ONORIO III, papa
ONORIO III, papa. – Di nome Cencio, nacque a Roma. La famiglia è sconosciuta: sono infatti da rifiutare sia la tradizionale attribuzione ai Savelli, frutto di una fortunata invenzione erudita dello storico agostiniano Onofrio Panvinio, risalente al 1553-55 e tuttora accettata anche in opere specialistiche, sia quella, recente, ai Capocci (Carocci - Vendittelli, 2000, pp. 350 s.).
Il suo ambiente sociale di origine va ricondotto a quello delle famiglie che nella seconda metà del XII secolo trovavano nel Comune capitolino e soprattutto negli uffici di Curia un veicolo di affermazione sociale. Era dunque un’origine meno modesta di come la presenta lo stesso Cencio nel proemio del Liber censuum, dove afferma che dalla culla in poi era sempre stato in tutto sostenuto ed educato dalla Chiesa. Proprio la vicenda personale di Cencio, con la sua ascesa tutta interna agli apparati di Curia, è tuttavia esemplificativa del ruolo crescente giocato, nella selezione sociale e nella creazione di élites prelatizie, dalla struttura burocratica che il Papato era andato costituendo intorno a sé nel XII secolo.
Nella breve introduzione al Liber censuum, che data al 1192, Cencio si qualifica come canonico della basilica di S. Maria Maggiore e camerario della Chiesa, importantissimo incarico curiale che ricoprì almeno dal 22 gennaio 1188. In quel ruolo attese alla compilazione del Liber censuum Ecclesie romane, che rappresenta il primo elenco dettagliato, ma forse non onnicomprensivo, delle entrate ‘regolari’ della Chiesa di Roma.
Il nucleo originario del Liber censuum, dopo i lavori preparatori che risalgono agli anni del pontificato di Clemente III, fu portato a termine da Cencio nel 1192, quando era pontefice Celestino III. Basandosi su compilazioni precedenti e su numerosi documenti anteriori, Cencio redasse un elenco dei censi dovuti alla Chiesa romana, nel quale sono registrati gli introiti di varia natura provenienti dai territori direttamente sottoposti alla giurisdizione del papa, gli enti ecclesiastici tenuti a corrispondere il censo alla Chiesa di Roma, i regni e i signori sui quali i pontefici vantavano sovranità feudale, nonché i territori soggetti al pagamento dell’obolo di S. Pietro. Il Liber rappresentò un importante strumento per la riorganizzazione delle finanze papali e in seguito si arricchì di nuove parti, ma il nucleo centrale e originario esprime la volontà della Chiesa romana di dotarsi di strumenti e strutture adeguate, capaci di garantire una razionalizzazione delle finanze.
L’attività di abile amministratore delle finanze papali valse a Cencio la nomina a cardinale diacono del titolo di S. Lucia in Orthea da parte di Celestino III (la prima sottoscrizione è del 4 marzo 1193). I buoni rapporti con il pontefice, che risalivano a un periodo precedente all’elezione, si manifestarono ulteriormente nella nomina a capo della Cancelleria pontificia (perlomeno dall’autunno 1194). Negli anni del pontificato di Celestino III, Cencio fu spesso impiegato come uditore del tribunale curiale e ricevette importanti incarichi politico-diplomatici, tra i quali, nel 1196, in collaborazione con i cardinali Ottavio di Ostia e Pietro di S. Cecilia, la conduzione delle trattative con l’imperatore Enrico VI, che si trovava allora nei dintorni di Roma.
I rapporti con Innocenzo III, eletto nel gennaio 1198, non dovettero invece essere buoni, almeno a giudicare dalla progressiva estromissione di Cencio da ogni importante incarico curiale durante il lungo pontificato innocenziano, nonostante la sua enorme esperienza e il suo precedente coinvolgimento nei più delicati affari della Curia. Cencio si dimise dalla duplice carica di camerario e cancelliere, quando, nella primavera del 1200, fu promosso cardinale prete del titolo dei Ss. Giovanni e Paolo (la prima sottoscrizione con tale titolo risale al 4 luglio), promozione che però non sembra significativa, dato che durante il pontificato di Innocenzo III la figura del cardinale Cencio appare decisamente in ombra.
Il conclave successivo alla morte, avvenuta a Perugia, di Innocenzo III fu breve: il 18 luglio 1216 i cardinali giunsero in relativo accordo alla designazione di Cencio, che prese il nome di Onorio III. Il neoletto pontefice, anziano e di mediocre salute, fu consacrato nella chiesa di S. Pietro di Perugia il 24 luglio successivo. Si trattenne a Perugia fin verso la fine del mese di agosto e fece ritorno a Roma il 4 settembre, accolto in Laterano con grande tripudio di popolo.
Innocenzo III lasciava al suo successore un’eredità formidabile, tanto sul piano temporale quanto su quello religioso. Qualsiasi radicale cambiamento negli indirizzi della politica papale era poco probabile. Si trattava, semmai, di proseguire l’opera innocenziana in tanti campi, dalla repressione dell’eresia all’organizzazione della crociata, dalla scelta pro Hohenstaufen sulla questione imperiale alla politica verso il Regno di Sicilia, dall’affermazione della superiorità feudale su molti regni della cristianità al consolidamento delle vaste acquisizioni temporali in Italia centrale e sul Comune di Roma. Furono in effetti queste le linee di fondo del pontificato di Onorio III, apertosi all’insegna della più esplicita volontà, proclamata in numerose lettere a sovrani e nobili, di continuare la politica del predecessore.
Fra le tante questioni aperte, la crociata fu per Onorio III la preoccupazione principale, l’obiettivo al quale dedicò i maggiori sforzi e che condizionò molti dei suoi interventi politici. Bandita da Innocenzo III nel novembre 1215, la spedizione cristiana doveva partire nel luglio 1217. Onorio III prestò grande attenzione alle questioni organizzative: assunse in misura molto maggiore che in passato l’iniziativa di raccogliere i fondi, promuovendone una gestione il più possibile centralizzata e, per assicurare la più ampia partecipazione alla spedizione, si impegnò in una vasta opera di pacificazione. Sforzi particolari furono indirizzati all’Italia comunale e ai rapporti fra i sovrani inglesi e francesi. Nell’Italia centrosettentrionale, l’abile cardinale Ugolino d’Ostia, il futuro Gregorio IX, riuscì a promuovere alcune paci, senza però ottenere una duratura composizione dei conflitti che dilaniavano il mondo comunale. Anche fuori d’Italia Onorio III cercò di ridurre i contrasti fra i sovrani, operando nel contempo per tutelare e accrescere l’influenza politica della Chiesa. Finalizzati essenzialmente alla preparazione della crociata furono l’arbitrato papale tra Filippo II Augusto di Francia e Giacomo I di Aragona, come l’appoggio fornito alla pace fra il duca di Galizia e il granduca di Polonia. Nell’intervento di maggiore ampiezza, svoltosi in Inghilterra, appare invece difficile svincolare gli obiettivi connessi alla crociata con quelli, spesso prevalenti, legati all’affermazione della superiorità papale sul Regno insulare, che dal 1213 era divenuto un feudo della Chiesa. Onorio III sostenne con decisione i diritti del giovanissimo Enrico III, erede di re Giovanni Senzaterra, di fronte alla rivolta dei baroni e alla contestazione della successione da parte di Luigi, figlio del re di Francia. Nel gennaio 1218 la pace infine stipulata fra Enrico III e Luigi di Francia sancì non solo il successo della monarchia e della nobiltà a essa fedele, ma anche quello del loro lontano protettore.
La questione della crociata fu al centro dei rapporti tra il pontefice e Federico II. Nel 1215, appena conclusa la cerimonia di incoronazione a re dei Romani, Federico aveva fatto i voti di crociato; tuttavia la difficile situazione politica tedesca gli impedì di imbarcarsi insieme alle truppe, che partirono nell’estate del 1217. Respinta in Terrasanta, la spedizione si impadronì di Damietta, sulle foci del Nilo. Nel frattempo Federico II aveva ribadito (dicembre 1218) il proposito di raggiungere quanto prima l’esercito cristiano. La sincerità delle sue intenzioni sembra fuori discussione, ma ancora una volta la situazione politica tedesca lo indusse a rimandare la partenza e a inviare soltanto alcuni aiuti. Onorio III lo esortò più volte a porre fine agli indugi, e quando Damietta fu perduta (settembre 1221) accusò l’imperatore di essere il principale responsabile del fallimento. Negli anni successivi si sforzò di organizzare un nuovo contingente e imporre la diretta partecipazione di Federico. Tuttavia l’impegno imperiale alla crociata fu tante volte ripetuto e poi disatteso (1220, 1223, 1225).
La propaganda antimperiale dei decenni successivi attribuì le esitazioni e i ritardi di Federico II a un calcolo astuto, reso possibile dalla mitezza del vecchio papa e motivato dal desiderio di strappargli sempre nuove concessioni. La ricerca ha però da tempo ridimensionato queste valutazioni, sottolineando l’effettivo peso dei fattori che di volta in volta indussero l’imperatore al rinvio. Del resto, pur se non mancarono i toni accesi, Onorio III seguì con coerenza una politica di cooperazione e di mediazione, dietro la quale è facile scorgere la convinzione che l’imperatore desiderasse realmente operare a fianco della Sede apostolica per la riconquista di Gerusalemme.
Altri aspetti della politica papale nei confronti di Federico II riguardarono i rapporti con i Comuni settentrionali (determinante fu nel 1226 l’intervento papale per porre fine alla ribellione antimperiale di Milano e di altre città), il riconoscimento dei diritti acquisiti sulle regioni conquistate allo Stato della Chiesa da Innocenzo III, la persecuzione dei movimenti ereticali, la difesa delle libertates ecclesiastiche, l’acquisizione di nuovi territori in Toscana e Italia settentrionale, la tutela della sovranità feudale della Chiesa sul Regno di Sicilia. Furono tutte questioni che non mancarono di sollevare tensioni, ma trovarono quasi sempre soluzione in un contesto costantemente connotato dalla ricerca dell’accordo e della collaborazione.
Un campo problematico fu quello dell’unione del Regno di Sicilia all’Impero, che alterava profondamente gli equilibri politici, in particolare in Italia e nei domini della Chiesa, ed era stata quindi energicamente contrastata dal Papato fin dal tardo XII secolo. Innocenzo III aveva ottenuto dal giovane Federico impegni precisi a conservare la separazione e Onorio III mantenne la stessa linea. Non fu tuttavia in grado di impedire l’elezione del figlio di Federico a re dei Romani (aprile 1220), dunque successore nella dignità imperiale. Onorio III ottenne comunque una serie di garanzie e il riconoscimento che Impero e Regno di Sicilia erano realtà giuridicamente distinte. Altro motivo di tensione, mediazione e accordo furono gli interventi pontifici sulle nomine agli episcopati del Regno, ostacolati da Federico II. Anche il definitivo riconoscimento imperiale dell’ampia espansione dei domini papali avvenuta con Innocenzo III fu oggetto di tensioni e negoziati.
In alcuni aspetti del rapporto con lo svevo, Onorio III ottenne consistenti risultati. Un chiaro successo fu la rinuncia in favore della Chiesa a ogni pretesa imperiale sui vasti territori appartenuti a Matilde di Toscana. Con la Constitutio in Basilica Beati Petri l’imperatore garantì tutte le libertates ecclesiastiche, come l’esenzione dei chierici dai tribunali secolari e la loro immunità fiscale, e prese provvedimenti graditi al pontefice, come quelli contro gli eretici. Il Papato otteneva in tal modo dall’Impero un importante appoggio per risolvere i conflitti che, in molte città, opponevano le autorità comunali a quelle ecclesiastiche proprio in materia di repressione dell’eresia, spesso condotta dai Comuni con un impegno giudicato insufficiente dal Papato, nella difesa sia dei patrimoni sia dei diritti ecclesiastici.
Il controllo di Roma e il governo dello Stato della Chiesa furono altri due campi in cui si esplicò, con alterni risultati, l’attività politica di Onorio III. Con Roma il pontefice non tentò mai di imporsi con eccessiva fermezza, sapendo di non potere contare sull’appoggio della sua famiglia (che, come detto, non faceva parte della potente aristocrazia cittadina). Di conseguenza, mancarono forti contrasti, ma il controllo papale restò debole e il partito antipapale, che era stato represso con efficacia da Innocenzo III, riprese progressivamente vigore.
Come i suoi predecessori, Onorio III, stabilì la sua residenza nel Palazzo del Laterano ma, al pari di Innocenzo III, lasciò regolarmente Roma per trascorrere i mesi estivi lontani dalla calda e malsana città. Complessivamente trascorse parte rilevante del suo pontificato lontano dall’Urbe, in località come Rieti, Viterbo, Civita Castellana e Orvieto. A volte questi soggiorni furono causati anche dall’opposizione politica della città, come nel 1219-20 e nel 1222, quando i Romani insorsero contro il tentativo papale di mediazione in un contrasto fra il Comune capitolino e Viterbo. La situazione si fece di nuovo critica nel maggio 1225: a Roma aveva ripreso il sopravvento la fazione antipapale, espressione del tentativo di recuperare i margini di autonomia comunale in buona parte perduti durante il pontificato di Innocenzo III. A causa di questi disordini, nella primavera del 1225 Onorio III fu costretto a fuggire a Tivoli. Dopo aver soggiornato a Tivoli e Rieti fino ai primi di febbraio 1226, poté rientrare a Roma, dove il senatore antipapale Parenzo Parenzi era stato deposto. Per il successivo – e ultimo – anno di pontificato non sono noti episodi significativi nel rapporto tra il papa e il Comune romano. Il pontefice intervenne, invece, in favore dei Romani nel gennaio 1226, quando ottenne aiuti alimentari da Federico II per la città, colpita da una dura carestia.
Quanto al governo dello Stato della Chiesa, nonostante l’azione del suo predecessore e le circostanze abbastanza favorevoli, nel complesso Onorio III non riuscì a raggiungere risultati consistenti.
«C’era qualcosa di retorico e di pessimistico nel suo modo di affrontare il problema del governo territoriale» (Waley, 1961, p. 253) che di fatto gli impedì di riscuotere un deciso successo nell’allargamento del controllo papale. La sua maggior preoccupazione sembra essere stata innanzitutto la rinuncia imperiale delle regioni acquisite da Innocenzo III. Per fugare i timori di Onorio III, Federico confermò le donazioni anteriori e si rivolse ai cittadini della Marca Anconetana affinché ribadissero la loro soggezione alla Chiesa.
Le preoccupazioni di Onorio III erano, a ragione, particolarmente forti nei riguardi del Ducato di Spoleto, per il quale temeva le possibili rivendicazioni di Bertoldo di Urslingen, molto vicino all’imperatore, che continuava a fregiarsi del titolo di duca di Spoleto e non aveva rinunciato ai suoi diritti. A Veroli, nella primavera del 1222, l’imperatore avanzò alcune richieste proprio in relazione al Ducato, decisamente rifiutate dal pontefice. Nel contempo il successo delle truppe imperiali intervenute a favore dei viterbesi fece sì che alcune città della Marca e del Ducato cacciassero i rappresentanti pontifici accogliendo al loro posto quelli di nomina imperiale. Lo stesso Federico II, alla fine dell’anno, sconfessò però l’operato di Bertoldo, imponendogli di chiedere il perdono al pontefice. Durante i restanti anni del pontificato di Onorio III non si verificarono altre incursioni di rilievo degli imperiali, ma era comunque chiaro che Federico II non considerava definitivamente perduta la supremazia imperiale sui territori dell’Italia centrale sotto il dominio papale, tanto che nel 1226 esercitò anche lì il diritto sovrano di reclutare truppe.
Sul controllo politico-territoriale della Marca Anconetana e lo stato di endemica belligeranza dei comuni della Marca stessa, Onorio III adottò, come il suo predecessore, la ‘soluzione feudale’, concedendola nel 1217 in feudo al marchese Azzo VII d’Este. Tuttavia questa forma di governo non diede i frutti sperati: le città della provincia spesso si sollevarono contro il giovane marchese, le cui difficoltà erano inoltre acuite dall’ingerenza diretta del papa e l’intervento, per quanto occasionale, di legati pontifici. Per il governo del Ducato di Spoleto, delle province di Campagna e Marittima e della Massa Trabaria, anche Onorio III si avvalse alternativamente, a seconda delle situazioni, di legati e di rettori.
Fu durante il suo pontificato, a partire dal 1220, che divenne regolare la nomina di rettori per molte province. In quella del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia il controllo del papa fu invece più diretto e immediato, tramite legati ed emissari che venivano inviati di volta in volta con incarichi ad hoc.
Onorio III, di fatto, non riuscì a condurre all’obbedienza la nobiltà locale e i Comuni delle province settentrionali, limitandosi il più delle volte a cercarvi degli alleati e non mancando, per questo, di concedere esenzioni e privilegi. Seppure occasionalmente, si sforzò di ribadire i diritti giurisdizionali del Papato e in particolare quello di approvare la nomina dei podestà nei Comuni. Nel governo della provincia di Campagna e Marittima, che gli era meglio nota, ottenne buoni risultati.
Fra le altre sue azioni, vanno ricordate le missioni nei paesi baltici e la prosecuzione della crociata contro gli Albigesi. Importanti furono inoltre gli interventi sia verso i nascenti ordini mendicanti, sia in materia di predicazione, insegnamento universitario e diritto canonico. Grazie anche alla mediazione del cardinale Ugolino d’Ostia, accolse con favore la richiesta di approvazione della Regola dei domenicani, confermandola il 22 dicembre 1216. Ancor più determinante fu l’intervento nella vicenda dei francescani. Probabilmente su richiesta diretta di Francesco, che avrebbe incontrato nel 1220 a Viterbo, nominò Ugolino cardinale protettore dei Minori. Il 22 settembre 1220, con la lettera Cum secundum consilium, intervenne sulle strutture interne della fraternitas francescana, favorendone l’assimilazione agli ordini religiosi esistenti e sancendo, oltre al noviziato annuale, il potere coattivo dei superiori sui frati. La Regola del nuovo Ordine, la Regula bullata, fu infine ufficialmente approvata da Onorio III il 29 dicembre 1223. Tre anni dopo il papa approvò pure la Regola dei carmelitani.
Nel campo del diritto canonico, Onorio III è ricordato non per particolare finezza d’analisi, ma per avere preso l’iniziativa, primo fra tutti i papi, di ordinare una collezione delle sue decretali. La Compilatio quinta fu affidata all’arcidiacono di Bologna Tancredi, che operò negli anni 1225-26 utilizzando in grandissima prevalenza lettere tratte dai registri di Cancelleria. Fu inviata alle università di Bologna e di Parigi, con l’invito a studiarla e ad adoperarla nei giudizi. Quanto agli interventi in materia universitaria, di rilievo risultano in particolare quelli sull’Università di Parigi, per la quale pubblicò, il 22 novembre 1219, la costituzione Super speculam.
Morì il 18 marzo 1227. Le esequie si tennero, come era consueto, il giorno successivo. Fu sepolto nella basilica di S. Maria Maggiore e la sua tomba divenne oggetto di devozione pubblica.
Nel complesso, il giudizio su Onorio III deve muovere dalla volontà, proclamata fin dai giorni successivi all’elezione, di continuare l’azione del suo immediato predecessore. Ma se la continuità appare innegabile, il carattere ‘pacifico’ del nuovo pontefice e la mitezza dovuta all’età avanzata influirono profondamente sul modo in cui vennero affrontate le principali questioni, soprattutto di natura politica. Nella sua azione affiora spesso un atteggiamento pessimistico, un’incapacità di proiettarsi in avanti imponendo, se necessario, un nuovo corso alle vicende. La stessa rapida elezione, a un giorno solo dalla sua morte, di un pontefice di ben diverso temperamento come Gregorio IX, lascia intuire che nel Collegio cardinalizio fossero andati maturando malcontenti per l’eccessiva arrendevolezza di Onorio III. Tuttavia appare nel contempo evidente come la lunga tradizione storiografica che presentava il pontefice come un pio vecchio, ingannato dal giovane e astuto imperatore, sia stata ormai sorpassata da valutazioni più favorevoli. Si sottolinea piuttosto come, grazie alle grandi conoscenze amministrative, e soprattutto al suo carattere conciliatore, Onorio III riuscisse a realizzare molti obiettivi, conservando Federico II nel desiderio di secondare quanto possibile le direttive papali. Equilibrati appaiono dunque i giudizi degli Annales Stadenses, che rivelano come l’assenza di eccezionali doti intellettuali non avesse impedito al pontefice di assicurare il buono stato della Chiesa e quello, solo in apparenza svalutativo, di Ernst Kantorowicz: «chiunque fosse succeduto al grande Innocenzo III, non poteva che apparire insignificante dopo quel gigante» (1976, pp. 88 s.)
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