervento, nel concistoro del 14 gennaio 1517, assente Farnese, il papa rinviò ogni decisione, segno del suo peso nel Sacro Collegio. In effetti, fu scelto insieme con altri sette cardinali (20 aprile 1517) per valutare le possibilità di un’alleanza antiturca e nel contempo fu uno dei tre cardinali chiamati nel giugno 1517 a esaminare gli atti processuali relativi alla congiura ordita da Alfonso Petrucci contro il papa. Il 19 marzo 1518 in S. Maria sopra Minerva lesse la bolla che stabiliva una tregua quinquennale tra repubbliche e principi cristiani perché potessero armarsi contro il turco. A tal fine Farnese venne mandato legato a Massimiliano alla dieta di Augusta, ma partito il 5 aprile e ammalatosi per strada, rinunciò alla missione.
Oltre ad affidargli incarichi di rilievo, Leone X contribuì ad arricchirlo con i beni di Chiesa: a un numero incalcolabile di abbazie in commenda e di altri benefici, si aggiunsero le diocesi di Benevento (1514-22) e S. Pons de Tomières (1514-34), cui si affiancheranno Anagni (1525), Bitonto (1530-32), Sora (1534), per lo più tenute in amministrazione e con diritto di regresso. Fu grazie alle rendite dei benefici accumulati negli anni, valutate nel 1523 in 15.000 ducati annui, che superò le precedenti ristrettezze economiche: nel 1514 avviò la costruzione di palazzo Farnese, affidata ad Antonio da Sangallo il Giovane e più tardi a Michelangelo, nella quale profuse ingentissime somme. Poté inoltre mantenere una corte di 306 bocche, la più numerosa tra le corti cardinalizie residenti a Roma nel 1526. Giustificata dunque la gratitudine che Farnese volle esprimere nei confronti del papa defunto, facendogli erigere il sepolcro nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.
Nel conclave successivo alla morte di Leone X (1° dicembre 1521), Farnese, in lizza con il cardinale Giulio de’ Medici, più di una volta sembrò vicino alla tiara: l’8 gennaio «da le 24 hore fino a vespero» era stato creduto papa (Sanuto, 1879-1903, XXXII, col. 356). L’invito di Medici, timoroso di non essere eletto, di votare Farnese, «ch’è gentilissimo, nobilissimo, litterato, costumato et degno» (col. 357) e le promesse di quest’ultimo all’avversario «di conservarlo e farlo più grande che mai» (XXXIV, col. 200) furono vani e gli fu preferito il severo Adriano Florensz di Utrecht (9 gennaio 1522), precettore e consigliere di Carlo V, alla cui austerità e inadeguatezza politica Farnese difficilmente poté adattarsi. Il 13 maggio, in attesa dell’arrivo del pontefice, fu designato per un mese insieme con il cardinale Francesco Salviati e Francesco Ludovico di Borbone Vendôme governatore di Roma.
Nel lungo, difficile conclave apertosi dopo la morte di Adriano VI il 1° ottobre 1523, Farnese si confrontò di nuovo con Giulio de’ Medici. Reputato «meglio di altri per esser et dimostrarse neutral» e «il miglior fondamento che sia lì dentro de uscir Papa» (XXXV, coll. 77, 199), si presentava come un candidato di mediazione tra francesi e imperiali, ma la ricomposizione del diviso partito imperiale e le allettanti promesse dell’antagonista al cardinale Pompeo Colonna, inizialmente sostenitore di Farnese, portarono all’elezione il 18 novembre di Clemente VII Medici. Questi sin dall’inizio si avvalse di Farnese, nominandolo nella commissione concernente il pericolo turco (11 dicembre 1523).
Considerato dall’oratore veneziano «tutto francese» e «il primo cardinal che sia», l’unico con il quale il diffidente pontefice si consigliasse «qualche volta» (Marco Foscari, 31 ottobre 1525, e relazione al Senato, 2 maggio 1526, in Sanuto, 1879-1903, rispettivamente XL, col. 201, XLI, col. 285), Farnese, rinunciando alla neutralità, su sollecitazione di Venezia, che concederà di lì a poco una condotta al figlio Ranuccio, fece pressioni per l’adesione del pontefice alla lega di Cognac (maggio 1526). Le drammatiche conseguenze della sciagurata coalizione antiasburgica non si fecero attendere: il 20 settembre i filoimperiali Colonna devastarono il Vaticano e Borgo. Rifugiatosi in Castel Sant’Angelo con alcuni cardinali, tra cui Farnese, il papa, oscillante tra tregua e guerra, lo incaricò di reperire denari per mettere in campo un esercito. Di fronte agli esiti fallimentari di quest’impresa, Farnese a gennaio consigliò invano al papa di lasciare Roma, messa a sacco il 6 maggio del 1527 dalle milizie imperiali, che costrinsero Clemente VII a riparare in Castel Sant’Angelo insieme con tredici cardinali, tra cui Farnese, e ad arrendersi agli occupanti. Dopo aver sottoscritto le capitolazioni (6 giugno), con il pretesto dell’invio come legato in Spagna, Farnese ottenne un salvacondotto (12 luglio) e raggiunse Parma in ottobre. Riuscito a fuggire da Castel Sant’Angelo, Clemente VII richiamò d’urgenza Farnese, il quale, giunto a Viterbo in aprile, fu inviato legato (8 giugno 1528) a Roma, dove ad agosto ebbe la dolorosa notizia della morte in guerra al seguito del Lautrec del figlio prediletto Ranuccio e chiese al papa di essere sostituito nel governo dell’Urbe.
Fu una breve pausa, ché il 24 luglio 1529 con i cardinali Francisco Quiñones e Ippolito de’ Medici andò a incontrare Carlo V a Genova, giungendovi il 23 agosto. Da quel momento per alcuni mesi l’imperatore poté intrattenere intensi rapporti con Farnese, legato e decano del Sacro Collegio, e, grazie alla comune formazione umanistica, maturare quella stima nei suoi confronti che lo indurrà, in vista del conclave del 1534, a indicarlo come una «buena persona», che avrebbe potuto operare «para el bien de la Iglesia y de la Cristiandad» (lettera a Lope de Soria, Palencia 29 settembre 1534, in Corpus documental de Carlos V, 1973-81, III, p. 407). Inoltre, i delicati problemi relativi all’incoronazione, alla sospensione del conflitto franco-imperiale e all’assedio turco di Vienna trattati durante la lunga sosta a Piacenza dovettero affinare le capacità diplomatiche e negoziali di Farnese. Il 6 novembre Carlo V, atteso da Clemente VII, entrò solennemente a Bologna, dove in S. Petronio venne proclamata la pace universale (1° gennaio 1530). Allontanatosi dalla città, Farnese, a riprova della sua influenza, venne richiamato per la risoluzione di questioni «gravissime» insorte con Carlo V e per poter procedere all’incoronazione (Clemente VII a Farnese, 2 febbraio 1530, in von Pastor, IV, 2, 1958, p. 734), che avvenne il 24 febbraio.
Per il progettato secondo abboccamento tra papa e imperatore, contro il parere di Farnese, che avrebbe preferito Roma, fu di nuovo scelta Bologna. Qui Carlo V entrò il 13 dicembre 1532 e affrontò con il papa l’urgenza della convocazione del concilio, l’esame delle cui modalità venne affidato a otto cardinali, quattro di nomina imperiale e quattro di nomina pontificia, tra cui Farnese. Bisognoso del sostegno di Roma per potere affrontare la frattura religiosa in Germania, Carlo V cedette alle insistenze papali di rinviare l’indizione dell’assemblea. Rientrato Clemente VII a Roma (3 aprile 1532), Farnese, non condividendone i fluttuanti orientamenti politici e memore delle conseguenze della lega di Cognac di cui era stato promotore, si oppose al riavvicinamento alla Francia e alle nozze di Caterina de’ Medici con Enrico, secondogenito di Francesco I, celebrate dal papa il 28 ottobre 1533 a Marsiglia, assente Farnese, legato dell’Urbe tra settembre e dicembre 1533. Colpito poco dopo da una grave malattia, Clemente VII morì il 25 settembre 1534.
L’11 ottobre si aprì il conclave nel quale Farnese, decano del sacro collegio, designato più volte da Clemente VII a succedergli, era il favorito: aveva dalla sua anzitutto l’età avanzata (sessantasei anni) e la malferma salute, sicura garanzia di un pontificato breve; l’assenza di candidati forti imperiali e francesi; la sua neutralità («in grandissima reputatione dall’uno et l’altro lato», osservò il cardinale Ercole Gonzaga, 10 ottobre 1534, in von Pastor, V, 1958, p. 773) e l’auspicio di un pontificato che potesse mediare tra gli Asburgo e i Valois. Eletto già il 13 ottobre, prese il nome di Paolo III.
La sua elezione, nonostante le rituali declamazioni diffamatorie di Pasquino, fu salutata dal giubilo dei romani non soltanto perché tornava sul trono di Pietro un romano dopo oltre un secolo, ma perché nei quarant’anni di cardinalato «di continuo è stato protectore et benefactore di questa città» (Rebecchini, 2007, p. 159) con il suo splendore e la sua munificenza. Paolo III del resto non deluse le loro aspettative: rituali civici, processioni, cortei, giostre, tornei, mascherate a carnevale, giochi di Testaccio e di Agone, riconquistarono il popolo romano, mentre le molteplici iniziative da lui promosse per il rinnovamento urbanistico e architettonico della città – dal rafforzamento della cinta muraria, alla ripresa dei lavori alla basilica di S. Pietro, agli interventi nel palazzo vaticano e a Castel Sant’Angelo, all’apertura di nuove strade, al restauro dei monumenti antichi – cambiarono il volto dell’Urbe, restituendole splendore dopo le devastazioni del sacco.
Nel contempo illustri artisti richiamati a Roma dal suo mecenatismo eseguivano splendidi ritratti dei Farnese – celebri quelli di Tiziano – e altri, tra i quali Prospero Fontana, Pellegrino Tibaldi, Perin del Vaga, Girolamo Siciolante, esaltavano negli imponenti cicli pittorici degli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo le imprese e le virtù del pontefice e le gesta dei suoi avi. Ai complessi programmi iconografici, densi di significati ideologici e simbolici che sottendevano i grandi affreschi, collaborarono umanisti e letterati, attratti a Roma dalle ricompense e dai riconoscimenti concessi dai Farnese ai cultori delle humanae litterae – riflessi emblematicamente nella creazione cardinalizia di Pietro Bembo – che avevano fatto di Roma «il più bello convento c’habbia il mondo per gentiluomini et begli ingegni d’ogni natione» (Fragnito, 1988, p. 85).
In questo progetto di renovatio Urbis – che culminò nella riqualificazione del Campidoglio a opera di Michelangelo e nella costruzione di una residenza estiva sul colle capitolino attigua al palazzo dei Conservatori – Paolo III, da dotto umanista, volle certamente esaltare il mito della continuità del papato con la Roma imperiale, ma anche accattivarsi la benevolenza e la fedeltà del ceto municipale, da lui gratificato con uffici, benefici, cappelli cardinalizi. Una strategia diversa da quella adottata nei confronti del grande baronaggio romano e di alcune comunità dello Stato della Chiesa testimoniata dalle ribellioni all’imposizione dell’aumento della tassa del sale. Se il vittorioso intervento militare di Pier Luigi Farnese nel 1540 contro Perugia mirava a limitare il potere delle magistrature municipali a favore di quello pontificio, lo scontro armato, guidato dallo stesso Pier Luigi, da cui Ascanio Colonna – il più potente dei baroni romani, abbandonato dal protettore Carlo V, deciso a non urtarsi con il papa durante il colloquio religioso di Ratisbona – uscì sconfitto e la rocca di Paliano, simbolo del potere della famiglia, rasa al suolo nel 1541, era ugualmente teso a ridurre gli antichi privilegi rivendicati dal principe ribelle e a rafforzare il governo centrale, ma anche a mortificare l’orgoglio e il potere baronali a sostegno dell’affermazione e della preminenza del proprio casato sulla scena romana.
L’elezione di Paolo III non fu, però, salutata solo dall’entusiasmo dei romani: a plaudire furono anche letterati, tra i quali Erasmo, e personaggi, cattolici e protestanti, favorevoli per propensioni culturali, religiose e dottrinali a un dialogo. Caratterizzato da forte continuità sotto il profilo nepotistico, il pontificato di Paolo III, uomo dotato di ingegno e sagacia politica non comuni, presentò, infatti, non pochi elementi di rottura e di innovazione sul piano della politica ecclesiastica ed europea, ma la scelta iniziale di presentarsi come pater communis per stabilire una pace duratura tra Asburgo e Valois al fine di affrontare la minaccia turca, sconfiggere i protestanti, riassorbire lo scisma anglicano, convocare il concilio e attuare una profonda riforma della Chiesa, nell’ultima fase del pontificato fu fortemente alterata dall’ansia di esaltare il proprio casato, aggravata dall’incontenibile e spesso incontrollabile sete di potere di figli e nipoti.
Il contrasto tra continuità e innovazione è palese già nelle prime mosse: se il 18 dicembre 1534, nella prima creazione cardinalizia, nominò il quattordicenne nipote Alessandro, primogenito di Pier Luigi, e il sedicenne Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, figlio di Costanza, «due putti in culla», come li definì Pasquino (Pasquinate romane, 1983, p. 407), a partire dalla seconda (1° maggio 1535) cooptò nel Sacro Collegio uomini di grande statura morale e vasta dottrina, tra i quali prevalevano convinti fautori di una radicale rigenerazione delle strutture ecclesiastiche e di una riconciliazione con i protestanti, di cui condividevano alcuni fondamentali presupposti dottrinali. L’incontro a Roma nell’aprile del 1536 tra Paolo III e Carlo V, reduce dalla gloriosa impresa di Tunisi, accelerò gli sforzi della diplomazia pontificia per la pace tra i principi cristiani e l’attività riformatrice in vista del concilio, convocato a Mantova per il 3 maggio 1537.
Deciso a emendare gli abusi più gravi prima dell’assemblea per depotenziare le istanze riformatrici imperiali, volte a contenere il potere papale, e per definire le linee di fondo dei dibattiti conciliari, Paolo III nominò una commissione, presieduta dal cardinale Gasparo Contarini e composta da decisi riformatori, che gli presentò il 9 marzo 1537 il Consilium de emendanda ecclesia. Incentrato sul rilancio della cura d’anime e sulla condanna degli abusi e la restaurazione della disciplina, il severo progetto di riforma incontrò forti resistenze negli ambienti curiali conservatori, così come quelli relativi alla Dataria e alla Penitenzieria. Mentre la riforma dei dicasteri romani si prefiggeva di sottrarre la parte più scabrosa della reformatio in capite al concilio, questo subiva varie proroghe per gli ostacoli frapposti da Francesco I e Federico Gonzaga, per l’attacco dei turchi contro Venezia e per le tensioni tra Carlo V e Francesco I. Per convincere quest’ultimo a entrare nella Lega antiottomana stipulata tra la Santa Sede, Venezia e Carlo V (8 febbraio 1538), onde potere indire il concilio e bloccare i tentativi imperiali di un compromesso autonomo da Roma con i protestanti sulle dottrine controverse, Paolo III convocò l’imperatore e il re di Francia a Nizza, dove giunse il 17 maggio e si trattenne fino al 20 giugno, ottenendo dai due sovrani una tregua decennale, ma non la pace definitiva, in assenza della quale si vide costretto a sospendere l’apertura del concilio «ad beneplacitum» (21 maggio 1539) e ad assecondare la politica imperiale dei colloqui di religione.
Ostacolato da Francesco I, dai principi tedeschi e dallo stesso Paolo III, che, per quanto intento a stabilire la pace della cristianità, diffidava dell’imperatore e temeva che una Germania unita lo avrebbe ulteriormente rafforzato, minacciando gli equilibri europei e la «quiete d’Italia», il dialogo più volte avviato tra delegati cattolici e protestanti fallì definitivamente alla dieta di Ratisbona nel 1541 dove le concessioni ai protestanti valsero al legato Contarini le accuse di eresia dell’ala intransigente del Sacro Collegio. La via del concilio era ormai inevitabile: se ne discusse nel colloquio lucchese del settembre 1541 tra Paolo III e Carlo V, ma solo dopo lunghe trattative sulla sede si arrivò a indirne l’apertura per il 1° novembre 1542 a Trento. L’esigua presenza di vescovi e la ripresa delle ostilità franco-imperiali, che Paolo III tentò di bloccare incontrando Carlo V a Busseto nel giugno 1543, ne causarono la sospensione il 6 luglio 1543 e l’apertura ufficiale solo il 13 dicembre 1545, dopo la conclusione della pace di Crépy tra Carlo V e Francesco I. Ma la pubblicazione nel gennaio 1547 del decreto sulla dottrina della giustificazione, che chiudeva ogni speranza di dialogo con il mondo protestante e che l’imperatore avrebbe voluto fosse rinviata in attesa degli esiti della guerra contro la lega di Smalcalda, le posizioni sempre più radicali dei prelati filoimperiali, osteggiate dal legato Marcello Cervini, strenuo difensore dell’autorità pontificia, e dalla Curia, e il rafforzarsi del partito intransigente a Roma, decisero Paolo III, dapprima riluttante, alla traslazione (11 marzo 1547) del concilio a Bologna, scatenando le ire degli imperiali per il prevedibile maggiore assoggettamento del sinodo alle direttive romane. La vittoria a Mülhberg contro gli smalcaldici di Carlo V (24 aprile 1547), sostenuto militarmente e finanziariamente da Paolo III al fine di ottenere il riconoscimento al figlio Pier Luigi dell’infeudazione di Parma e Piacenza (1545), l’assassinio di quest’ultimo il 10 settembre 1547 e l’occupazione di Piacenza, le concessioni ai protestanti dell’Interim di Augusta (1548) sfociarono nella rottura dell’alleanza con Carlo V, nell’intesa con Enrico II, suggellata dal patto matrimoniale tra Diana di Poitiers, figlia naturale del re, e il nipote Orazio (30 giugno 1547) e nella sospensione del concilio nel novembre 1549, dopo lunghe tergiversazioni legate alla speranza della restituzione di Piacenza.
Nelle more del concilio e dopo il fallimento del colloquio di Ratisbona, di fronte al dilagare dell’eresia nella penisola e alla diffusione di dottrine eterodosse tra cardinali e prelati, pur decisi a rimanere entro la Chiesa romana e a riconoscere l’autorità pontificia, Paolo III dovette mediare tra questi ultimi, che, graditi a Carlo V e capaci diplomatici, si apprestava a inviare a Trento, e l’ala intransigente del Sacro Collegio, capeggiata da Gian Pietro Carafa, ostile al riassorbimento del dissenso attraverso il dialogo e decisa a soffocarlo con metodi repressivi. La creazione, il 2 luglio 1542 con la Licet ab initio, della congregazione dell’Inquisizione più che un cedimento, fu un compromesso che nella sua mente doveva essere temporaneo. Così non fu, ma durante il suo pontificato mantenne un saldo controllo sul S. Uffizio, impedendo l’apertura di procedimenti formali a carico di prelati e porporati dall’inquieta spiritualità, nutrita di elementi luterani, erasmiani e alumbrados, diffusi in quegli anni dagli scritti di Juan de Valdés e dal Beneficio di Christo, spingendosi fino ad assolvere extragiudizialmente Pietro Carnesecchi, citato a comparire nel 1546 dinanzi al Tribunale.
Tutte da indagare rimangono le ragioni di queste protezioni, difficilmente riconducibili solo a un disegno politico di ricomposizione della frattura religiosa o di riduzione della conflittualità ai vertici della Chiesa. Una certa affinità sul terreno religioso e culturale sembra emergere da alcuni suoi atti: dalla scelta di precettori dal sentire eterodosso per il nipote e futuro cardinale Ranuccio; dall’approvazione nel 1540 della Compagnia di Gesù, dagli esordi segnati da processi inquisitoriali per i contenuti ambigui della spiritualità dei discepoli di Ignazio; dall’avallo del messaggio eterodosso di Bernardino Ochino, di cui avocò a sé la scelta della comunità cui destinarlo come predicatore di quaresima e di avvento, e che meditò, alla vigilia dell’apostasia e della fuga a Ginevra, di fare cardinale; all’approvazione delle implicazioni eterodosse degli affreschi di Michelangelo nella cappella Sistina e nella cappella Paolina.
Gli ultimi mesi della vita di Paolo III furono angustiati da lutti e liti familiari, scatenati dalla sua politica dinastica, dispiegata su vari piani. Oltre a elargire ai parenti cospicui donativi attingendo alle casse della Dataria, egli fu un accorto tessitore di alleanze matrimoniali per i nipoti: cercò, da un canto, di stabilire legami con famiglie regnanti della penisola, unendo nel 1547 Vittoria al duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere; dall’altro di puntare sulla politica di neutralità, accasando Ottavio con Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V (1538), e intavolando trattative con il re di Francia per unire Orazio a Diana di Poitiers. Queste alleanze si fondavano sull’impegno a garantire signorie ai nipoti, non diversamente da quanto era avvenuto per Pier Luigi. Dopo averlo nominato nel 1537 gonfaloniere della Chiesa e investito del ducato di Castro e del governo di Nepi, le mire espansionistiche di Paolo III si orientarono sulla Lombardia, dove ottenne nel 1538, dietro l’esborso di una cospicua somma a Carlo V, l’infeudazione del marchesato di Novara a Pier Luigi, che dal 1536, a sua insaputa, aveva brigato per averla, ma non quella del ducato di Milano a Ottavio e a Margherita d’Austria, da lui richiesta all’imperatore nell’incontro di Busseto.
Maggior successo ebbe a Parma e Piacenza, appartenenti dal 1512 allo Stato della Chiesa, da cui vennero scorporate e date in feudo al figlio (26 agosto 1545), non senza l’opposizione del Sacro Collegio, che costrinse Paolo III a restituire alla Camera apostolica Camerino, sottratta ai Varano e ai Della Rovere e ceduta in feudo nel 1540 a Ottavio, ora trasferito a Castro. Il tacito e ambiguo consenso di Carlo V alla presenza ai confini con il Milanese dei Farnese, cui però rifiutò l’investitura formale, fu di breve durata. Con il suo assenso nel settembre 1547 Pier Luigi fu assassinato da una congiura di nobili piacentini e Piacenza occupata dall’esercito al comando di Ferrante Gonzaga, governatore di Milano. Ad aggravare le tensioni tra papa e imperatore contribuì la circolazione, all’indomani del tragico evento, del Diálogo entre Caronte y el ánima de Pedro Luis Farnesio, un libello diffamatorio attribuito all’ambasciatore cesareo a Roma, Diego Hurtado de Mendoza, che denunciava con violenza la politica nepotistica di Paolo III e i suoi vizi e rendeva di pubblico dominio l’ignominiosa morte di Cosimo Gheri, vescovo di Fano, dopo essere stato violentato sulla pubblica piazza da Pier Luigi.
La drammaticità della situazione fece esplodere la latente conflittualità tra i nipoti e li spinse a sposare progetti contrastanti, destinati ad aprire una crisi nelle relazioni internazionali del papato che si protrasse fino alla pace di Gand (1556). All’origine dei contrasti l’odio del cardinale Alessandro per Ranuccio, cui fu conferita la porpora nel 1545 in deroga a tutte le norme canoniche, che vietavano la presenza di due fratelli nel Sacro Collegio e la nomina di cardinali durante un’assise conciliare. La chiara predilezione per Ranuccio da parte del nonno, che considerava Alessandro un «da niente» privo di cervello (Walter - Zapperi, 2006, p. 96), e la diffidenza della corte, che sospettava Alessandro di essere stato il mandante dell’avvelenamento del cardinale Ippolito de’ Medici nel 1535 per subentrargli nei pingui benefici e nella carica di vicecancelliere, lo indussero a vedere nel fratello un rivale nell’ascesa al papato, cui ambiva, e a minacciare il nonno di «scardinalarsi» e fare valere la sua primogenitura nella successione nei feudi farnesiani. Queste rivalità personali causarono una spaccatura tra i fratelli: mentre Alessandro sostenne le pretese di Ottavio sul ducato di Parma, Ranuccio si schierò dalla parte di Orazio, per il quale Enrico II lo reclamava. Le tensioni familiari e le rivendicazioni di Carlo V dell’appartenenza dei ducati padani ai territori imperiali, spinsero Paolo III, il 13 settembre 1549, a restituire le due città (Piacenza ancora occupata) alla Santa Sede, inviando al governo di Parma Camillo Orsini, compensando Ottavio con Camerino e dando Castro a Orazio. Con la complicità del cardinale Alessandro Ottavio il 20 ottobre 1549 lasciò segretamente Roma e raggiunse Parma, che l’Orsini si rifiutò di consegnargli.
Appreso il tradimento dei nipoti, all’inizio di novembre 1549 Paolo III ebbe un malore e il 10 morì, non senza che il cardinale Alessandro gli avesse strappato l’ordine all’Orsini di consegnare Parma a Ottavio.
Gli intrighi, le violenze e gli eccessi dei parenti, le loro «imprese ingiuste e poco onorevoli» che, secondo le anticipazioni di Giovanni Guidiccioni, ne avrebbero procurato la morte (lettera a Pier Luigi Farnese, Asti, 22 giugno 1536, in Guidiccioni, Le lettere, a cura di M.T. Graziosi, 1979, p. 211), contribuirono ad appannare la sua immagine e a colorire di tinte fosche i suoi cedimenti all’«amor carnale», che avevano oltrepassato la misura del tradizionale nepotismo papale. Tuttavia, al di là dall’offuscare la fama che avrebbe voluto tramandare di papa «vero e giusto» che «quel che può dare alli suoi per via diretta e ragionevole, non vuole che l’occupino per indiretta e forzata» (ibid.), le malversazioni dei suoi parenti ebbero gravi ripercussioni sulle relazioni tra Santa Sede e potenze europee, costringendo Paolo III ad abbandonare la linea di neutralità adottata all’inizio del pontificato, che gli aveva consentito di imprimere una svolta determinante alla politica pontificia. Mai pienamente convinto dell’opportunità politica di sanare la scissione confessionale, temendo che il rafforzamento dell’impero avrebbe reso l’egemonia asburgica in Italia ancora più schiacciante, cercò di destreggiarsi, con lucidi e spregiudicati tatticismi, tra Francia e impero per giungere infine alla convocazione del concilio, che avrebbe avviato, sia pure tra enormi difficoltà e battute d’arresto, l’auspicato rinnovamento della Chiesa.
Fu sepolto nella basilica di S. Pietro, dove verrà eretto un monumento funebre, opera di Guglielmo Della Porta, che, essendo stata identificata la Giustizia collocata ai piedi del pontefice con la sorella Giulia, suscitò tale riprovazione da indurre Clemente VIII a imporre ai Farnese di ricoprire con una tunica di metallo la provocatoria e sensuale nudità della statua.
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