NICCOLO V, papa
NICCOLÒ V, papa. – Tommaso Parentucelli nacque, con ogni probabilità, il 15 novembre 1397 a Sarzana, da Bartolomeo e da Andreola Tomei, di famiglie non secondarie della società della Lunigiana.
Il padre morì nel 1401. La madre sposò in seconde nozze Tommaso Calandrini, da cui ebbe altri tre figli: Filippo, Federico e Caterina.
A 13 anni abbandonò Sarzana per proseguire gli studi a Bologna. Dopo i primi due anni di studio rientrò al paese natio per alcuni mesi, nella vana speranza di ottenere qualche aiuto economico. Tornato a Bologna, in altri due anni concluse il corso di studi acquisendo vaste conoscenze culturali, capacità oratorie e dialettiche. La relativa povertà lo portò ad accettare dal 1415 al 1419 un incarico di precettore a Firenze, prima per i figli di Rinaldo degli Albizi e poi per quelli di Palla Strozzi. A circa 22 anni tornò a Bologna, dove nel febbraio 1421 risulta studens in artibus. Il vescovo della città, Nicolò Albergati, intorno al 1420 lo accolse nella sua familia e lo volle maestro di casa (responsabile della sua organizzazione e amministrazione).
Già noto negli ambienti culturali bolognesi, grazie al vescovo ampliò le sue conoscenze, entrando in relazione con Pietro da Noceto ed Enea Silvio Piccolomini, accolti da Albergati presso di sé negli anni successivi, Ambrogio Traversari, Francesco Filelfo, Biondo Flavio.
Lo stesso vescovo lo ordinò sacerdote, sembra nel 1423, quando è testimoniato come studente in teologia, studens in sacra pagina, e quando presentò ad Albergati una supplica, chiedendo la concessione del canonicato di S. Maria di Sala Bolognese, di cui prese possesso il 26 ottobre dello stesso anno; è probabile che abbia ottenuto anche il canonicato nella cattedrale di Sarzana.
Da Albergati ebbe anche altri benefici: nel luglio 1425 l’affidamento della chiesa di S. Maria di Borgo Panigale; nel gennaio 1426 l’arcipretura dell’importante e ben dotata collegiata di S. Maria Maggiore di Pieve di Cento; circa negli stessi anni il canonicato nel capitolo della cattedrale di Bologna, di cui nel 1437 risulta anche camerario.
Ma soprattutto i rapporti con il vescovo proiettarono Parentucelli tra i grandi protagonisti della politica e della diplomazia pontificia, tanto più quando quello fu nominato cardinale nel 1426.
Già nel 1422 partecipò alla missione diplomatica di Albergati in Inghilterra, voluta da Martino V per tentare di porre fine alla guerra dei Cent’anni. Lo accompagnò poi a Roma, dove per il nuovo impegno cardinalizio Albergati fu sempre più frequentemente presente. La permanenza romana fu interrotta dai diversi impegni del prelato: a Venezia nel 1427 per il trattato tra Firenze, Venezia, Amedeo VIII di Savoia e Filippo Maria Visconti; a Basilea per il concilio (1433); a Ferrara per confermare l’accordo; in Francia nel 1434-35 ancora per i problemi della guerra dei Cent’anni; in Germania per tentare una mediazione tra i principi tedeschi; a Ferrara e Firenze per il concilio (1438). Furono esperienze di grande importanza per Parentucelli, che gli permisero la conoscenza del complesso panorama politico europeo.
Nel 1434 seguì Albergati a Firenze, dove Eugenio IV si era rifugiato in seguito alla ribellione dei romani. A questo soggiorno è dovuto un più stretto legame con l’ambiente umanistico fiorentino, testimoniato da Vespasiano da Bisticci (1970, pp. 35-81), secondo il quale quando era libero dagli impegni con il cardinale, Parentucelli partecipava alle discussioni con i maggiori umanisti, tra i quali Giovanni Aurispa, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini.
Dopo la morte di Albergati (9 maggio 1443) collaborò brevemente con il cardinale Gerardo Landriani. Nello stesso anno Eugenio IV gli assegnò l’importante incarico di vicecamerlengo, essendo camerlengo Francesco Condulmer. Nei mesi successivi gli affidò missioni diplomatiche a Firenze e Napoli, in Francia e in Inghilterra, poi, resasi vacante la sede episcopale di Bologna, nel 1444 fu nominato vescovo della città. Non vi risiedette quasi mai, essendo impegnato in missioni diplomatiche in Germania e in Borgogna oltre che nella riforma del clero lateranense, ma il suo breve episcopato coincise con il ritorno di Bologna all’obbedienza romana.
Nel 1446, i risultati positivi ottenuti in Germania, insieme con Juan de Carvajal, uditore di Camera, spinsero Eugenio IV a nominarli entrambi cardinali, mentre erano ancora in viaggio per raggiungere Roma. Pochi mesi dopo Eugenio IV morì (23 febbraio 1447), raccomandando sul letto di morte ai cardinali l’unità della Chiesa e la scelta di un successore che la conservasse.
Parentucelli gli impartì l’estrema unzione e tenne al termine dei novendiali l’ultima orazione funebre, ripercorrendo le parole estreme di Eugenio IV ed esortando i cardinali a non lasciarsi trascinare da passioni o interessi personali nella scelta.
Il conclave si tenne in S. Maria sopra Minerva, perché il Palazzo Vaticano sembrava poco sicuro; molti baroni romani furono allontanati dalla città per paura di pressioni. Furono necessari pochi scrutini: al primo e al secondo il candidato favorito, Prospero Colonna, che godeva dell’appoggio di Alfonso d’Aragona, ebbe dieci voti, Parentucelli cinque e tre. Per impedire l’accessione di Parentucelli sul nome di Colonna il cardinale di Taranto Giovanni di Tagliacozzo, di un ramo degli Orsini, propose lo stesso Parentucelli e sul suo nome concordarono tutti, o quasi (6 marzo 1447). Dopo una qualche resistenza, egli accettò e scelse il nome di Niccolò in ricordo del cardinale Albergati.
L’elezione fu forse provocata dalla volontà di escludere Prospero Colonna e, probabilmente, in questo senso fu una scelta di compromesso, anche se un manipolo consistente di cardinali concentrò sin dal primo scrutinio il voto su Parentucelli. Anche altre ragioni concorsero alla scelta, prima tra tutte la forte esperienza diplomatica, quanto mai necessaria nella situazione contemporanea, e insieme l’abitudine all’amministrazione e la conoscenza dei meccanismi burocratici curiali acquisita con molti anni di presenza in Curia e con la funzione di vicecamerlengo. Inoltre dovette influire la sua fama di esperto teologo e di ottimo oratore, oltre che di uomo di grande cultura.
L’incoronazione avvenne il 19 marzo 1447. Il pontefice decise di non usare un’arma personale, ma che nel suo scudo comparissero soltanto le chiavi della Chiesa e come divisa: «paratum cor meum Deus». Nei mesi successivi si affollarono a Roma ambascerie da moltissime città italiane e da molti Stati europei per confermare obbedienza al pontefice.
Le sue prime decisioni confermarono quello che era stato l’impegno più forte del predecessore: porre fine allo scisma e in questo senso uno snodo quanto mai importante era che Federico III d’Asburgo, re di Germania e imperatore designato, si esprimesse per l’abbandono da parte tedesca della neutralità tra il pontefice eletto da Basilea e quello romano.
L’accordo era stato definito da Enea Silvio Piccolomini, segretario di Federico III e suo ambasciatore, negli ultimi giorni di vita di Eugenio IV, e uno dei primi atti di Niccolò fu la conferma del documento relativo emesso dalla Cancelleria pontificia il 7 febbraio 1447; a questo fece seguito un intenso lavorio diplomatico che portò al concordato di Vienna (febbraio-marzo 1448) con cui Roma conservava il diritto alla provvista beneficiale mentre perdeva il diritto alla nomina di vescovi e abati: questi ultimi potevano soltanto essere revocati dal pontefice per l’inosservanza delle disposizioni del diritto canonico.
Allo stesso fine vennero immediatamente inviati nunzi nelle diverse regioni europee: in Germania, come legato, il cardinale Carvajal per riaffermare l’invalidità di quelle decisioni conciliari che limitavano l’autorità pontificia; in Francia il vescovo d’Acqui Tommaso de Regibus; in Polonia Battista Malatesta vescovo di Camerino. Per la composizione dello scisma l’opera dei legati fu facilitata dall’atteggiamento favorevole di Federico III, del re di Francia Carlo VII e di Renato duca di Provenza.
Nel gennaio 1448 un’ambasciata di Carlo di Francia, di Renato di Provenza e del Delfino di Vienna portò a Roma una proposta d’accordo, concordata con l’antipapa Felice V e solo parzialmente accolta dal pontefice; nel luglio dello stesso anno si ebbe il riconoscimento da parte del clero e del popolo di Basilea dell’autorità di Niccolò; nell’aprile 1449 infine Felice V rinunciò al pontificato e ottenne da Niccolò l’incarico di vicario a vita per la Savoia e quello, evidentemente solo onorifico, di legato generale per la Germania, oltre che la convalida del titolo cardinalizio, confermato anche ad altri cardinali d’obbedienza conciliare. Il pontefice annullò anche le censure pronunciate contro quanti avevano aderito al concilio di Basilea e confermò le concessioni di benefici fatte da questo.
L’intensa attività diplomatica caratterizzò l’intero pontificato di Niccolò, privilegiando, oltre alla soluzione dello scisma, l’impegno contro gli ottomani a Oriente e contro Granada a Occidente, una politica di affermata neutralità nei confronti degli Stati italiani, il controllo dell’ortodossia a fronte delle diffuse tendenze ereticali.
L’opposizione al pericolo turco era strettamente collegata alla situazione politica europea e uno dei primi interventi del pontefice fu volto a sanare le discordie e le guerre tra Germania e Ungheria, incarico affidato a Carvajal. La spedizione contro i Turchi tentata da Giovanni Hunyadi nel 1448 ebbe esito infelice e venne travolta, con gravissime perdite da ambo le parti, nella pianura del Kosovo. Anche se l’anno successivo Hunyadi e Giorgio Scanderbeg riuscirono a ottenere qualche parziale successo contro le armate del sultano ottomano, la situazione continuò ad aggravarsi, anche per contrasti politici interni in Ungheria, tanto che il pontefice nel 1450 inviò come legato il cardinale Sbigneo Olesniecki e nel 1451 frate Eugenio Somma con l’incarico di concedere l’indulgenza in articulo mortis a quanti combattevano contro i turchi in Bulgaria, nella Serbia meridionale e in Albania. La situazione precipitò ulteriormente quando divenne sultano Maometto II (1451).
L’atteggiamento pontificio nella difesa dal pericolo turco era fortemente condizionato dal mancato rispetto da parte dei bizantini degli accordi d’unione tra la Chiesa greca e quella latina, concordati durante il concilio di Ferrara-Firenze. La lettera inviata dalla Cancelleria pontificia nel 1451 all’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, esprime compiutamente l’ideologia di Niccolò, ribadendo che l’aiuto richiesto contro i turchi sarebbe venuto dal pontefice e dall’intera Chiesa universale quando il decreto d’unione fosse stato rispettato. Il patriarca latino di Costantinopoli, richiamato alla sua sede e accolto con tutti gli onori, doveva avere completa giurisdizione ecclesiastica, mentre il nome di Niccolò doveva essere iscritto nei dittici della Chiesa di Costantinopoli ed essere ricordato in tutte le liturgie.
Richieste di aiuto vennero a Roma da Costantinopoli ancora agli inizi del 1453 ma furono accantonate dal pontefice, convinto che i Bizantini fossero più preoccupati dei propri interessi personali che di quelli dello Stato e che avrebbero potuto impegnare le proprie ricchezze per la difesa solo che lo avessero voluto. Soltanto alla fine di aprile venne armata una flotta, affidata al vescovo di Ragusa Giacomo da Recanati. Quando la notizia della conquista turca di Costantinopoli (29 maggio 1453) giunse dopo qualche tempo a Roma, il panico colpì tutti. Il 30 settembre la Cancelleria pontificia emanò il documento che indiceva la crociata contro i Turchi, ma nessun risultato ottenne il tentativo di organizzare un esercito e una flotta per opporsi all’espansionismo ottomano. Interlocutore principale del pontefice non poteva che essere l’imperatore Federico III, molto tiepido a questo proposito e preoccupato della situazione politica interna. Tra il 1453 e il 1455, anno della morte di Niccolò, si succedettero una serie di Diete (Ratisbona, Francoforte, Wiener-Neustadt) che non conclusero alcunché; così come per molti anni in seguito si continuò a pensare senza alcun risultato a una crociata.
Ugualmente senza grandi risultati rimasero gli sforzi in Spagna per la riconquista di Granada.
Nel 1448 il pontefice aveva appoggiato con promesse d’aiuto e di protezione spirituale i tentativi del re di Castiglia Giovanni II; l’anno successivo aveva stabilito indulgenze per chi finanziasse l’impresa; nel 1451 favorì ancora il re di Castiglia, che continuava a subire sconfitte e perdite di città e di castelli, lanciando la scomunica e l’interdetto su quanti, laici ed ecclesiastici, commerciassero con i musulmani; nel 1452 tentò di porre un argine a sconfitte militari e conversioni più o meno forzate chiedendo aiuti per il re, reiterando le indulgenze già in precedenza concesse ed esentando il sovrano di Castiglia dal rispetto degli accordi concordati con i suoi oppositori interni che prevedevano un suo viaggio a Gerusalemme in caso di inosservanza; nel 1453, di fronte a nuove sconfitte e perdite di territori, concesse indulgenze a quanti avessero contribuito alla ricostruzione e al rafforzamento delle mura di Medina.
L’atteggiamento del pontefice di fronte alle continue guerre dei potentati italiani fu formalmente di neutralità, una neutralità che tuttavia non favorì la pacificazione.
Appena eletto inviò ad Alfonso d’Aragona, accampato a Tivoli, i cardinali Condulmer e Ludovico Scarampi Mezzarota che, riconfermati gli accordi presi con Eugenio IV, ottennero la restituzione della città alla Chiesa e il possesso pontificio di Terracina e Benevento (marzo 1447).
Quando nel 1450 Francesco Sforza conquistò Milano e pose fine alla breve esperienza della Repubblica ambrosiana, Niccolò si affrettò a stabilire buoni rapporti con il nuovo signore di Milano, che aveva indirettamente finanziato acquistando da lui nell’autunno 1447 per 35.000 scudi d’oro la città di Iesi. L’indulto che gli concesse il 1° aprile 1450 in materia di benefici costituì in pratica il riconoscimento pontificio dello Sforza, sulla legittimità del quale come signore di Milano gravavano in Italia ed Europa notevoli riserve. L’indulto stesso non soddisfaceva Sforza perché ribadiva la plenitudo potestatis del pontefice e il suo ruolo di dominus beneficiorum, ma un’intensa trattativa diplomatica portò a una maggiore attenzione verso le necessità e gli equilibri politici interni dello Stato.
Il cardinale Giovanni Juvenis venne inviato nel 1451 per firmare un concordato con Alfonso in cui il re si impegnava alla restituzione di beni ecclesiastici e si definivano i rapporti tra il Regno di Napoli e la Chiesa di Roma. L’anno successivo Niccolò rimase neutrale di fronte alle guerre che erano riprese per la successione di Milano.
Solo nel 1453, sull’onda dell’impressione per la caduta di Costantinopoli, Niccolò tentò di affrontare con maggiore vigore il problema della pace tra gli Stati italiani. Nella prima metà di settembre, prima dell’indizione della crociata, convocò a Roma un congresso di pace. Lentamente arrivarono i rappresentanti di Napoli, Firenze e Venezia; solo ai primi di novembre quelli del duca di Milano. Le discussioni furono del tutto inconcludenti. Lo stesso pontefice si convinse che «la guerra tra i principi di quasi l’intera Italia avrebbe significato la pace della sua Chiesa, mentre la concordia tra loro avrebbe invece portato alla Chiesa la guerra» (Manetti, 2005, p. 109). Con queste premesse non sorprende che le trattative siano completamente fallite.
Ebbero buon fine qualche mese dopo, quando al tavolo di pace non si sedettero Niccolò e Alfonso d’Aragona e l’iniziativa venne presa da un agostiniano, Simone da Camerino, inviato in segreto a Milano dai veneziani. A conoscenza della trattativa era Cosimo de’ Medici, preoccupato dall’insofferenza dei fiorentini per le forti tassazioni legate alle spese di guerra, la stessa preoccupazione che spingeva Venezia e Milano a trattare. L’accordo fu raggiunto a Lodi il 9 aprile 1454. Violentissime furono le reazioni di Alfonso; addolorato il pontefice, che però accolse i sei ambasciatori inviati al re di Napoli, li rassicurò sul suo atteggiamento e li fece accompagnare dal cardinale Angelo Capranica come legato pontificio. Alfonso ratificò il 26 gennaio 1455 il trattato, che fu infine sottoscritto dal pontefice il 25 febbraio e promulgato il 2 marzo. La notte fiaccole e fuochi illuminarono Roma.
La città di Roma era stata negli anni precedenti una delle preoccupazioni più forti di Niccolò. Appena eletto, riprendendo in gran parte decisioni di Eugenio IV, aveva assicurato ai romani autonomia amministrativa, confermato gli Statuti, affidato a cittadini romani le magistrature cittadine e i benefici ecclesiastici locali, destinato le rendite della gabella del vino al funzionamento dello Studium e in subordine al restauro delle mura, confermato i provvedimenti di Eugenio IV a favore dell’Arte della lana, destinato le gabelle della città soltanto al soddisfacimento di necessità interne, definito il peso delle gabelle del vino e del macinato, affermato la libertà di esportazione di ogni tipo di merci e di sfruttamento della terra. Non è chiaro se per decisione pontificia, ma sicuramente non contro la sua volontà, era stato affidato a Stefano Porcari il governo della Marittima e della Campagna. Furono perdonati Lorenzo Colonna, Orso Orsini, Everso degli Anguillara (e nel 1449 Dolce degli Anguillara, che era stato al servizio dello Sforza), Giovan Battista, Marino e Francesco Savelli, che erano stati privati da Giovanni Vitelleschi dei loro possedimenti feudali per aver aiutato Antonio da Pontedera; i Colonna ebbero il permesso di riedificare Palestrina rasa al suolo da Vitelleschi; nel giugno 1447 per intercessione di Alfonso d’Aragona vennero graziati Evangelista Sordi e i suoi compagni colpevoli di rivolta; nel 1449 Orsino Orsini.
Tra i provvedimenti relativi alla città vanno soprattutto ricordati la nuova stesura nel 1452 degli Statuti dei Maestri delle strade, con un rigido controllo degli spazi pubblici, e il compito affidato al senatore, nello stesso anno, di perseguire e giudicare ladri e rapinatori.
Il rapporto con Roma rimase sempre molto complicato. La scelta dei Colonna e degli Orsini o, in ogni caso, del vecchio ceto dei baroni, come interlocutori privilegiati e destinatari dei vantaggi delle scelte politiche pontificie, alienò a Niccolò l’appoggio di quel gruppo sociale di mercanti e proprietari fondiari maggiormente legato all’attività produttiva cittadina, che era emerso nella seconda metà del Trecento e si era consolidato nei primi decenni del Quattrocento.
La sempre sotterranea linea politica municipale romana, segnata dal repubblicanesimo e da rivendicazioni autonomistiche, tornò a riemergere improvvisamente con la congiura di Stefano Porcari del 1453, che ebbe sicuramente coinvolgimenti anche esterni alla città e che prevedeva la cattura del pontefice e dei cardinali durante la liturgia dell’Epifania. Una delazione tradì i congiurati; Porcari venne impiccato ai merli di Castel S. Angelo, dopo un processo sommario, e uguale sorte subirono nei mesi successivi altri capi della tentata rivolta, ricercati in tutta Italia. Il tentativo di Porcari accentuò le preoccupazioni nei confronti dei romani del papa, molto sospettoso dei loro atteggiamenti; sul letto di morte, nel suo Testamento ai cardinali, egli tracciò una breve storia del papato dall’età carolingia fino ai suoi giorni, individuando sempre e solo in essi i protagonisti delle più gravi disavventure dei pontefici.
Risultati più duraturi ebbe la politica interna in altre terre dello Stato pontificio. A Bologna, Niccolò indicò come vescovo della città Giovanni del Poggio e, alla morte di questo, suo fratello per parte di madre Filippo Calandrini, che successivamente sarebbe stato nominato cardinale; nominò nel 1450 legato a latere per Bologna, la Romagna e la Marca d’Ancona il cardinale Bessarione; ma soprattutto nei primissimi mesi del suo pontificato concordò con i Bolognesi i Capitoli, destinati a guidare i rapporti tra città e Chiesa fino alla Rivoluzione francese: si concedeva da parte papale un’ampio riconoscimento delle autonomie locali e da parte bolognese si riconosceva la sovranità pontificia esercitata attraverso rappresentanti in temporalibus et spiritualibus.
Subito dopo l’elezione Niccolò confermò anche i vicariati alle Signorie dello Stato pontificio: nel luglio 1447 il vicariato apostolico di Federico da Montefeltro su Urbino e sulle terre montefeltrine compreso Gubbio, quello di Alessandro Sforza su Pesaro, di Pino III Ordelaffi su Forlì, dei Varano su Camerino e le terre circostanti, dei Malatesta su Cervia, Cesena, Rimini, Fano e Senigallia. In anni più tardi il pontefice non si oppose alla politica di unificazione dei propri territori sviluppata da Borso d’Este. Anche nei confronti dei Comuni dello Stato venne perseguita una politica di conferma dell’esistente e di privilegio delle oligarchie già consolidate, come a Perugia con i Baglioni, a Todi, a Spoleto e a Orvieto.
Fin dai primi mesi Niccolò impostò un’attenta opera di difesa dell’ortodossia, in molti casi non estranea a preoccupazioni politiche. Alcune aree, come la Boemia, posero problemi la cui soluzione fu trovata soltanto ben oltre il pontificato di Niccolò.
In Italia i suoi interventi si indirizzarono soprattutto contro i Fraticelli ‘dell’opinione’o ‘del barilotto’, diffusi in molte importanti città italiane e in Grecia, soprattutto ad Atene. Già il 3 luglio 1447 diede incarico a Giovanni di Capestrano di estirpare l’eresia e di ricondurre i Fraticelli all’ortodossia; negli anni successivi questo compito rimase assegnato soprattutto ai predicatori itineranti.
A difesa dell’ortodossia nel 1447 a Milano venne reiterata la condanna di Amedeo Landi; venne inviato Antonio da Oliveto in Albania (sostituito poi da Tommaso di Lesina) e ad Andrea da Costantinopoli arcivescovo di Nicosia fu affidato il controllo dei Maroniti; nel 1448 si ebbe un deciso intervento in Borgogna contro gruppi ereticali che predicavano contro la confessione, la penitenza e il valore delle indulgenze; ancora in Francia, nel 1451, il pontefice intervenne contro aberrazioni sessuali, negromanti, indovini, eretici quarreristi. Nel 1449 il minorita Matteo da Regio fu designato per combattere l’eresia dei ‘Nuovi cristiani’ in Campania e Puglia; nel 1450 al cardinale Dionigi Szech fu affidata la riforma dei conventi in Ungheria, nel 1451 a Niccolò Cusano la riforma religiosa della Germania e a Giovanni da Capistrano il compito dell’Inquisizione; sempre nel 1450 il cardinale Guglielmo d’Estouteville fu legato in Francia, con la prospettiva di far abrogare la Prammatica Sanzione (compito fallito per la forte adesione alla Prammatica manifestata dal clero francese a Bourges nel luglio 1452), Bartolomeo Roverella e ancora Cusano furono inviati in Inghilterra. Nel 1452 il pontefice delegò a Scarampi la riforma di tutte le chiese romane, a cominciare da S. Pietro (incarico questo affidato a Rodrigo Sánchez de Arévalo e al vescovo Alfonso de Segura che si concretizzò nel 1454 con la pubblicazione di una costituzione che definiva modi e usi dell’abbigliamento dei canonici e confermava statuti e prerogative della basilica); emanò inoltre nello stesso anno una bolla Ad futuram rei memoriam indirizzata a tutti i religiosi che ricoprissero incarichi in Curia e fuori di essa, in cui condannava il concubinato e obbligava in modo perentorio all’abbandono della concubina entro nove giorni.
Un coinvolgimento insieme religioso e politico richiese la situazione boema e quella nei Balcani. Il compito venne affidato, anche per le implicazioni politiche, al cardinale legato Carvajal, incaricato nella Dieta di Praga (1448) di difendere gli interessi dinastici di Ladislao postumo. Nel 1452 fu designato come legato Enea Silvio Piccolomini, al quale fu affiancato Niccolò Cusano anche con il compito di pacificare la Germania e gli oppositori di Federico III.
Con l’aiuto di Casimiro re di Polonia il pontefice riuscì, nei primissimi mesi del pontificato, a ricondurre all’obbedienza romana l’arcivescovo di Gniezno in Polonia Olesnicki, mentre il re di Bosnia Stefano Tommaso abbandonò l’eresia, anche se, ancora nel febbraio 1448, il papa doveva reiterare l’incarico di legato a Tommaso vescovo di Lesina per riportare all’ortodossia nobili, baroni e religiosi, tra i quali si distinguevano soprattutto Stefano voivoda e Giovanni Paulonich voivoda, consentendo la confisca delle loro proprietà, la loro uccisione o riduzione in schiavitù, vietandone la sepoltura cristiana. Per tentare di sanare le forti resistenze greche all’accettazione delle decisioni conciliari fu affidata la legazione ad Andrea di Costantinopoli vescovo di Nicosia, che nel 1450 fu incaricato di reprimere i forti fermenti ereticali presenti nell’isola di Cipro; nel 1448 si ebbe la proibizione in Grecia del rito greco per i Latini, con la precisazione che il concilio di Firenze non aveva mai permesso la mescolanza dei riti; nel 1450 un deciso intervento per riformare abitudini e costumi dei Cavalieri Gerosolimitani, che prevedeva il controllo del loro abbigliamento, dei loro movimenti, della vita in convento e pene severe per i trasgressori. Nello stesso anno vennero annullati gli accordi stipulati tra i Cavalieri di Rodi e i musulmani, che danneggiavano anche gravemente gli interessi di Alfonso d’Aragona, così come nel 1451 si reiterò il divieto di commercio con gli infedeli, soprattutto di grano e alimenti, rafforzato anche con puntuali precisazioni per i musulmani di Spagna, che trovavano complicità nei nemici di Giovanni re di Castiglia.
A fronte di ciò è l’atteggiamento di apertura in Spagna nei confronti dei convertiti che, nonostante le forti resistenze locali, fu ribadito in più occasioni potessero ricoprire tutti gli uffici laici ed ecclesiastici (1449, 1451), mentre si decretò il divieto totale di alcun rapporto tra la comunità cristiana ed ebrei e musulmani (1451), si vietò la costruzione di nuove sinagoghe, si stabilì l’invalidità della testimonianza di musulmani e di ebrei, si impose loro l’uso di abiti diversi e segni distintivi.
La situazione turbolenta dell’Europa centro-orientale richiese continui interventi: in Ungheria vennero inviati i cardinali Sbigneo Olesnicki, per risolvere i problemi politici anche con l’aiuto di re Casimiro, e Dionigi Szech per riformare la disciplina monastica. Molto importante fu la missione affidata nel 1450 in Germania a Niccolò Cusano, che coinvolse anche la Boemia, pur se con grandi opposizioni e relativi risultati.
Nel 1448, con due successive promozioni, Niccolò creò cardinali Antonio de la Cerda (16 febbraio), Astorgio Agnesi, Latino Orsini, Alano de Coetivy, Giovanni Rolin, il fratellastro Filippo Calandrini e Niccolò Cusano (20 dicembre). Furono scelte in qualche caso molto felici per la personalità di alcuni, che tenevano anche conto dell’equilibrio politico europeo; così come nel 1449 furono conseguenza dell’accordo con l’antipapa Felice V le nomine cardinalizie dello stesso Amedeo di Savoia e di Giovanni d’Arsy, Ludovico de la Palud e Guglielmo d’Estaing; nella stessa occasione venne reintegrato Luigi d’Aleman, destituito nel 1440 da Eugenio IV.
Nel gennaio 1449 venne pubblicata la bolla d’indizione del giubileo del 1450, che fu l’avvenimento religioso più importante del pontificato di Niccolò V. Il documento ripercorreva integralmente le bolle d’indizione di Clemente VI e di Gregorio XI e proclamava il giubileo a partire dal successivo Natale, non tenendo conto della scelta fatta dai pontefici precedenti di svolgerlo ogni 33 anni.
L’Anno santo vide un’enorme affluenza di pellegrini soprattutto per le cerimonie natalizie e per tutto gennaio, per la Pasqua fino a maggio all’Ascensione, quando una violenta epidemia che colse la città interruppe l’afflusso, quindi di nuovo da ottobre fino alla fine dell’anno. Il 24 maggio venne anche canonizzato Bernardino da Siena, con grandissime spese e altrettanto concorso di folla. Nei primissimi mesi dell’anno farina e grano non furono sufficienti a sfamare tutti; durante la Settimana santa l’affluenza su ponte S. Angelo fu tanta da costringere i fanti del Castello a sfollare la gente con i bastoni; negli ultimi giorni del giubileo sullo stesso ponte oltre 170 pellegrini morirono calpestati o affogati nel Tevere per il cedimento dei parapetti a seguito del panico generato nella folla dal violento scalpitare di una mula.
L’affluenza di un così gran numero di persone, non quantificabile a dispetto delle mirabolanti cifre dei cronisti, fece moltiplicare la resa dei dazi e delle gabelle sulle merci introdotte in città, lievitò a dismisura le offerte dei pellegrini, portò nelle casse della Chiesa un’abbondanza quasi senza limite di denaro, arricchì osti e tavernieri, banchieri e venditori di oggetti sacri.
Niccolò, seguendo le sue naturali inclinazioni, scelse di usare le rendite del giubileo per ricostruire Roma e per rifondare la cultura.
Prima del giubileo del 1450 gli interventi edilizi voluti dal pontefice erano stati di ordinaria amministrazione. I biografi curiali e le fonti contemporanee ricordano restauri e riedificazioni, ma i titoli citati (con l’esclusione, per la qualità, degli interventi in S. Pietro) rientrano appunto nella tradizione. Più significativi furono i lavori per S. Stefano Rotondo, S. Susanna e S. Teodoro; sicuramente importanti quelli intrapresi per i Palazzi apostolici Vaticani (tra questi, la cappella Niccolina affrescata da Beato Angelico) e altrettanto significativi quelli di restauro dell’intera cinta muraria, così come le costruzioni difensive in Castel S. Angelo e in Campidoglio. Restò invece inattuato il programma relativo alla completa trasformazione di Borgo in una vera e propria città curiale, strettamente collegata con S. Pietro e con i Palazzi Vaticani, separata dalla città dei romani. L’elemento caratterizzante del progetto era la fortissima preoccupazione militare: fortificata la basilica, con un progressivo restringimento delle vie d’accesso; fortificati i Palazzi Vaticani con un controllo anche degli spazi interni; fortificato il nuovo Borgo. Nel suo Testamento ai cardinali, in punto di morte, Niccolò chiariva che l’intero progetto non era stato pensato per ambizione personale, ma per dare tranquillità ai suoi successori.
L’impegno culturale del pontefice ha un rilievo eccezionale nelle biografie. I biografi di Niccolò raccontano un pontefice umanista e protettore degli umanisti, attento ricercatore di codici, rifondatore della biblioteca pontificia, che aveva subito perdite gravissime in seguito allo scisma. Utilizzando le entrate del giubileo, stipendiò traduttori per realizzare la versione latina di opere greche, fece lavorare filologi alla migliore definizione di testi classici, fece trascrivere e comprare manoscritti. Impegnò a guidare l’impresa Giovanni Tortelli e, in pochi anni, soprattutto dopo il 1450, raccolse oltre 1200 manoscritti greci e latini, alcuni di eccezionale importanza, che spaziano in molti campi della cultura umanistica.
Bisogna anche ricordare le molte università che vennero fondate durante il suo pontificato e per le quali resta la sua bolla di fondazione: Barcellona e Besançon (1450), Glasgow (1451), Valencia (1452), Treviri (1454) e i suoi interventi a favore di università già esistenti (Bologna e Canterbury: 1448; Roma, in anno incerto).
Durante il pontificato di Niccolò si ebbe l’ultima incoronazione imperiale a Roma, preparata da una lunga trattativa e più volte rinviata per le difficoltà di Federico in Germania e per la preoccupazioni di Niccolò che la presenza dell’imperatore riaccendesse in Italia fervori neoghibellini e a Roma tensioni repubblicane e municipali. L’accordo fu infine raggiunto con le più ampie assicurazioni da parte di Federico III e con l’abile mediazione di Enea Silvio Piccolomini, e nel marzo 1452 l’imperatore fu incoronato a Roma, dove fu celebrato anche il suo matrimonio con Eleonora del Portogallo.
L’attenzione per un rigoroso rispetto della liturgia fu sempre fortissimo in Niccolò, a sottolineare la continuità del papato e della Chiesa, a difesa delle prerogative pontificie e della Chiesa di Roma, nella riproposta dell’ideologia papale di sovrano nello spirituale e nel temporale, a conferma della sacralità della persona del papa. Il pontificato di Niccolò si connotò in tal modo con una forte cura per la simbologia, per i gesti, per gli oggetti simbolici.
Negli ultimi anni del pontificato le fonti raccontano di un pontefice sempre più tormentato per quanto accadeva, privo di fiducia verso i suoi collaboratori più vicini e verso i loro pareri, sfinito dalle malattie.
Morì a Roma il 24 marzo 1455.
Durante i novendiali la prima orazione funebre fu pronunciata da Nicolò Palmieri, quella conclusiva da Jean Jouffroy, che propose la santità di Niccolò, un tema ampiamente poi sviluppato da Giannozzo Manetti nella sua biografia, pubblicata a pochi mesi dalla morte e basata su fonti curiali e in molte circostanze sulla stessa testimonianza di Niccolò o di persone a lui molto vicine.
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