INNOCENZO XIII, papa
Michelangelo Conti, secondogenito di Carlo, duca di Poli, e di Isabella Muti (e non Monti: si veda copia dell'atto di battesimo in Arch. segr. Vaticano, Proc. Dat., 72, c. 234), nacque il 13 maggio 1655 e fu battezzato a Roma, nella chiesa di S. Pantaleo, il 16 maggio.
Destinato il primogenito Giuseppe all'eredità di titolo e feudi e al proseguimento della famiglia, quel che attende Michelangelo e il terzogenito Bernardo Maria è la carriera ecclesiastica. Egli ebbe la prima istruzione ad Ancona, presso lo zio paterno Giovanni Nicola, vescovo di quella città e cardinale dal 15 febbr. 1666. Proseguì poi i suoi studi a Roma, nel Collegio romano. Alla luce dei successivi atteggiamenti di I. XIII, è ipotizzabile che l'esperienza presso i padri della Compagnia di Gesù non sia stata gran che positiva e che allora nascessero le premesse, quanto meno psicologiche, della futura diffidenza, scarsa simpatia e, poi, antipatia e, infine, ostilità manifesta. Comunque, alla formazione umanistica della ratio studiorum, seguì la laurea in utroque alla Sapienza, che - con l'assunzione degli ordini sacri - corredò il giovane di tutti i requisiti per candidarsi all'affermazione nella Curia romana. Prima tappa dell'ascesa fu la nomina a cameriere segreto di Alessandro VIII. Questi lo inviò a Venezia latore, per il doge Francesco Morosini, del pileo e dello stocco (cioè del cappello e della spada d'onore di generale della Chiesa) e la cerimonia di consegna avvenne l'8 maggio 1690 nella basilica di S. Marco.
Divenuto referendario delle due Segnature il 14 ag. 1691, il 17 dello stesso mese fu nominato governatore di Ascoli e il 18 commissario generale contro il banditismo nello Stato della Chiesa. Seguirono, il 6 dic. 1692, la designazione a governatore della provincia di Campagna e Marittima e, il 6 maggio 1693, a governatore di Viterbo. Quando questa città fu colpita, nel giugno del 1695, da una forte scossa di terremoto, egli provvide a disporre il restauro degli edifici lesionati e il ripristino della viabilità.
Il 13 dello stesso mese fu nominato arcivescovo di Tarso in partibus e consacrato a Roma dal cardinale Galeazzo Marescotti il 26 giugno; il 28 fu decorato del titolo di assistente al soglio pontificio. Nominato, quindi, il 1░ luglio, nunzio in Svizzera, si insediò a Lucerna il 7 settembre rimanendovi sino al 24 nov. 1697.
Di nuovo a Roma, il 24 marzo 1698 venne preposto alla più prestigiosa nunziatura di Portogallo.
Raggiunta Lisbona il 5 giugno, il Conti vi rappresentò la S. Sede in un periodo contrassegnato dall'afflusso d'oro brasiliano, dall'intensificata coltivazione della vite, dal sagomarsi stesso dell'economia in funzione della domanda inglese. E sancito lo stretto legame con l'Inghilterra dal trattato commerciale del 27 dic. 1703, conseguenza, peraltro, dell'adesione, del 16 maggio, del re portoghese Pietro II all'alleanza antiborbonica costituita dall'Impero, l'Olanda e, appunto, l'Inghilterra nella guerra di successione di Spagna. Fu un'autentica svolta questa della politica estera, per cui il Portogallo passò dall'iniziale sostegno a Filippo di Borbone a quello fornito a Carlo d'Asburgo. E in tal senso il nunzio si era attivamente adoperato. Ma, se nell'ambito della politica internazionale, l'azione del cardinale C0nti si rivelava efficace, in fatto di real padroado, il nunzio non riusciva a smorzare l'ampia portata con cui l'intendeva il re.
Il suo operato in ogni caso fu apprezzato da Clemente XI e premiato, il 7 giugno 1706, con l'elevazione al cardinalato in sostituzione di Gabriele Filippucci che, nominato nel concistoro del precedente 17 maggio, lo aveva rifiutato. Il papa decise di lasciarlo a Lisbona come internunzio.
L'apprezzamento di Clemente XI era motivato anche dalla fermezza con cui il Conti si era battuto contro i riti cinesi, i quali, invece, trovavano comprensione a corte in quanto efficaci ad allargare la penetrazione missionaria e, con questa, a consolidare le posizioni portoghesi. Egli contrastò energicamente le giustificazioni della Compagnia e fece proprie le proteste del cardinale Ch.T. Maillard de Tournon che a lui si appellò, nel gennaio del 1708, dal lontano "ergastolo" di Macao dove, sensibili alle trame gesuitiche e con queste conniventi, le autorità portoghesi di fatto lo avevano sequestrato. Le rimostranze del nunzio a Giovanni V furono durissime e non senza trapassare - al di là del dramma personale del Tournon - a una offensiva contro la Compagnia accusata di sistematici intrighi e menzogne. Dalla sua il Conti ebbe la moglie del re, Maria Anna d'Austria, figlia del defunto imperatore Leopoldo I e sorella dell'imperatore Giuseppe I.
In previsione della fine della sua legazione, al cardinale Conti il 24 genn. 1709 Clemente XI assegnò il vescovato di Osimo. Ma il suo successore a Lisbona, Vincenzo Bichi, fu nominato soltanto il 27 sett. 1709 e il Conti rimase nella capitale portoghese sino al 24 ag. 1710 partendo comunque prima che il nuovo nunzio arrivasse.
Rientrò a Roma forte della designazione - che dovette soprattutto alla regina - a protettore della nazione portoghese presso la S. Sede, onore che gli assicurava una rendita di 6000 scudi all'anno. Ciò - sempre che sia esatto quanto di I. XIII scrive riepilogando brevemente la sua vita antecedente al papato l'ambasciatore veneto Andrea Corner - sino al 1712; poi (alla morte, il 18 dic. 1714, del cardinale Cesare d'Estrées) avrebbe riassunto la "protezione del re di Portogallo" con conseguente vantaggio retributivo.
Nel concistoro del 20 dic. 1710 Clemente XI consegnò al Conti il cappello cardinalizio e il 23 febbr. 1711 gli assegnò il titolo presbiteriale dei Ss. Quirico e Giulitta. Il 1░ agosto 1712 lo nominò vescovo di Viterbo. A questo vescovato il Conti rinunciò il 14 marzo 1719 per ragioni di salute.
L'episodio più rilevante del suo cardinalato fu la presa di distanza dalla bolla - emessa l'8 sett. 1713 e pubblicata il 10 - Unigenitus Dei filius di Clemente XI che, nel condannare 101 proposizioni tratte dalle Réflexions morales di P. Quesnel, di fatto condannava l'intera dottrina giansenistica.
Agisce in lui la stizza del cardinale offeso dalla mancata consultazione del Collegio cardinalizio. Ma il suo eccepire va oltre la questione di metodo quando - forse orientato dal suo teologo di fiducia, il servita Gerardo Capassi - considera la bolla non tanto formulazione ex cathedra, quanto sorta di giudizio personale del papa e, come tale, non vincolante le coscienze. Questo suo atteggiamento fu inteso e frainteso nell'affabulazione degli ambienti giansenisti e filogiansenisti come virtuale scelta di campo; alla sua reazione viene fatto credito di un sottinteso agostinianismo che, sommato all'intransigenza contro i riti cinesi manifestata in Portogallo, accosterebbe il Conti proprio al giansenismo. E anche la sua estraneità alla pietà cristologica esasperata (la liturgia della festa del Preziosissimo Sangue e del S. Cuore) è travisata a mo' di conferma di un suo schierarsi alternativo, che, di fatto, non c'è mai stato. Tant'è che membro della congregazione che, riunitasi il 19 marzo 1720, si pronunciò, il 22, per l'apertura del processo al cardinale G. Alberoni - anche se tutt'altro che convinto della colpevolezza di questo - si guardò bene dal manifestare le sue intime riserve.
Morto, il 19 marzo 1721, Clemente XI, arduo prevedere chi gli succederà, come constatano e gli osservatori e gli stessi partecipanti al conclave.
Nemmeno "il partito de todeschi" - così il rappresentante della Serenissima Corner i cui dispacci costituiscono un attendibile rendiconto sull'andamento del conclave - si presenta compatto, "molto fortificato et unito". Sarà, allora, decisiva la "pluralità de voti de zelanti". Il 1░ aprile, in prima battuta, sedici voti su ventotto vanno al cardinale Fabrizio Paolucci, già segretario di Stato del papa defunto. Sono molti, ma non bastano. Per vincere occorrono i due terzi dei suffragi. E a stroncare le speranze di Paolucci piomba il veto di Vienna, di cui è latore il cardinale M.F. von Althan. Nel contempo, già il 1░ aprile, due voti vanno al Conti. E nelle votazioni successive il suo nome compare, sparisce, poi ricompare ora con un solo voto, ora, come nella mattinata del 14, con sette. Il che, se si considera che, nel frattempo, i votanti sono aumentati, non è gran che indicativo. Più sintomatica, invece, la costanza - anche se con qualche soluzione di continuità: nessun voto, per esempio, nella mattina del 20, nel pomeriggio del 21 e in quello del 23 - del resistere e persistere del suo nome. Il 26 ha quattro voti il mattino, due il pomeriggio. Poca cosa, stando ai numeri. Però è proprio il 26 che Corner registra come "sopra il cardinale Conti si promosse una voce favorevole per lui di tutta Roma". Ancorché "effimera", è già un tratto distintivo. "In conclave" già si appalesano i fautori del Conti. E tra questi colui che più esce allo scoperto è il cardinale Annibale Albani. A lui ancora ostili gli "spagnoli"; a lui non favorevole il cardinale Francesco Acquaviva d'Aragona. È, invece - così Corner il 30 aprile -, "portato" dai "todeschi" che lo ritengono "ottimamente inclinato all'imperatore", è "fiancheggiato dalli francesi", risulta "prescielto dalla maggior parte del partito dell'Albani". Ma dai voti ciò stenta a manifestarsi. Salta fuori come "causa di molto pregiudizio" per il Conti il fatto abbia "numerose parentelle". Uomo, a detta di Saint-Simon, "doux, bon, timide", Conti "amait fort sa maison". C'è da paventare un papa nepotista o, quanto meno, pressato dai parenti, dalla clientela familiare. Nel frattempo s'ingrossa il corpo elettorale. I votanti - appena ventotto il 1░ aprile - il 7 maggio sono cinquantaquattro. E il Conti quel giorno non racimola che quattro voti la mattina e sei il pomeriggio. Ciò non toglie la vittoria sia certa. Anche Althan accondiscende, passa dalla sua parte.
Sicché, all'indomani, l'8 maggio 1721, è eletto papa, pressoché all'unanimità, con cinquantatré voti. E, in memoria dell'avo Innocenzo III, il neopontefice adotta, appunto, il nome d'Innocenzo XIII.
"Tutti parlano bene" del nuovo papa a Vienna, scrive da questa, il 24, Apostolo Zeno a Corner: "tutti", a Vienna, vanno dicendo che il "nuovo eletto" è "uomo franco e sincero, inclinato al ben fare a tutti, amante delle lettere" come è desumibile, se non altro, dall'"assai buona libreria" da lui costituita. E fatto proprio anche da Zeno il giudizio della corte; anche per il poeta cesareo, I. XIII è "uomo da bene e lontano da ogni interesse e passione". C'è da sperarne "un felice pontificato". Non altrettanto speranzoso Muratori che - nello scriverne, già il 14, da Modena a Zeno - ricorda che pure in Clemente XI "letterato" s'era confidato: "poteva far tanto in pro delle lettere" e, invece, ha deluso; "nulla di grande ha fatto". Quanto a I. XIII, "staremo a vedere se farà meglio". È Vallisnieri quello che con più decisione si rallegra: "stimo assai il pontefice presente" - scrive il 28 da Padova lo scienziato a Muratori - se non altro "perché ha avuto petto di conoscere il cattivo genio di chi vi vuol poco bene e s'è levata una vipera dal seno". È chiaro: Vallisnieri fa presente a Muratori che è proprio lui quello che dovrebbe gioire. Appena papa, I. XIII ha allontanato di brutto Giusto Fontanini dalle "stanze" assegnategli "nel palazzo apostolico". Fresco autore di Della istoria del dominio temporale della Sede apostolica nel Ducato di Parma e Piacenza (Roma 1720), Fontanini non si attendeva un "trattamento" del genere da Innocenzo XIII. Evidentemente questi ritiene controproducente il suo oltranzismo curialistico. Ed evidentemente da cardinale non ha gran che apprezzato la veemenza del suo polemizzare con Muratori.
Le altre prime mosse del papa, incoronato solennemente il 18 maggio, furono la rimozione di Giovanni Cristoforo Battelli dall'ufficio di segretario dei Brevi ai principi e la nomina di Vincenzo Antonio Alamanni, già segretario della congregazione dell'Unigenitus e della Cifra, ad arcivescovo in partibus di Seleucia e nunzio a Napoli. Una promozione rimozione nel suo caso. Morto, il 9 maggio 1721, il vicario di Roma cardinale Giovanni Domenico Paracciani, subito ricoperto il posto vacante dal cardinale Paolucci. Segretario ai Brevi il cardinale Fabio Olivieri; alla prefettura del Concilio il cardinale Curzio Origo; alla Dataria il cardinale Pietro Marcellino Corradini; alla Legazione di Bologna il cardinale Tommaso Ruffo, senza che debba rinunciare all'arcivescovato di Ferrara; maestro di Camera Sinibaldo Doria. E teologo del papa non Capassi, ma l'abate benedettino Leandro Porzia (cardinale nel 1728), a suo tempo difensore del De ingeniorum moderatione in religionis negotio (Lutetiae Parisiorum 1714) di Muratori. Una scelta questa del teologo che un minimo autorizza a connotare le propensioni del papa. E, se così è, è da dedurre che il mancato accesso, del settembre del 1721, al colloquio con il papa di Paolo della Croce - giunto a implorare l'approvazione per l'Ordine (quello dei passionisti) da lui fondato nel 1720 - non sia limitabile al rifiuto del sorvegliante la porta, sconcertato dai suoi stracci miserandi. Perché gli si dia attenzione occorre un altro papa, Benedetto XIII: I. XIII non ama circondarsi di accesi mistici, semmai preferisce i lumi dell'erudizione cattolica. Suo prelato domestico Francesco Bianchini, il dotto antichista, il cultore di astronomia. E i talenti li preferisce impiegati; sicché sottrae al ritiro Domenico Passionei e lo nomina, il 18 giugno 1721, nunzio a Lucerna. Preposto alla carica più importante - quella di segretario di Stato - il cardinale Giorgio Spinola, con disappunto del cardinale Althan che avrebbe preferito vederla assegnata al cardinale Ruffo o al cardinale Giulio Piazza.
Un esordio, a tutta prima, felice questo di I. XIII, con un nucleo di collaboratori rinnovato e "tutti" - così Corner - "pontuali nel loro impiego". Ma subito negativa l'eccessiva "confidenza" del papa - e in ciò gioca anche il rispetto per il fratello maggiore - nel duca di Poli, che, da un lato presuntuoso, dall'altro di nulla competente, si pavoneggia a suo mentore, a suo consigliere e ispiratore. E, anche per giustificare la sua costante presenza, eccolo nominato, nel novembre del 1721, "principe del solio". Poco male il titolo. Ma non innocuo nella misura in cui si fa contenuto, poiché il papa - a mano a mano nelle udienze si stanca e le riduce - finisce, non senza che sorgano conflitti di competenza con lo Spinola, a girare problemi e questioni al fratello, con il dirottare a questo gli incontri coi diplomatici e i rappresentanti esteri. Sicché da un lato si gonfia il sussiego del duca, dall'altro si fa notoria la sua "renitenza" a "entrare" concretamente "in qualunque negotio". È in ballo da un bel pezzo la pretesa di Bologna all'"introduttione" delle acque del Reno nel Po. I tecnici ne discutono da decenni. E I. XIII non ha la lena di occuparsene. E, dichiarandosi ignaro dell'argomento, non esita a esortare l'ambasciatore veneziano Pietro Cappello a trattarne con il fratello. Ed ecco che quello, nel colloquio con quest'ultimo, affronta lo spinoso argomento della paventata - non solo dalla Serenissima, ma anche da Modena, da Mantova e dalla stessa pontificia Ferrara - diversione. Solo che il duca di Poli subito lo zittisce dicendo che "non aveva alcuna cognitione di questo negotio". Così proprio quando è il papa a stabilire che l'"affare del Reno" è di sua pertinenza. Troppo riguardoso il secondogenito con il primogenito per constatare la sprovvedutezza sin ridicola di questo. Comprensibile Spinola si irriti. Disturbante presenza quella del principe del soglio ai fini del funzionamento. Ma non per questo imputabile I. XIII di favoritismo eccessivo. Non è che il duca di Poli si arricchisca, né, per quanto vagheggi l'"acquisto del ducato di Massa", il papa si adopera per accontentarlo. I timori di eccessi nepotistici avanzati all'affacciarsi della sua candidatura non è che si avverino. Concede sì la porpora, il 16 giugno 1721, al fratello Bernardo Maria, ma questi s'è già distinto per suo conto in passato ed è ecclesiastico preparato e scrupoloso. Imputabile, semmai, papa Conti non per il cardinalato al fratello, ma per gli altri due cardinali da lui creati per promesse fatte in sede di conclave. Uno è Alessandro Albani: così ripaga Annibale, il promotore primo della sua elezione, di quello fratello maggiore. L'altro è G. Dubois; e la nomina di costui è proprio scandalosa. Al contrario di Clemente XI, I. XIII cede. D'altronde, pur di essere eletto, ha "donnée par écrit" la propria "parole", paga il pedaggio impostogli per diventare papa anche con i voti francesi. Fu anche benevolo con i tre figli - uno "in abito clericale", gli altri due "secolari senza moglie" - del fratello, ma non per questo è tacciabile di smaccato favoritismo. È persino logico che benedica le nozze del nipote Marcantonio, duca di Guadagnolo, con Faustina Mattei dei duchi di Paganica, per festeggiare le quali Annibale Antonini, un giovane letterato campano, allestisce una nutrita silloge di Rime (s.l. 1722), sollecitando per questa un "componimento" anche da Muratori. E anche se questi non invia nemmeno un sonetto, sono presenti nella raccolta versi di Baruffaldi e Vico, di Facciolati e Metastasio, di Rolli e Francesco Saverio Quadrio, di Zappata e Crescimbeni. Più che comprensibile che Carlo - il primogenito di Giuseppe e come tale a questo subentrante nel titolo di duca di Poli - sia insignito della gran croce dell'Ordine del Santo Sepolcro. Un pizzico di favoritismo effettivo è invece elargito a vantaggio di Stefano, il nipote prete: l'ingresso "in prelatura nel posto di protonotario apostolico soprannumerario con l'aggiunta di 2000 scudi di annua rendita di benefici ecclesiastici". Sin qui per i nipoti, parenti stretti. Suo parente alla lontana monsignor Zosimo Valignani, referendario di ambo le Segnature e protonotario apostolico. E pure suo parente alla lontana Federico Valignani, marchese di Cippagatti e signore di Torrevecchia e Valignano nonché fondatore nel 1720, nella natia Chieti, della colonia arcadica Tegea essendo della stessa vicecustode. Per quest'ultimo il papa si limita a caldeggiare una qualche carica a Napoli. Nessun abuso della carica, dunque, da parte di I. XIII per favorire la parentela.
Il suo papato fu troppo breve perché lasciasse un segno significativo sull'economia dello Stato della Chiesa. Riconfermò il 9 luglio 1721, il 27 maggio 1722 e il 4 luglio 1723 gli editti di Clemente XI in materia di libero commercio interno dei grani e rinnovò, il 28 giugno 1721, il divieto, già stabilito dal predecessore, di importazione di alcuni tessuti esteri. Segnalabile, altresì, la privativa - che non include le Legazioni di Bologna e Ferrara - del 1721 ad Andrea Collin per una fabbrica di spille. È sancita con chirografo pontificio del 27 sett. 1721 la proposta della congregazione da lui costituita in merito alle "tratte" granarie a detta della quale questa va fissata in 2 rubbi di grano per ogni rubbio di maggese e di 1 rubbio di grano per ciascun rubbio di colti, per garantire una qualche esportazione anche all'estero. Un minimo attento, per tal verso, I. XIII, a sollevare "l'arte agraria" e un minimo interessato a problemi di economia e di politica se legge - rimanendone impressionato - manoscritto il Testamento politico di Lione Pascoli, che sarà stampato a Perugia nel 1733. Ma non è indicativa di gran apertura mentale la conferma, del 18 genn. 1724, della Constitutio di Clemente VIII vietante agli ebrei "novarum rerum mercaturam" così costringendoli al solo "strazzariae seu cenciariae exercitium". Investito del Regno di Napoli e Sicilia con condono del pagamento degli arretrati del relativo contributo in contraccambio dell'impegno a una regolare corresponsione per il futuro, Carlo VI d'Asburgo riprese - dopo lunga interruzione -, il 29 giugno 1722, l'omaggio della chinea; naturalmente il connestabile Filippo Colonna non adopera l'"idioma spagnolo", bensì, come si esige a Vienna, il latino. Inascoltato, però, il papa laddove chiede l'abolizione della Legazia di Sicilia, perché l'imperatore - incurante della bolla di soppressione del 1714 - non rinuncia alle prerogative della "Sicula monarchia". E smacco cocente per il pontefice è la "dilazione" della restituzione di Comacchio. Il Papato è troppo debole per imporla, e troppo poco autorevole Roma per contare sul piano internazionale. Sicché - così l'inviato veneziano Corner il 28 giugno 1721 - a I. XIII non resta che manifestare inane "gelosia" per i "due trattati" di Francia e Spagna con l'Inghilterra stipulati senza interpellarlo. La politica estera europea prescinde dal papa. E non per colpa sua, ma per la strutturale irrilevanza del papa re sul piano internazionale e per la scemata autorevolezza del vicario di Cristo. Al pontefice, insomma, si sta badando sempre meno, e ciò anzitutto da parte dei sovrani cattolici. Non è che risulti frenato il loro interventismo nel terreno del cosiddetto mixti iuris, non è che prestino orecchie ricettive agli ammonimenti romani in fatto di contenzioso giurisdizionale.
Il fatto che sia confermato nella segreteria dei Brevi quel Carlo Maiello, distintosi per una dura replica a una scrittura del 1708 - anonima, ma, in realtà, d'Alessandro Riccardi - sostenente le Ragioni del Regno di Napoli nella causa de' suoi benefici ecclesiastici, non frena l'avanzata dello Stato, delle sue ragioni. Il fatto che I. XIII se la prenda con l'Istoria civile del Regno di Napoli di P. Giannone - e al punto da forzare il parere del S. Uffizio, al punto da intervenire nella minuta della condanna indurendola sì da bollarla come eretica - non suscita più che tanta impressione a Vienna, dove l'autore è riparato. Viene da dire che nelle grandi capitali il papa non riesce a farsi sentire se non quando quel che dice è in sintonia con le convenienze della politica. E, allora, viene adoperato, utilizzato. Viene da dire che il papa comanda realmente solo in casa propria, a Roma. E ciò anche resistendo alle pressioni da fuori. Ciò, per esempio, avviene con Alberoni, che, con I. XIII, viene assolto e reintegrato, di contro alle proteste di Madrid e Parma, nella dignità cardinalizia: chiuso il processo con breve di I. XIII del 18 dicembre. E, nel concistoro del 12 genn. 1724, è il papa stesso a dargli "il cappello". Indipendente in questo I. XIII, ma vano, nell'imminenza dell'estinzione della dinastia farnesiana, l'insistere suo sull'essere Parma e Piacenza feudo papale. Un cruccio, altresì, per lui, il tardare della "conclusione" del rinnovo del concordato con la Spagna. La pratica va per le lunghe anche perché il nunzio Alessandro Aldobrandini non si attiva a sufficienza. Né a I. XIII - il quale, comunque, emana, il 23 maggio 1723, una bolla "pro restauranda ecclesiastica disciplina in regnis Hispaniarum" che un regio decreto, del 9 marzo 1724, raccomanda di osservare - è dato di vederla portata a termine.
Quanto all'Unigenitus, la memoria dell'atteggiamento assunto alla sua promulgazione dall'allora cardinale Conti, la speranza, sia pure non fondata, di una sua apertura al conciliarismo e all'episcopalismo inducono sette vescovi francesi a rivolgersi a lui per ottenerne la revoca. Il 9 giugno 1721 eccoli indirizzare una lettera al pontefice ove, con piglio ardimentoso, a lui, appunto, si appellano per la soppressione di una bolla - l'Unigenitus - che, infetta di arianesimo, pelagianesimo e molinismo, si è tradotta in persecuzione dei cristiani autentici, dei vescovi migliori dando, nel contempo, la stura al più impudente lassismo, ai più sfacciati comportamenti. Rallentato il viaggio della lettera da un percorso volto a guadagnarle consensi: prima passa per Vienna, qui, però, accolta freddamente dall'episcopato austriaco; sicché il testo - nel frattempo stampato in latino e in francese e caldamente elogiato dal giuscanonista lovaniense Zeger Bernard Van Espen - giunge a Roma solo in novembre. La reazione del papa è subito negativa; è subito svanito l'equivoco di un suo supposto filogiansenismo. Amarissima la delusione di quanti si erano troppo illusi in tal senso. È trasmessa da I. XIII la lettera all'Inquisizione che, l'8 genn. 1722, la condanna nei termini più aspri e severi. Ribadito, allora, l'Unigenitus. Ed è pubblicata il 24 marzo la condanna, mentre, nello stesso giorno, un breve papale è indirizzato al re di Francia Luigi XV a netto chiarimento della volontà della S. Sede di rimanere saldamente confitta nel solco scavato da Clemente XI. E lo stesso viene ripetuto nella lettera, sempre del 24, al reggente, il quale - con la stampa del testo di quanto scritto e al sovrano e a lui - approfitta dell'occasione per avvantaggiarsene politicamente. I sette incauti vescovi condannati da Roma diventano avversari politici. Di fatto non tanto devono temere il papa quanto il reggente Filippo d'Orléans che, senza tanti scrupoli, adopera la condanna papale a fini di politica interna, di controllo repressivo.
Certo, quando I. XIII ha letto la lettera in lui ingenuamente troppo fidente si è sdegnato e l'ha fatta condannare. Ma c'era un passo che forse l'ha indotto a una riflessione parzialmente consenziente. È quello dove i sette vescovi accennano alla canea scatenata contro l'arcivescovo di Parigi - il cardinale L.-A. de Noailles - dai fautori del lassismo, dai sostenitori di pratiche transigenti lassamente e sin loscamente scivolate in Cina nei cosiddetti riti cinesi. A questi, a suo tempo, allorché nunzio in Portogallo, I. XIII si è ben opposto. Li ha considerati un compromesso con l'idolatria ben più pericoloso degli errori addebitabili a Quesnel. E non sordo allora, in Portogallo, e poi, a Roma, a quanto contro i gesuiti si è detto e si va dicendo. Se mai sono stati la mano destra della Chiesa, ebbene anche la destra - se reca danni, se è infetta - va tagliata. Ne sortiscono, il 13, gli Ordini intimati al padre generale della Compagnia Michele Tamburini dal segretario - ancora dal 12 apr. 1717 e sin da allora tanto grintoso con i giansenisti quanto con i gesuiti - della Propaganda Fide cardinale Pierluigi Carafa "per commando di Nostro Signore", ossia di Innocenzo XIII.
Sorta di anticipo di quel che sarà il breve di soppressione promulgato, il 7 giugno 1773, da Clemente XIV - e in effetti sta correndo voce che I. XIII voglia proprio questo: la soppressione della Compagnia -, il testo (che doveva rimanere segreto; e, invece, una volta in mano giansenista sarà pubblicato) è duramente intimidatorio. Esordisce dichiarando intollerabile l'ostinata disobbedienza gesuitica in Cina alle direttive della S. Sede; prosegue con la diretta accusa a Tamburini di mancata ottemperanza alla solenne promessa di obbedienza del 20 nov. 1711 perché non ne sono seguite efficaci misure a estirpazione della continuata insubordinazione dei riottosi confratelli; l'Ordine, insomma, non si sarebbe autocorretto, autodisciplinato; non resta altra possibilità che la correzione dall'esterno con la messa in atto di un dispositivo seccamente ultimativo. Donde, appunto, gli "ordini": cessino i riti; siano rimossi i disobbedienti; quanto a Tamburini, presenti, entro tre anni, una relazione documentante il più scrupoloso rientro nel solco dell'ottemperanza, pena il blocco dell'ammissione dei novizi; sospeso, nel frattempo, l'invio di altri missionari in Asia orientale. Un'ordinanza arcigna questa di papa Conti, da applicare all'istante. E, insieme, un giudizio senza processo, cui Tamburini tenta di replicare presentando, nel gennaio del 1724, un memoriale difensivo a propria discolpa, a difesa dei confratelli, a ripulsa dell'accusa più infamante, quella a dire della quale il comportamento dei gesuiti sarebbe stato a tal punto odioso da provocare l'arresto di altri missionari, si sarebbe spinto sino alla delazione e al tradimento, sarebbe il responsabile delle disgrazie e dei tormenti dei lazzaristi L. Appiani e T. Pedrini.
Ma I. XIII sta troppo male per occuparsi della memoria difensiva di Tamburini. Perentoriamente prescrittivi, d'altronde, gli ordini, non discutibili, non revocabili. Non è il caso di prolungare una discussione troppo a lungo protratta. Non si tratta di stabilire se i gesuiti hanno agito in buona fede, a fin di bene. Va troncato, una volta per tutte, lo scandalo dei riti cinesi. Alla Compagnia si impongono umiltà e obbedienza. In caso contrario sarà soppressa. E non è che qualcuno non si sia già espresso in tale senso. E non è che alla soppressione non pensi lo stesso papa. Ma un provvedimento del genere, di tale portata, esige il pieno vigore della mente e del corpo.
E, invece, all'inizio del 1724, questo è fiaccato, stremato, quella è appannata. A partire dal febbraio del 1724 I. XIII sta sempre peggio. Ridotto ormai a oggetto degli "esperimenti dell'arte medica" via via escogitati dai medici in costante "consulto", e tuttavia incapaci di recargli un minimo di "solievo", all'inizio di marzo le sue condizioni sono disperate.
I. XIII morì a Roma il 7 apr. 1724.
Sepolto dapprima a S. Pietro, dove non avrà alcun monumento, le spoglie furono poi trasferite nelle Grotte davanti all'altare della Madonna della Febbre.
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