PAOLO II, papa
PAOLO II, papa. – Pietro Barbo nacque a Venezia il 23 febbraio 1417 da Niccolò, appartenente a una ricca famiglia di mercanti, e da Polissena Condulmer, nipote di Gregorio XII e sorella di Eugenio IV, il quale consigliò al nipote Pietro, destinato alla mercatura, di intraprendere gli studi letterari, lo fece educare presso la corte pontificia e lo avviò alla carriera ecclesiastica.
Nel 1436 Barbo fu nominato protonotario apostolico e arcidiacono. Il 1° luglio 1440, all’età di 23 anni, fu creato cardinale con il titolo di S. Maria Nova e vescovo di Cervia. Eugenio IV conferì la porpora contemporaneamente a Barbo e a Ludovico Scarampo, futuro patriarca di Aquileia e camerlengo, forse per contrastare la potenza di questo in seno al collegio con la presenza del nipote, come riferisce il Platina.
Con l’elezione di Niccolò V (1447) Pietro Barbo ottenne che Scarampo fosse privato dell’ufficio di camerlengo (nel quale fu tuttavia reintegrato da lui stesso poco dopo essere stato eletto pontefice). Il 16 giugno 1451 Barbo fu creato vescovo di Vicenza e passò al titolo cardinalizio di S. Marco e accanto alla chiesa titolare, alle pendici del Campidoglio, iniziò la costruzione di un palazzo cardinalizio, che a partire dal 1465, dopo l’elezione a pontefice, trasformò in residenza papale. Con Callisto III (1455-1458) Barbo stabilì un rapporto di reciproca fiducia. Fu incaricato di svolgere funzioni di paciere nel conflitto tra Napoleone Orsini, duca di Gravina, ed Everso d’Anguillara per il possesso della contea di Tagliacozzo. Tempi più difficili iniziarono nel 1458, con l’elezione di Pio II, del quale Pietro Barbo era stato rivale per il pontificato. Pio II fece con lui qualche tentativo di riconciliazione, come la sua nomina a vescovo di Padova nel febbraio del 1459, ma la sua consacrazione fu impedita da Venezia, che gli oppose la candidatura del vescovo di Feltre, Iacopo Zeno. Nel marzo del 1460 Barbo fu costretto a rinunciare al nuovo vescovato a favore di Zeno.
Alla morte di Pio II (14/15 agosto 1464) riemersero le istanze conciliariste e molti cardinali espressero la volontà di limitare il potere monarchico del pontefice. Il conclave si aprì il 28 agosto e il giorno dopo tutti i cardinali, eccetto Scarampo, sottoscrissero una capitolazione elettorale, che attribuiva ampi poteri al collegio e limitava quello del papa. Al primo scrutinio, Pietro Barbo riuscì a vincere l’opposizione dei cardinali Scarampo e Guglielmo d’Estouteville e fu eletto pontefice il 30 agosto 1464, assumendo il nome di Paolo II. L’elezione di Barbo segnò un punto di rottura rispetto al pontificato di Pio II, con l’emarginazione dei ‘pieschi’. L’incoronazione fu celebrata il 16 settembre nella basilica di S. Pietro. Paolo II non fece preparare una nuova tiara, ma utilizzò quella antica che si diceva fosse stata donata da Costantino a papa Silvestro I. Questo e molti altri atti simbolici sono chiaramente leggibili come una riproposizione dell’ideologia costantiniana e di una concezione del potere temporale del papa in continuità con quello degli antichi imperatori, secondo la falsa donazione di Costantino. Anche l’ostentazione del lusso nelle cerimonie ecclesiastiche è da considerare una risposta alla polemica di Lorenzo Valla sul potere del pontefice, culminata nella dimostrazione della falsità della donazione di Costantino nel 1440 e nella denuncia della mondanità del papato. Dopo l’incoronazione, la cerimonia del possesso si svolse con grande sfarzo da S. Pietro fino a S. Giovanni in Laterano.
Fin dai primi giorni Paolo II manifestò chiaramente le proprie intenzioni riguardo al governo della Chiesa e le linee ideologiche che avrebbero segnato il suo pontificato. Queste linee furono sviluppate e diffuse dagli intellettuali che operarono a più stretto contatto con il papa, anche se Paolo II sembra aver privilegiato altri canali di comunicazione rispetto a quelli più tradizionali della biografia pontificia e dell’oratoria. Maggiore spazio e credito fu concesso da papa Barbo alla trattatistica di interesse politico ed ecclesiologico, più funzionale alle esigenze del pontificato. Il cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini indicava, nel 1468, le linee degli ambienti curiali più critici nei confronti di Paolo II (Lettere, II, pp. 1190-1205), cui si rimproveravano l’eccessivo amore per la gloria mondana, le monete, i giochi, i banchetti. Pietro Barbo coltivò anche il desiderio di celebrare l’anno santo, che reputava strumento più efficace di qualsiasi opera letteraria per la glorificazione del proprio pontificato. Agli anni di Paolo II risale anche l’inizio della stampa a Roma, ma il sostegno del papa all’attività dei tipografi appare limitato alla concessione di alcuni benefici ecclesiastici (Esch, 1993). Con la bolla Ineffabilis providentia del 19 aprile 1470 egli ridusse la periodicità giubilare a 25 anni (il giubileo di Martino V del 1423 l’aveva portata a 33, mentre nel 1450 era stata ristabilita da Niccolò V la scansione cinquantennale). Ma la morte precoce, nel 1471, consegnò l’evento al successore Sisto IV.
Appena eletto, Paolo II dovette fare i conti con la capitolazione approvata dai cardinali in conclave, che tendeva a limitare il potere del papa a favore del collegio cardinalizio. Paolo II decise tuttavia di non pubblicare la bolla di conferma della capitolazione e sottopose ai cardinali un documento diverso, che alterava la sostanza del patto originario. Esercitando forti pressioni, Paolo II riuscì a ottenere la firma di tutti i cardinali, eccetto quella di Bernardino Carvajal. Questi, insieme al cardinal Bessarione e ad Ammannati, espresse un duro dissenso nei confronti del nuovo pontefice. Inoltre, nell’ottobre del 1464 Paolo II sciolse il collegio degli abbreviatori, che Pio II aveva ampliato fino a settanta membri, alquanto autonomi dal controllo del vicecancelliere. Ristabilendo la situazione anteriore alla riforma di Pio II, con la reintegrazione del vicecancelliere (allora Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI) nella pienezza del suo potere, il papa dette un taglio netto alle linee politiche del predecessore.
È difficile distinguere nettamente tra il dissenso che Paolo II incontrò in Curia e quello che coinvolse ambienti religiosi, intellettuali, cittadini e internazionali. Particolarmente importante fu il processo che si svolse a Roma nel 1466 contro un gruppo di fraticelli de opinione, una setta ereticale pauperistica, che traeva le sue origini dal conflitto sviluppatosi negli anni Venti del Trecento tra i francescani e papa Giovanni XXII. I fraticelli consideravano eretica la Chiesa romana per simonia, concubinato e traffico di denaro nella gestione dei sacramenti. Le cronache romane ricordano nel 1467 l’arrivo a Roma di questi «heretici della opinione», che furono condotti in Campidoglio, mostrati al pubblico in segno di disprezzo «colla mitria di carta in capo» e costretti alla conversione (S. Infessura, Diario della città di Roma, a cura di O. Tommasini, Roma 1890, pp. 69 s.).
Alla fine di febbraio del 1468 Roma fu scossa da un avvenimento che fece scalpore: Paolo II ordinò di arrestare molte persone sospettate di una congiura contro la sua persona. La maggior parte degli arrestati erano membri dell’Accademia romana (o più correttamente della sodalitas di umanisti raccoltisi intorno a Pomponio Leto), la cui passione per l’antichità classica si prestava a essere interpretata come una scelta di laicismo e repubblicanesimo. Quasi tutti gli accusati erano familiari di cardinali ‘pieschi’. Petreio (Pietro, familiare di Ammannati) aveva confessato al cardinale che Callimaco (Filippo Buonaccorsi) e i suoi complici avevano deciso di uccidere il papa il 2 marzo, mentre si recava alla basilica di S. Marco. Callimaco, principale indiziato, Petreio, Glauco Condulmer (segretario del cardinale Bartolomeo Roverella) fuggirono da Roma; Pomponio Leto trovò rifugio a Venezia. Bartolomeo Platina (segretario del cardinale Francesco Gonzaga), Lucido Fosforo Fazino, Antonio Settimuleio Campano, Agostino Maffei e altri furono rinchiusi in Castel S. Angelo, sotto la custodia di Rodrigo Sánchez de Arévalo. Le accuse erano piuttosto generiche: sodomia, offese al pontefice e ai preti, eresia. Alcuni membri dell’Accademia, fuggiti da Roma, furono accolti a Napoli.
Presto i timori nei confronti degli accademici sembrarono dissolti. Il papa riprese le feste e le cerimonie, continuò a risiedere nel palazzo di S. Marco, pur più esposto a possibili attacchi. Nell’autunno del 1468 il papa cominciò ad avvertire il pericolo, che non veniva tuttavia dalla sodalitas di Pomponio Leto, bensì dal re di Napoli Ferrante d’Aragona che minacciava Roma e lo Stato della Chiesa con l’esercito. Il 17 ottobre 1468 Paolo II si trasferì improvvisamente a S. Pietro, un palazzo più sicuro, cui destinò ventimila ducati per portare avanti quel progetto di cittadella fortificata di Niccolò V, al quale nei primi anni di pontificato aveva contrapposto il modello di un palazzo posto al centro della città come quello di S. Marco. Opposizione di modelli architettonici che trova un intrigante riscontro nel De re aedificatoria di Leon Battista Alberti (libro V, cap. 3; cfr. Modigliani, 2011).
I timori di Paolo II sull’esistenza di una rete di trame internazionali furono accentuati dalla visita di Federico III, che giunse a Roma il 24 dicembre 1468 e vi si trattenne fino al 9 gennaio 1469. La presenza dell’imperatore a Roma rischiava sempre di innescare dinamiche sovversive nei confronti dei pontefici. Paolo II richiamò le truppe in città e riuscì a garantire un ordinato svolgimento delle cerimonie a S. Pietro e a S. Giovanni in Laterano.
La preoccupazione di Paolo II di conquistare il consenso dei cittadini romani non era dovuta soltanto alla necessità di arginare il dissenso diffuso di curiali, intellettuali e fautori di una riforma della Chiesa. L’appoggio della municipalità romana, antagonista delle famiglie dell’alta aristocrazia, era infatti indispensabile per la politica antibaronale che Paolo II aveva inaugurato fin dai primi mesi del suo pontificato. Seguendo una linea di sostanziale continuità con la politica di Niccolò V, Callisto III e Pio II, Paolo II si adoperò per riportare sotto il diretto dominio della Chiesa le terre governate da signori e feudatari (si ricordi la bolla Ambitiosae cupiditatis del 1° marzo 1467). Occorreva innanzitutto contrastare il progetto di espansione territoriale che Everso d’Anguillara (morto nel settembre 1464) e poi i suoi figli stavano conducendo a danno dei possedimenti pontifici, e che i predecessori non erano riusciti ad arginare. Nel 1464 Paolo II fece un primo tentativo di pacificazione con Deifobo e Francesco, figli di Everso, che contando sull’appoggio dei Colonna e di Iacopo Piccinino avevano tentato di ampliare i propri possedimenti. A seguito del fallimento delle trattative e dopo la morte di Piccinino, il papa inviò l’esercito contro i conti di Anguillara e li sconfisse (luglio 1465), riportando alla soggezione della Chiesa diversi territori e rocche, tra cui Capranica, Vetralla, Ronciglione, Nepi e Caprarola. Il rapido successo di Paolo II, ottenuto anche grazie all’abilità militare di Federico da Montefeltro, fu salutato con entusiasmo anche da personaggi a lui meno favorevoli, come Ammannati, che compose un’orazione, la Eversana deiectio, in lode dell’operato del papa.
Per quanto riguarda Cesena, che Pio II aveva concesso a Malatesta Novello per tutta la durata della sua vita, l’iniziativa di recupero partì subito dopo la morte di quest’ultimo (20 novembre 1465) e si concluse con la sottomissione della città al dominio diretto della Chiesa. Senza scosse fu anche l’acquisizione di Senigallia, che dopo la morte di Pio II si ribellò al governo di Antonio Piccolomini e offrì le proprie terre a Paolo II. L’occupazione di Tolfa, di grande importanza economica per la presenza delle miniere di allume, utilizzato per la tintura delle stoffe, suscitò invece l’opposizione di Ferrante d’Aragona, che temeva la concorrenza per le miniere di Agnano nel Regno di Napoli. Con l’appoggio degli Orsini Ferrante riuscì a impedire la sottomissione di Tolfa fino al 1469, quando la Camera apostolica acquistò la città per 17.300 ducati d’oro. Per non deteriorare i rapporti con il re, tuttavia, Paolo II concordò la stipula di una società per lo sfruttamento comune delle miniere di Tolfa e di Agnano.
La politica italiana di Paolo II non fu priva di contrasti. Come lo zio Eugenio IV, Paolo II seguì una linea di intransigente difesa delle libertà ecclesiastiche, che lo portò a un aperto conflitto con diverse potenze italiane, vanificò i risultati raggiunti dall’abile diplomazia di Niccolò V e spezzò gli equilibri consolidatisi nella Lega italica del 1455. Difficili i rapporti con Venezia, che aveva imposto la decima al clero per finanziare la guerra contro i Turchi. Anche alcuni dei contrasti con il re di Napoli derivarono da problemi economici e dagli obblighi di carattere feudale che legavano il Regno allo Stato della Chiesa. Ferrante tentò di riappropriarsi del diritto di offrire al papa ogni anno una chinea bianca al posto degli 8000 marchi dovuti come riconoscimento della supremazia papale, e rifiutò di restituire a Paolo II il denaro che Alfonso aveva destinato alla crociata. Altrettanto dura la politica di Paolo II nei confronti di Firenze: nel 1466 egli giunse a scomunicare le più importanti magistrature del regime mediceo per aver violato le immunità ecclesiastiche. Quanto al ducato di Milano, Paolo II non riconobbe l’indulto concesso a Francesco Sforza da Niccolò V e perfezionato da Pio II, adducendo anche in questo caso la ragione di tassazioni illecite sulle rendite ecclesiastiche.
Dopo la morte di Francesco Sforza (8 marzo 1466), i contrasti tra Paolo II e il nuovo duca Galeazzo Maria si accentuarono, ancora una volta per motivi fiscali. Gli equilibri italiani divennero più instabili. Venezia, che aspirava al dominio di Milano, aveva accolto i fuorusciti fiorentini avversari del governo mediceo e, all’inizio del 1467, congedò il condottiero Bartolomeo Colleoni per consentire loro di assoldarlo. Colleoni sperava di conquistare il ducato di Milano, ma quando si rese conto che la successione di Galeazzo Maria era avvenuta senza grandi contrasti, rivolse le proprie mire verso Firenze. Di fronte a questo pericolo, il 17 gennaio 1467, Piero de’ Medici strinse a Roma – con l’apparente protezione del papa – un’alleanza con il re di Napoli e lo Sforza; l’esercito della lega era guidato da Federico da Montefeltro. Tra gli scopi principali della lega c’era anche quello di contrastare i disegni di Venezia e del papa di richiamare gli Angioini in Italia. Paolo II ebbe a temere un’invasione dell’esercito napoletano nei territori dello Stato della Chiesa. La battaglia della Molinella, vicino Imola, tra i due schieramenti (23 luglio 1467) non ebbe esito decisivo, Colleoni rinunciò ad attaccare Milano e l’11 agosto fu firmata una tregua. Dopo alcuni mesi di trattative, il 2 febbraio 1468, Paolo II prese l’iniziativa di emanare una bolla per la pace d’Italia (Ut liberius iustissimum bellum; Raynaldus, 1753, pp. 454-457), che imponeva ai contendenti di far cessare ogni conflitto. Nella bolla era inoltre stata riaffermata esplicitamente l’autorità giurisdizionale del pontefice, che non poteva non incontrare l’opposizione di Napoli, Firenze e Milano. La pace, pubblicata il 25 aprile, fu celebrata a Roma l’8 maggio 1468, con la dichiarazione del rinnovo della Lega italica. A Roma il 26 maggio si svolse una solenne processione da S. Marco a S. Lorenzo in Damaso. Salmi e orazioni, inni e discorsi (il più noto è quello di Domenico Domenichi, vescovo di Brescia e governatore di Roma) completarono la cerimonia.
La pace non aveva fondamenta molto solide. Lo Sforza dimostrava di contare più sulla «lega particolare» tra Milano, Napoli e Firenze che sulla «lega generale» e assunse un atteggiamento ambiguo nei confronti del papa, anche a causa degli accordi con il re di Francia. Ferrante, d’altro canto, seguì una linea sempre più aggressiva nei confronti dello Stato della Chiesa e aspirava al recupero delle terre ai confini tra i due Stati che erano state occupate da Pio II. Nel luglio del 1470 Firenze, Napoli e Milano rinnovarono la triplice lega e confermarono la loro protezione a Roberto Malatesta contro il papa.
Paolo II, che non accettava il ruolo assunto da Firenze di garante della pace in Italia e ne rivendicava il diritto al solo pontefice, cercò di incrinare la triplice lega e di sostituire a essa un’alleanza più ampia tra le potenze italiane, che sotto la guida del papa rinnovasse la Lega italica e concentrasse le proprie forze per la crociata contro i Turchi. Di fronte alla segreta proposta di Ferrante, accolta dallo Sforza, di un patto a quattro tra i collegati e Venezia, che avrebbe escluso il papa, Lorenzo de’ Medici decise di svelare la trama a Paolo II. Allora il papa dichiarò unilateralmente rinnovata la Lega italica il 22 dicembre 1470. Ma la nuova «lega generale» mostrò subito i segni di una intrinseca debolezza. Lo Sforza rinsaldò i legami con il re di Francia e tentò di attirare anche il papa nell’alleanza contro Napoli e Venezia, che si coalizzarono in funzione difensiva il 1° gennaio 1471. Alla morte di Paolo II, la «lega generale» non era che una petizione di principio spesso ribadita per la pace d’Italia, senza alcuna sostanza di accordo politico.
Nel panorama di generale sospetto nei confronti di Paolo II faceva eccezione Borso d’Este, duca di Modena e Reggio, la cui aspirazione al titolo di duca di Ferrara fu accolta con favore da Paolo II, il quale reputava utile per lo Stato della Chiesa creare a Ferrara un ducato forte e fedele al papa, che potesse ostacolare l’espansionismo veneziano. Di fronte all’insuccesso della propria politica italiana, Paolo II colse l’occasione della supplica di Borso per celebrare l’ultima grande festa del suo pontificato. Borso si recò a Roma nella primavera del 1471, accompagnato da un grande seguito di uomini e cavalli, e ricevette il titolo di duca di Ferrara dalle mani del papa il 14 aprile in S. Pietro.
Le iniziative diplomatiche di Paolo II si rivolsero anche a sanare le discordie tra i principi d’Europa, al fine di convogliare le loro forze contro i Turchi, ad arginare i pericoli delle eresie, a difendere e rafforzare i diritti della Chiesa sulle rendite provenienti dai diversi regni d’oltralpe. L’iniziativa contro i Turchi vide protagonista il condottiero albanese, Giorgio Scanderbeg, che riuscì a respingerli nel 1467, ma il 17 gennaio 1468 morì e quasi tutta l’Albania cadde nelle loro mani. Nella primavera del 1470 i Turchi decisero di sferrare un attacco militare contro i Veneziani. La notizia della caduta di Negroponte, avamposto dei commerci veneziani in Oriente (12 luglio 1470) persuase le potenze italiane ad allearsi contro la minaccia che veniva da Oriente. Fu così messo in crisi il sistema di alleanze che si era affermato l’anno precedente, con la conseguenza di un grande – ma effimero – successo politico per il papa: l’impegno del cardinal Bessarione e della diplomazia pontificia per una nuova crociata contribuì al rinnovamento della pace d’Italia, stipulata a Roma il 22 dicembre 1470.
Paolo II morì a Roma il 26 luglio 1471, all’età di 54 anni, forse per apoplessia, dopo una cena abbondante.
Alcuni parlarono di veleno. Altri attribuirono la morte del papa alle arti magiche e divinatorie legate alla sua passione per le pietre. L’orazione funebre fu pronunciata da Francesco da Toledo, nunzio del re spagnolo. Fu sepolto nella basilica di S. Pietro, accanto alla tomba dello zio Eugenio IV. Tra il 1475 e il 1477 il nipote Marco Barbo gli fece erigere un solenne monumento funebre, ma ne restano oggi soltanto frammenti sparsi e i disegni di Girolamo Ferrari (Berlin, Kupferstichkabinett, Codex Berolinensis, f. 82) e di Giovanfrancesco Grimaldi (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 2733, c. 185v). Nell’iscrizione sepolcrale erano ricordate la giustizia di papa Barbo, la pietà, l’attenzione per le cerimonie divine, la difesa delle libertà ecclesiastiche e della pace, le riforme annonarie, la munificenza verso i principi, la misericordia con i poveri, la lotta contro le eresie.
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