GREGORIO XVI, papa
Ultimo di cinque figli, Bartolomeo Alberto Cappellari nacque a Mussoi, frazione di Belluno e residenza estiva della famiglia, il 18 sett. 1765 da Giovan Battista, notaio, e da Giulia Cesa, anch'essa figlia di notaio. La famiglia paterna, ascritta da circa un secolo alla piccola nobiltà cittadina, si era in passato distinta nelle professioni liberali, soprattutto in campo giuridico, ma aveva anche dato qualche elemento alla Chiesa. Affidato per l'istruzione di base alle cure di un canonico bellunese, G. Carrera, egli aveva quindici anni quando vide la sorella Caterina entrare in un convento di monache cistercensi: sembra che così nascesse la vocazione al sacerdozio che il 23 ag. 1783 avrebbe condotto anch'egli in convento, tra i camaldolesi di S. Michele di Murano, e che tre anni dopo lo avrebbe spinto a emettere i voti solenni. A partire dal 1790 gli sarebbe toccato l'insegnamento della filosofia e delle scienze nello stesso monastero.
Una solida formazione teologica, d'impronta fortemente antigiansenista, lo mise in condizione di affrontare con una certa baldanza le novità di un'epoca che, oltre a colpire il suo Ordine, ridotto nel 1803 a poco più di duecento unità, metteva ormai in discussione anche in Italia il tradizionale assetto piramidale della società ridimensionando il ruolo esercitatovi dalla Chiesa e dal Papato. Su questa svolta epocale il Cappellari cominciò a riflettere dopo essere stato inviato a Roma nel 1795 al seguito del procuratore generale dell'Ordine: vedere la rivoluzione giungere sin nella capitale del mondo cattolico, attraverso la diffusione dei primi circoli giacobini, lo convinse che il protestantesimo - e il giansenismo, che ne rappresentava per lui qualcosa come la versione italiana - indebolendo e minando alla base l'autorità del papa avevano aperto la strada ai successi della rivoluzione. Su tale assunto fu costruito Il trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti de' novatori combattuti e respinti colle loro stesse armi, lavoro pensato fin dal 1789, pronto già nel 1796 ma pubblicato a Roma - sembra su pressione dell'abate L. Cuccagni - solo nel 1799, con un ritardo, spiegava il Cappellari a un confratello, dovuto al timore che "imbrogliandosi le cose per Roma, non mi restino le copie in camera senza poterle smerciare" (lettera a F. Mandelli, 27 ag. 1896, in Roma, Biblioteca nazionale, Fondo S. Gregorio, b. 55/143).
L'opera, divisa in due parti (un discorso preliminare "sull'immutabilità del governo della Chiesa" e un trattato in 26 capitoli "sull'infallibilità pontificia"), si innervava di un concetto fondamentale, l'identificazione della Chiesa con il Papato, e ribadiva, sulla scia di polemisti come F. Gustá e G. Marchetti e nella ripetuta confutazione delle tesi di P. Tamburini, il primato del pontefice come caratterizzato dall'infallibilità e dunque non limitabile da alcun concilio o assemblea di vescovi. Nella sottolineatura della natura monarchica del governo della Chiesa e nella sua difesa da ogni contestazione non era difficile scorgere un riferimento alla organizzazione statuale della società civile. La ripubblicazione di questo testo nel 1832, agli esordi del suo pontificato, ne avrebbe fatto, quando ormai la Restaurazione volgeva al tramonto, una sorta di manifesto dell'indirizzo politico controrivoluzionario da assegnare alla Santa Sede nella sua contrapposizione al processo di modernizzazione in atto in gran parte dell'Europa. In tal senso si può dire che il libro fosse quasi una scoperta: "Nessuno ne aveva mai parlato, nemmeno nel mio convento, dirà in seguito lo stesso pontefice". "Ma dopo che sono diventato Papa tutti convengono che è un capolavoro" (D. Federici, G. XVI tra favola e realtà, Rovigo 1948, p. 73).
Pur con le sue certezze e mentre si rafforzava la sua preparazione, facendone uno degli elementi più culturalmente attrezzati e in certa misura anche aperti dell'ambiente ecclesiastico romano, almeno sotto il profilo dell'informazione, gli anni dal 1796 al 1800 furono per il Cappellari assai duri. Attivissimo nel seguire da vicino gli avvenimenti e nel tenerne informati i confratelli di S. Michele, per i quali aveva svolto durante un soggiorno in Romagna nel 1791 - e continuò a svolgere- una specie di commercio librario, procurando loro edizioni antiche e testi agiografici, il Cappellari, ospite a Roma del convento di S. Romualdo, traeva qualche motivo di conforto dalle molte manifestazioni di fede che credeva di vedere nella popolazione romana e nei prodigi miracolosi (religiose con le stigmate, Madonne piangenti) che nel 1796 segnalava come preannunzio di tempi in cui l'incredulità sarebbe stata definitivamente cancellata, l'Europa avrebbe ritrovato la sua unità cristiana e i fedeli sarebbero tornati alle pratiche di devozione; in corrispondenza assidua con un condiscepolo del convento veneziano, il futuro cardinale P. Zurla, gli raccontava le difficoltà sue e del clero romano, qualche dissidio interno all'Ordine ("il soggiorno [a Roma] non più mi piace, perché devo occultamente combattere con quei dell'abito che l'ànno giurata contro tutti i forestieri", confidava il 31 marzo 1798: G. Maggioni, Gli avvenimenti del periodo napoleonico nelle lettere inedite di Mauro Capellari al camaldolese Placido Zurla, in Arch. storico di Belluno, Feltre e Cadore, LXIX [1998], p. 169), la ripresa del culto dopo il ritiro dei Francesi, l'ingresso (1801) nell'Accademia di religione cattolica in cui periodicamente avrebbe tenuto dissertazioni su temi teologici, intese a risvegliare il sentimento religioso dalla grave crisi in cui era caduto per gli eventi di fine Ottocento. La nomina a vicario dell'abate del monastero di S. Gregorio al Celio (1800), ad abate dello stesso monastero (1805), a procuratore generale (1807) e a vicario generale dell'Ordine (1823) stanno a dimostrare quanto quella sua applicazione lo avesse ripagato nella considerazione della gerarchia romana. Per inciso, non era nemmeno mancato durante la dominazione napoleonica qualche ritorno a S. Michele in Murano, da dove nel 1808 gli era anche arrivata l'elezione ad abate.
Accumulava così le esperienze e le doti intellettuali e morali che, passata la bufera napoleonica, ne avrebbero favorito l'introduzione nella vita della Curia e negli organismi di governo della Santa Sede. "Il P. Cappellari è un uomo sommo, e posso assicurarla che non v'è forse persona a Roma che gode fama di dottrina come Padre Cappellari", scriveva il 26 febbr. 1823 un giovane religioso ad A. Rosmini Serbati (G. XVI. Miscellanea commemorativa, I-II, Roma 1948, p. 101), il quale di lì a poco avrebbe trovato nell'influente uomo di Curia il più sicuro punto d'appoggio romano per la creazione dell'Istituto della carità e nel papa colui che nel 1839 ne avrebbe approvato le "costituzioni". Con il requisito della robusta preparazione teologica e della conoscenza dei problemi interni e internazionali della Chiesa, il C. non parve avere molti problemi a farsi strada nella prelatura: certamente di rilievo era il rango di consulente della neonata congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, conferitogli da Pio VII nel 1814, cui si aggiunsero subito dopo l'incarico di consultore del S. Uffizio, nel 1821 quello di consultore di Propaganda Fide, poi la nomina a cardinale a opera di Leone XII che lo riservò in pectore il 21 marzo 1825 e lo pubblicò il 13 marzo 1826. Infine, come vertice della carriera, la prefettura di Propaganda Fide, affidatagli il 1° ott. 1826 per occupare il posto lasciato vacante dal card. E. Consalvi, morto due anni e mezzo prima (non sono chiari i motivi del lungo ritardo della decisione di Leone XII).
Ambientatosi presto in quest'ultimo ufficio, per lui del tutto nuovo, il Cappellari mostrò una singolare capacità decisionale e una certa apertura. Così, pur con molte distinzioni sull'obbligatorietà delle leggi statali, raccomandò ai missionari di inculcare ai fedeli cinesi di opporsi al commercio dell'oppio, consigliò di non pubblicare in Cina la legge tridentina sui matrimoni, accettando il male minore, insistette per una netta distinzione fra evangelizzazione e politica, ammise in qualche caso la partecipazione dei fedeli a cerimonie civili con usanze che avevano ormai perso ogni significato religioso. Più importanti furono la nomina di un metropolita cattolico per gli Armeni, che poneva fine a una situazione confusa e dolorosa, e i suoi interventi per un graduale avvio alla sistemazione della gerarchia latinoamericana (raccomandò e ottenne la nomina di vescovi residenziali per semplice autorità del papa, senza nessun beneplacito spagnolo). Come consultore poi degli Affari straordinari, il Cappellari aveva avuto parte attiva nel concordato con i Paesi Bassi e nella questione dei matrimoni misti in Prussia.
Nel conclave apertosi il 14 dic. 1830, in una situazione critica per lo Stato della Chiesa, con l'eco delle rivoluzioni scoppiate in Francia, Belgio, Polonia, emerse netta e ferma l'opposizione fra "zelanti" e "politicanti" (per usare un'espressione divenuta comune nella storiografia), che si potrebbe meglio chiarire parlando di intransigenti e moderati. I primi puntavano su E. De Gregorio, cardinale dal 1816, anticonsalviano, attivo nei conclavi del 1823 e del 1829; gli altri su B. Pacca, stimato ma ritenuto troppo anziano. Dato che nessuno dei due prevaleva, le due correnti si orientarono entrambe su uomini di centro, V. Macchi (osteggiato a fondo dalla Francia per l'amicizia con Carlo X) e G. Giustiniani (contro cui intervenne il veto ufficiale della Spagna, che non perdonava all'ex nunzio in Spagna la linea favorevole alla nomina di nuovi vescovi nell'America Latina senza l'intervento di Madrid). Gli intransigenti o zelanti schierati con De Gregorio e Giustiniani appoggiarono allora il Cappellari, che ottenne anche l'assenso del cancelliere austriaco K.W. von Metternich, informato a tempo, mentre le notizie di un'imminente ribellione nelle Romagne convinsero il card. G. Albani, fautore del Pacca, a desistere da altri tentativi. Il 2 febbr. 1831, dopo cinquanta giorni di conclave, venne così eletto con trentadue voti su quarantuno il Cappellari, che prese il nome di Gregorio XVI a ricordo di Gregorio XV, fondatore di Propaganda, di Gregorio Magno, già abate al Celio, e di Gregorio VII. Il 6 febbraio, ancora semplice prete (come nel Settecento lo erano stati fino al papato Clemente XI e Clemente XIV), fu consacrato vescovo dal confratello card. P. Zurla, vicario generale di Roma.
La situazione nello Stato della Chiesa era grave. Il giorno dopo l'elezione del nuovo papa, il 3, scoppiò a Bologna la rivoluzione, che in due settimane si estese ai quattro quinti dello Stato. Fu necessario chiedere l'intervento dell'Austria, che in un mese ebbe ragione dei ribelli ma, a parte ritiri momentanei, rimase nello Stato fino al 1838, insieme con la Francia che immediatamente, per far da contrappeso all'Austria, s'era affrettata a sbarcare truppe ad Ancona. Ma la situazione romana o italiana preoccupava gli Stati europei, e a fine marzo 1831 si riunì proprio a Roma una conferenza internazionale con la partecipazione di Austria, Francia, Inghilterra, Prussia, Russia. L'umiliazione della Santa Sede e di G. XVI era forte: potenze anche protestanti e scismatiche intervenivano per insegnare cosa fare al capo della Chiesa cattolica. Il 21 maggio i plenipotenziari presentarono a G. XVI un memorandum, redatto dall'inviato prussiano Ch.K. von Bunsen in modo piuttosto secco. Le potenze chiedevano varie riforme: una certa laicizzazione dell'amministrazione; modifiche del sistema giudiziario; Consigli comunali elettivi largamente autonomi; Consulta centrale con efficace controllo sul bilancio statale.
Per evitare la reazione dei liberali e salvare la propria indipendenza di fronte alle potenze estere G. XVI, pur rifiutando ogni ingerenza straniera nel proprio Stato, dichiarò che avrebbe attuato le riforme promesse e quelle che avrebbe giudicato opportune. Effettivamente nei mesi seguenti e in tutto il governo del card. T. Bernetti, segretario di Stato fino al 1836, non mancarono innovazioni. Dopo i provvedimenti del 1831 sui Consigli municipali e provinciali, il sistema giudiziario e la commissione per le Finanze, negli anni seguenti l'attività riformatrice si mosse su due linee diverse. Da una parte, il 20 febbr. 1833, la segreteria di Stato fu divisa in due branche: gli Interni, con a capo il card. A.D. Gamberini, e gli Esteri, con il segretario di Stato, allora Bernetti. Il piano, studiato con cura, avrebbe dovuto rispondere a due esigenze: ridurre il concentramento di poteri in poche mani, che tanta opposizione aveva sollevato, anche per ragioni personali, e distinguere meglio affari temporali ed ecclesiastici.
In concreto questa sistemazione, dovuta forse in larga parte ad ambizioni personali, non raccolse i frutti sperati e fu abbandonata all'inizio del 1848 quando, in un momento di grandi speranze di novità, si tornò al sistema instaurato nel 1816 e rimasto in vigore anche dopo il 1870. Su un piano diverso, l'editto del 5 luglio 1831 costituì un passo avanti verso una maggiore uniformità amministrativa, pur evitando una seria laicizzazione e lasciando una forte dicotomia fra le province settentrionali e le altre. Più importanti furono, fra 1831 e 1834, nuovi regolamenti nel campo penale e civile. Le misure prese erano, più che opportune, necessarie, perché abolivano molte delle giurisdizioni speciali che rendevano la giustizia pontificia un labirinto inestricabile. L'opera fu essenzialmente merito del giurista G. Sebregondi, inviato appositamente dal Metternich in quella che un tempo si era chiamata patria del diritto. L'aiuto austriaco, tuttavia, non fu di grande valore. Non si può parlare di una vera e propria codificazione, analoga a quella attuata negli stessi anni nel Regno di Sardegna a opera specialmente di F. Sclopis, perché mancò un chiaro principio organico ispiratore, un serio tentativo di eliminare "d'entro le leggi […] il troppo e il vano", una seria accettazione dei nuovi tempi, com'era avvenuto col codice napoleonico. Si trattò d'una risistemazione d'un materiale preesistente, largamente mantenuto, che portò a un progresso tutto sommato relativo. Dopo l'avvento in segreteria di Stato di L. Lambruschini, decisamente conservatore, le modeste riforme si arrestarono.
Rimaneva d'altra parte sempre il pericolo di una crisi che poteva esplodere al primo momento favorevole, e che, dopo la facile repressione austriaca del 1831, si verificò a Perugia nel 1833, nel Lazio nel 1837, nel 1843 e nel 1845 in Romagna: quell'anno i mazziniani si impadronirono con facilità di Rimini, pubblicando il Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai principi e ai popoli d'Europa, con critiche all'amministrazione sostanzialmente obiettive e richieste nel complesso moderate.
Si capisce come il papa, per garantire in ogni circostanza la sicurezza e la rapidità della successione, moltiplicasse le disposizioni di emergenza per l'elezione del nuovo pontefice, rimaste fino a oggi praticamente ignote anche agli storici perché mai applicate, ma chiaro segno di insicurezza e di instabilità. Si ebbero così, il 1° marzo 1831, solo un mese dopo l'ascesa al trono, la Auctas undequaque; un anno dopo la Temporum quae nacti sumus; nel 1837 la Teterrimis; nel 1844 la Ad supremam. In sostanza, si prevedeva che alla morte del papa, dentro o fuori Roma, i cardinali capi delle tre classi in cui è diviso il Sacro Collegio, insieme con il cardinal vicario e con il camerlengo, decidessero se procedere all'elezione appena raccolti la metà più uno dei porporati, e in tal caso continuare senza interruzione le votazioni; dal terzo scrutinio sarebbe stata sufficiente la metà più uno dei suffragi.
Nonostante gli sforzi, il governo dello Stato della Chiesa restava arretrato, pesante e in mano di poche persone, se non sempre interessate, per lo più fortemente chiuse ai segni dei tempi e lontane dalle vedute aperte del Consalvi. Il pontificato gregoriano va rivalutato largamente sul piano propriamente religioso, spirituale, non su quello temporale, in cui, pur con qualche sfumatura e senza l'acre polemica di un tempo, resta valido il giudizio negativo della storiografia tradizionale. Si potrà discutere se le critiche siano sempre fondate, sino a che punto il malcontento fosse artificiosamente montato, se i difetti fossero del sistema o nel sistema: resta però indiscussa l'avversione al governo pontificio, diffusa in tutte le classi sociali. Le testimonianze del tempo sono fin troppo numerose, e provengono da parti opposte, i liberali e gli ecclesiastici più fedeli, come G.M. Mastai Ferretti, cardinale e arcivescovo di Imola. Si pensi ai sonetti romaneschi di G.G. Belli, che colgono obiettivamente lo stato d'animo del popolo e sono "un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma, […] abbandonata senza miglioramento"; alla corrispondenza confidenziale tra i cardinali F. De Angelis e L. Amat, duramente critica sul governo delle Romagne; alle dure osservazioni del Mastai nel 1845 (Pensieri relativi all'amministrazione pubblica dello Stato pontificio); alla sofferta sintesi di Giovanni Corboli Bussi, ormai vicino alla fine. Senza dire di Pellegrino Rossi, del ministro dei Paesi Bassi a Roma, A. de Liedekerke, dello stesso Metternich.
Le critiche vertevano sostanzialmente su alcuni punti. Tutti concordavano sulla disastrosa situazione finanziaria. A. Tosti, tesoriere generale (praticamente ministro delle Finanze) dal 1834 fin verso il 1846, non si era mostrato all'altezza, aveva mantenuto un rigido e negativo protezionismo, con forti dazi, e aveva assistito inerte all'aumento delle spese (dovute anche alla presenza delle truppe austriache e francesi, alla creazione di speciali corpi militari come quello dei bersaglieri, analoghi a una gendarmeria, alla formazione di una truppa di linea regolare, al crescente numero di funzionari, specie a livello tecnico, come periti, geometri, ingegneri), finendo col lasciare un deficit insostenibile. Al disavanzo del bilancio statale, che aveva raggiunto 850.000 scudi annui, per un totale complessivo di circa 40 milioni di scudi, si faceva fronte con prestiti contratti all'interno ma anche all'estero, specie con i Rothschild, e con l'aumento di imposte, fra le quali quella immancabile sul macinato. I rimedi erano peggiori del male, perché finivano per aumentare i prezzi dei beni di consumo, abbassare i salari, rendere più rari i capitali e più difficili gli investimenti. Erano colpiti e dissanguati da un lato la piccola borghesia (commercianti e fittavoli), dall'altro, in misura più grave, contadini, braccianti, artigiani. Aumentavano così, inevitabilmente, il contrabbando, che finiva per essere tollerato e quasi protetto, e la delinquenza. Tutto questo non era compensato dallo sviluppo di un certo numero di banche (pubbliche, come la Banca romana, nata nel 1834, o private, come le Casse di risparmio di Bologna, Forlì e altre città, le banche Torlonia e altre, gestite da stranieri e frequentate soprattutto da turisti). La vita economica e finanziaria dello Stato pontificio restava inferiore a quella degli altri Stati, anche italiani, almeno al Nord. Quasi nessuno ha confrontato per quegli anni su un piano scientifico il sistema toscano del libero scambio e quello romano, retto da un severo e dannoso protezionismo, sebbene quella differenza colpisse i turisti appena passavano dal Granducato allo Stato della Chiesa. Nessuno ha mai osato attaccare il Tosti se non con i sarcasmi e frizzi frequenti nella corrispondenza del Mastai. Mancava poi nello Stato una vera industrializzazione, e lo stesso artigianato restava piuttosto primitivo. Si esportavano tessuti, legname, canapa, riso, seta grezza, ma i manufatti, veicoli e oggetti che esigevano impianti recenti erano quasi totalmente importati, tanto che si è parlato di un'economia di tipo coloniale, che esporta materie prime e importa i prodotti da queste ricavati. La popolazione, ormai sui 3 milioni, consisteva per un terzo di agricoltori, ora mezzadri (Lazio), ora affittuari (Umbria e Romagne), ora braccianti. Soprattutto questi ultimi, costretti a spostarsi secondo le stagioni, erano per lo più poveri, coperti di debiti, maltrattati, con vitto scadente e case, se le avevano, fredde e mal tenute. Il gruppo dei domestici, artigiani e commercianti si avvicinava anch'esso al milione. V'era poi un buon gruppo di proprietari e un discreto numero di ecclesiastici (circa 50.000, data la speciale natura dello Stato); faceva parte a sé l'alta borghesia (il "generone"), composta di grandi amministratori, appaltatori, industriali, mentre la nobiltà - con qualche eccezione - non brillava per rigore morale, iniziative, cultura, fedeltà al Papato. La stessa attiva beneficenza svolta dagli istituti religiosi e dallo Stato aveva aumentato il pauperismo, piaga di tanti paesi, ma a Roma fonte di molti problemi, critiche, accuse e repliche. L'ordine pubblico era assicurato da una polizia non aliena dalla violenza e, nelle regioni calde come le Romagne, da "centurioni" sostituiti poi dai "volontari". L'idea di questa milizia, parallela a quella regolare, partita dal Bernetti fin dal 1828, sotto Leone XII, venne realizzata solo nel 1832 dallo stesso segretario di Stato, che la mantenne con ostinazione nonostante tutte le critiche. Bernetti pensava che questa truppa non costava quasi nulla al Tesoro, ma probabilmente era anche convinto di poter per questa via combattere più efficacemente carbonari e liberali. In realtà la milizia era composta di elementi troppo facili all'esaltazione e, armata com'era, anche se in un secondo momento dotata di uniforme e parzialmente retribuita, era portata ai soprusi e alla violenza. Per questo era malvista dagli Austriaci, ma anche dalle autorità locali e persino da moderati come Mastai, che se ne lamentava spesso con l'amico card. C. Falconieri, ricordando "i pettegolezzi e le impertinenze dei cosiddetti papalini", le accuse a lui rivolte di liberalismo, il fanatismo dei "papalini così detti fanatici fino alla follia, che bramerebbero vedere impiccate quindici persone ogni ora del giorno". "Centurioni" e "volontari", mai apparsi nel Lazio e vivi essenzialmente in Romagna, scomparvero poi da sé più o meno dopo la caduta del Bernetti. Nel sistema giudiziario si avvertiva la lentezza della procedura, l'accavallarsi delle giurisdizioni, solo parzialmente abolito dai regolamenti degli anni Trenta, la non rara arbitrarietà delle sentenze e delle pene. Problema fondamentale rimaneva il carattere rigidamente ecclesiastico (non necessariamente sacerdotale) della amministrazione: ai laici erano accessibili solo uffici inferiori in poste, dogane, registri, tribunali di prima istanza. Anche nel mondo culturale romano si avvertiva una forte chiusura e un declino rispetto alla vivacità del Settecento: l'Accademia Lancisiana (medica) era morta da tempo, languiva ormai l'Accademia dei Lincei, l'interesse si era spostato dai problemi civili e sociali a quelli eruditi, archeologici. Belli stesso nel 1828 punse sarcasticamente l'erudizione lontana dalla vita dell'Accademia Tiberina e si sentì rinato trovando a Milano ben altro clima, ben altra vivacità e ricchezza intellettuale. È vero che proprio G. XVI mostrò un vivo interesse per l'archeologia (nel 1838, 1839 e 1844 furono aperti i musei Gregoriano etrusco, Gregoriano egizio, Gregoriano profano). Non mancavano scavi e scoperte nelle catacombe. G.B. De Rossi, avviato per la sua strada dal maestro, il gesuita G. Marchi, faceva i primi passi e non mancavano pubblicazioni scientifiche dalla specola del Collegio romano. Ma il clima generale restava chiuso e un po' soffocante.
Il disagio sostanziale investiva vari aspetti. Nel campo politico si avvertivano la mancanza di libertà di stampa, una cultura asfittica e una pastorale repressiva (che nel 1834 provocò il sonetto del Belli Lo scummunicato), discriminazioni confessionali e privilegi ecclesiastici, oltre al disagio sociale già descritto. Il papa si era mostrato contrario all'introduzione delle ferrovie, senza intuirne la futura necessità, e ai congressi degli scienziati: voleva mantenere il suo Stato isolato e in tal modo difeso, con una politica non troppo distante da quella di Ferdinando II di Napoli. G. XVI non parlava alcuna lingua straniera, non aveva mai incontrato uomini politici che non fossero ambasciatori, pei quali non ebbe mai molta stima, non comprendeva molto la politica e, chiuso in una teologia priva di dimensioni storiche, non coglieva il nucleo positivo delle aspirazioni delle classi liberali, schierandosi per la difesa dell'ordine stabilito, e vedeva con orrore le società segrete, delle quali incaricò J. Crétineau-Joly di scrivere la vera storia e i misfatti.
Eppure seppe prendere anche decisioni coraggiose. Un po' dovunque, dal Belgio all'Irlanda alla Polonia alla penisola iberica, si affrontavano le due concezioni politiche, assolutista e liberale. Il 5 ag. 1831 G. XVI intervenne coll'enciclica Sollicitudo Ecclesiarum: in caso di cambiamento di governo, i pontefici romani per risolvere le questioni religiose (nomina dei vescovi e altro) sarebbero entrati in rapporto con i governi esistenti di fatto. L'enciclica precisò che agendo in tal modo la Santa Sede non intendeva confermare i nuovi venuti nel potere, riconoscerne le dignità e conferire a essi nuovi diritti. Li si ammetteva de facto, non de iure.
Come scrive J. Leflon, senza ammettere in tesi la loro legittimità, se ne accettava la realtà come ipotesi. Secondo alcuni storici la politica di G. XVI si sarebbe ispirata largamente a questo principio, che gli avrebbe permesso di disapprovare le rivoluzioni e di accettarne i risultati, adattandosi alle diverse circostanze dei vari Stati. Si potrebbe dire che, come pochi anni dopo Pio IX, G. XVI con la mente guardasse alla tesi, mentre col cuore accettava, sia pure malvolentieri e in mancanza di altre possibilità, l'ipotesi. Tollerava effettivamente, suo malgrado, l'adattamento alle circostanze, cercando di limitarlo nella misura del possibile.
L'ideale restava la cristianità, con una Chiesa riconosciuta, rispettata come maestra e guida, con gli Stati pronti ad aiutarla. In realtà la soluzione della Sollicitudo non bastava a risolvere i problemi. Non si trattava solo di distinguere fra questione di diritto e di fatto, ma fra regimi nettamente ostili alla Chiesa e sovrani a essa favorevoli. Si capisce così come la Santa Sede teoricamente non scegliesse se re legittimo del Portogallo era Maria da Gloria o don Miguel, ma nel 1834 accogliesse con solennità a Roma l'esule don Miguel, difensore ostinato di una causa persa ma che, in ogni caso, rispettava i diritti della Chiesa. E se in Prussia il papa difese a oltranza la legislazione canonica sui matrimoni, in Ungheria accettò una situazione di estremo compromesso. Soprattutto si comprende come Roma invitasse cautamente gli Stati latinoamericani a chiedere il riconoscimento da parte della Santa Sede, passando dalla situazione de facto a quella di diritto. L'efficacia della Sollicitudo va dunque ridimensionata, perché essa non poteva sciogliere i problemi europei. Tuttavia contribuì a giudizi più prudenti sui sovrani saliti al potere in seguito a una rivoluzione la quale, checché fosse all'inizio, finiva spesso per essere legittimata dal tempo e dalle circostanze. Aiutò così a distinguere sempre più nettamente il Vaticano dal legittimismo caro anche a cardinali come L. Lambruschini, incapace di riconoscere Luigi Filippo come re legittimo, e R. Fornari, che nel 1843 deplorava "l'abbandono del sacro e inviolabile principio della legittimità, [che] implica inevitabilmente la perdita della religione, della morale, della legge, dunque dell'intera società, e il trionfo dell'anarchia". Soprattutto il documento del 5 ag. 1831, superando le contingenze particolari che lo avevano provocato, indicava chiaramente la decisione vaticana di allinearsi definitivamente alla nuova situazione latinoamericana, chiudendo un passato ormai superato.
Nel suo pontificato, G. XVI fu successivamente aiutato da due segretari di Stato, Bernetti e Lambruschini. Il primo, in carica dal 1831 al 1836, era un conservatore ostile ai governi liberali, in Portogallo come in Spagna, poco sensibile ai problemi strettamente religiosi (solo nel 1839 fu ordinato sacerdote), fautore dei "volontari" e dei "centurioni", fiducioso nell'efficacia dell'occupazione austriaca. Rimase sempre più isolato, malvisto sia dai consalviani sia dagli ultraconservatori, non sempre del tutto d'accordo con il suo sovrano, che finì per cedere ai suoi avversari, dentro e fuori la Curia, accettandone le dimissioni. Lambruschini, ligure, barnabita, era stato arcivescovo di Genova dal 1819, poi, pur restando teoricamente a capo della diocesi per vari anni, dal 1827 al 1831 fu nunzio a Parigi, da dove venne richiamato per chiari segni di freddezza e diffidenza verso il nuovo re Luigi Filippo. Legittimista, conservatore più del Bernetti, chiuso all'evoluzione delle idee e alla mentalità moderna, si mostrò più sensibile ai problemi religiosi e pastorali. Si dice che, intransigente in teoria, in pratica si adattasse alle circostanze. Non mancarono altri consiglieri autorevoli, più aperti, come mons. F. Capaccini, romano, a lungo sostituto della Segreteria di Stato e segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, con incarichi diplomatici nei Paesi Bassi, in Belgio, a Lisbona, a Vienna e a Colonia. Non sembra però che fra Lambruschini e Capaccini regnasse un buon accordo e il primo fu probabilmente uno dei responsabili dell'immobilismo che si andò accentuando in vari campi dopo il 1836.
Uno dei momenti più drammatici del pontificato di G. XVI, con conseguenze durevoli, fu lo scontro con F.-R. de Lamennais e i suoi due amici, J.-B.-H. Lacordaire e Ch. Montalembert. La questione è stata oggetto di ampi studi (da P. Dudon, caratterizzato dallo stile fortemente polemico degli anni del primo Novecento, a C. Maréchal, J.R. Derré, L. Le Guillou, A. Simon, L. Ahrens, A. Gambaro, G. Verucci e altri), e qui può essere considerata solo nell'essenziale, fermandosi sulle cause ed effetti degli interventi del papa e non sulla dottrina di Lamennais.
A Roma erano contrari al Lamennais il Lambruschini, G. Ventura, il padre J. de Rozaven, stretto consigliere del generale dei gesuiti J.F. Roothaan, il card. L.F.A. de Rohan. Lamennais e i suoi amici presentarono alla Curia una lunga relazione con le loro tesi. Il Pacca, decano del Sacro Collegio, li invitò a tornare in Francia, in attesa d'una risposta che poteva tardare a lungo. I tre chiesero almeno un'udienza col papa, che avvenne a metà marzo, alla presenza del Rohan, arcivescovo di Besançon e notoriamente ostile a L'Avenir, e che si ridusse di fatto a uno scambio di complimenti e a un eloquente silenzio sui problemi di fondo. Roma chiese intanto il parere di alcuni vescovi francesi. Le loro risposte - specialmente la cosiddetta "censura di Tolosa", redatta da P.-T.-D. d'Astros, con un lungo elenco di proposizioni lamennesiane considerate erronee - furono accuratamente esaminate a Roma, dove si fu unanimi nel ritenere necessaria una risposta all'insistente interlocutore. I consultori romani, fra cui il conventuale A.F. Orioli, il de Rozaven, mons. L. Frezza, segretario degli Affari straordinari, in sostanza bene informati, criticarono soprattutto la posizione de L'Avenir sulle libertà moderne e il favore con cui vedeva la separazione fra Chiesa e Stato.
L'enciclica, preparata a lungo verso il mese di luglio, rivista da parecchi, fra i quali mons. P. Polidori, poi cardinale, e accuratamente studiata dal papa, fu datata 15 ag. 1832 ed è celebre attraverso le prime due parole, Mirari vos. Essa venne inviata direttamente ai tre interessati, insieme con una lettera di spiegazioni del card. Pacca, che li informò che per riguardo alle persone l'enciclica ometteva nomi e titoli, ma aggiunse che il papa condannava le dottrine de L'Avenir sulla libertà civile e politica, di culto e di stampa e la fondazione dell'"Agence". Il documento pontificio e la lettera del Pacca raggiunsero i tre, ormai partiti da Roma, a Monaco, proprio alla fine di un solenne ricevimento in loro onore.
È nota la dura condanna dell'enciclica contro la libertà di coscienza, considerata pura conseguenza dell'indifferentismo. Essa riprovò insieme la libertà illimitata di stampa, la separazione fra Chiesa e Stato, gli attentati al matrimonio e al celibato ecclesiastico e le associazioni interconfessionali, sottolineando la fedeltà dovuta ai principî. Il suo spirito generale appare chiaro da un passo: "Dato che, per usare le parole del Tridentino, sappiamo che la Chiesa è stata ammaestrata da Gesù Cristo e dai suoi apostoli, e che lo Spirito Santo le suggerisce di giorno in giorno ogni verità, è del tutto assurdo e sommamente ingiurioso nei suoi confronti suggerire una sua restaurazione ed una sua rigenerazione, come se fosse necessaria per provvedere alla sua incolumità e al suo sviluppo, come se si potesse ritenere che essa fosse soggetta a crisi, periodi di oscuramento ed altri pericoli del genere; con questi sforzi, […] i riformatori tendono a far sì che un'istituzione divina come la Chiesa, divenga umana […]. Si ricordino quanti meditano questi piani, che, secondo le testimonianze di S. Leone, al solo Romano Pontefice è affidata la dispensa dalle leggi, e che soltanto a lui, non a un uomo privato, spetta prendere decisioni sull'esecuzione delle norme tradizionali". Se l'enciclica del 1832 era largamente pervasa dalla visione pessimistica tipica dei documenti pontifici del primo Ottocento, qui appariva più chiara la mentalità della Restaurazione, pregna almeno apparentemente di un'orgogliosa sicurezza, certa dell'immutabilità di un'istituzione che non conosce crisi e non ha bisogno di riforme e rinnovamenti, che deve dipendere in tutto dalla gerarchia e riconosce nel laicato solo il dovere dell'ubbidienza e dell'attesa. L'autore del Trionfo della Santa Sede si riflette largamente nella Mirari vos. Poche settimane dopo l'enciclica, nei pressi di Padova Rosmini iniziava la stesura delle Cinque piaghe, rivendicando un diverso ruolo del laicato, giustificando in esso un certo spirito di critica e di iniziativa e, con una forte sensibilità storica, denunziando i mali della Chiesa del tempo. Un anno dopo, il 9 sett. 1833, appariva il primo dei Tracts for the time, lanciato da J.H. Newman in vista di un risveglio della Chiesa anglicana in Gran Bretagna. Rosmini e Newman con equilibrio, senso storico, profondo amore alla Chiesa; Lamennais, intemperante ed emotivo; G. XVI, conservatore e chiuso alle istanze del momento: tre linee diverse nella Chiesa di quegli anni. Se, a distanza di oltre un secolo, storici e teologi distinguono nell'enciclica del 1832 i limiti esatti della condanna dottrinale, più ristretti di quanto appaia a prima vista, e tali da lasciare una certa possibilità di manovra, almeno sul piano della distinzione fra tesi e ipotesi, allora essa apparve inevitabilmente esprimere una chiara preferenza di G. XVI per i governi assoluti, un distacco dalle aspirazioni di larghe cerchie della borghesia intellettuale e il rifiuto della linea cattolico-liberale (difesa della libertà della Chiesa in nome della libertà generale, rinunzia all'appoggio economico statale). In un primo momento (10 sett. 1832) Lamennais si sottomise, pur con qualche riserva, e l'11 dic. ribadì la sua completa sottomissione. Mentre soprattutto l'arcivescovo di Tolosa d'Astros continuava le sue manovre antilamennesiane, G. XVI da una parte l'8 maggio 1833 invitava il presule tolosano alla calma, dall'altra il 28 dicembre dello stesso anno si rallegrava con Lamennais per la sua piena sottomissione. Ma l'evoluzione del bretone continuava, e nel 1834 si manifestò con le Paroles d'un croyant, in cui con tono profetico auspicava una rivoluzione popolare che instaurasse una società del tutto nuova, un Regno di Cristo sostanzialmente terrestre. Ben informato dalla nunziatura di Parigi, pressato da Vienna, stimolato dal Lambruschini, G. XVI intervenne nuovamente; la Singulari nos (25 giugno 1834) condannò la ribellione ai principî, la negazione di ogni potere civile, l'indifferentismo, la libertà assoluta di coscienza. Lamennais si separava ormai nettamente dalla Chiesa. Nel 1836 uscirono Les affaires de Rome, ricostruzione letterariamente pregevole anche se storicamente unilaterale e incompleta dello scontro del 1832-33. Roma intervenne solo con la condanna all'Indice (1837).
Mentre si avviava alla conclusione il caso Lamennais, diveniva sempre più drammatico quello polacco. La rivoluzione contro il dominio russo, conseguenza lontana della rivoluzione del luglio-agosto 1830 a Parigi e a Bruxelles, scoppiò nel novembre dello stesso anno e durò sino al novembre 1831, quando fu piegata. Appena eletto il papa era stato quasi assalito dal rappresentante russo a Roma, P.G. Gagarin, perché intervenisse sul clero polacco. Sentito Bernetti, il 19 febbraio G. XVI inviò il breve Impensa caritas a due vescovi polacchi (P. Burzyński di Sandomir e V. Siedlecki di Belz, greco-unito), raccomandando loro di non evadere dalla missione spirituale e religiosa. Il documento fu subito spedito dal Gagarin, ma ne resta solo la copia in Vaticano; non è certo che il governo russo lo abbia trasmesso. Spinto ancora una volta dalla Russia ma anche dall'Austria, il 9 giugno 1832 G. XVI firmò un nuovo breve, Superiori anno, ribadendo l'illegittimità della rivoluzione nei confronti di quello che chiamò "Fortissimus imperator vester": "Obedientiam, quam praestare homines tenentur a Deo constitutis potestatibus, absolutum praeceptum esse, cui nemo, praeterquam si forte contingat aliquid imperari, quod Dei et Ecclesiae legibus adversetur, contraire potest". G. XVI era mosso dalle sue convinzioni personali, contrarie alle rivoluzioni, dall'atmosfera regnante in Curia, dalla speranza di evitare il peggio alla Polonia e di salvare il salvabile per gli interessi religiosi; tuttavia un mese dopo inviò allo zar una lunga denunzia dei soprusi commessi in Polonia contro il cattolicesimo. Nicola I seppellì nel silenzio il documento, rimasto ignoto al pubblico, e la Chiesa seguitò a soffrire in Polonia e in Lituania una severa repressione da parte russa.
Dopo aver protestato in concistoro nel novembre 1839, G. XVI si decise a un gesto piuttosto forte, l'allocuzione concistoriale Haerentem diu animo (22 luglio 1842). Vi si parlava dell'"avita fraus" del governo di San Pietroburgo, degli sforzi continuati per decenni a difesa dei cattolici polacchi, del silenzio russo che finiva per far credere a un abbandono dei Polacchi al loro destino. Più chiaro ancora era il libro bianco annesso all'allocuzione, preparato dal Lambruschini con l'aiuto dei monsignori G. Corboli Bussi e G. Brunelli, con novanta testi che mostravano obiettivamente i soprusi compiuti dalla Russia: confisca dei beni, soppressione dei monasteri, nomine arbitrarie degli ordinari locali, arresti di vescovi, appoggio ai prelati passati alla Chiesa ortodossa, sevizie contro i preti fedeli, alcuni martiri, passaggio alla religione ortodossa di migliaia di fedeli greco-ruteni. Il discorso del papa e il libro bianco, passati sotto silenzio in Russia, fecero una grande impressione in Occidente, dove Montalembert sottolineò il silenzio generale dell'Europa, succube dell'influsso moscovita, e il coraggio del vicario di Cristo. Negli anni seguenti altre lettere furono scambiate tra i due capi tramite M.-E.-J. Beauharnais duca di Leuchtenberg, genero dello zar, in visita a Roma. Il tono dei due corrispondenti fu più schietto e talora vivace e un po' amaro. Il papa dichiarò il suo dolore nel vedere continuamente deluse le speranze nutrite e le assicurazioni ricevute, lamentando che lo zar non fosse ben informato. Nicola I si mostrò offeso per le pretese di G. XVI di essere più informato di lui, sovrano di Russia, attribuì le informazioni giunte a Roma o a corrispondenti clandestini, che egli come sovrano doveva respingere, o alla turba di polacchi vaganti per l'Europa senza patria, si dichiarò luogotenente del papa per gli affari del culto romano nei paesi che Dio gli aveva affidato. Il papa replicò ricordando la limitata libertà nell'insegnamento e nella amministrazione dei sacramenti e senza mezzi termini nel 1843 parlò di "quei prelati di rito ruteno unito" che "hanno apostatato essi stessi dalla cattolica Chiesa, ma si sono anzi indegnamente adoperati per seco trascinare il gregge ruteno delle rispettive province, e parte ancora del latino". Nelle note scambiate in quegli anni il punto di vista della Santa Sede rimase costante. Si chiedeva la scarcerazione dei ruteni imprigionati, libertà di corrispondenza con Roma per le questioni religiose, libertà nell'amministrazione dei sacramenti, compreso il matrimonio, restituzione dei beni confiscati, reciprocità nelle rappresentanze diplomatiche (istituzione di un rappresentante romano in Russia).
Nel 1845 Nicola I, via Milano-Genova, accompagnò a Palermo la moglie seriamente malata. Al ritorno, via Napoli, lo zar "in trasparente incognito" sostò a metà dicembre a Roma per pochi giorni, a palazzo Giustiniani, sede allora del rappresentante russo a Roma. Fu ricevuto due volte dal papa, alla presenza del card. C. Acton e del ministro russo A. Butenev. Nei colloqui, cordiali e dignitosi, il papa ricordò esplicitamente le leggi russe lesive della libertà religiosa e lasciò al sovrano un lungo rapporto in proposito (forte controllo sul governo dei vescovi, soppressione di molti conventi, severo esame sulla corrispondenza dei fedeli e del clero con la Santa Sede, divieto di battezzare i bimbi nati da matrimoni misti). L'imperatore nella seconda e ultima udienza lasciò al papa una risposta scritta molto generica, in cui prometteva che avrebbe fatto il possibile. Dalle due parti non si era fatto alcun cenno al caso dei ruteni della Lituania passati alla Chiesa ortodossa; San Pietroburgo considerava la questione risolta in modo definitivo mentre la Santa Sede forse si rendeva conto che era inutile insistere e non voleva in ogni caso fermarsi su casi particolari, sia pur gravi. L'incontro comunque - l'unico nella storia fra un papa e uno zar - se in Vaticano come a San Pietroburgo non illuse nessuno, servì almeno a preparare le basi per trattative su un concordato, che cominciarono in modo generico proprio negli ultimi mesi di G. XVI e nelle quali avrebbe avuto una parte decisiva il giovane e intelligente Corboli Bussi. Il concordato, firmato nel 1847, non migliorò molto la situazione dei cattolici in Russia. Dopo il passaggio alla Chiesa russa dei ruteni lituani del 1839 ci sarebbe stato quello dei ruteni di Chełm nel 1875.
Mentre in Russia, nonostante tutti i passi e le proteste di G. XVI, restava incerta e soggetta a pesanti controlli, la Chiesa affrontò in Prussia una battaglia diversa, finita con un sostanziale successo. Federico Guglielmo III, nella speranza di fare del luteranesimo il gruppo più forte dello Stato, prevalentemente cattolico in Renania, Slesia, Posnania e in maggioranza luterano in Pomerania, Brandeburgo, Hannover e Prussia orientale, tentava di facilitare al massimo i matrimoni misti e l'educazione luterana della prole nata da essi.
La questione covava da anni. Dal 1803 il re aveva stabilito che i figli nati da matrimoni misti seguissero in ogni caso la religione del padre; nel 1825 la legge era stata imposta anche ai paesi renani. Essa era nociva per i cattolici, tanto più che mentre raramente essi erano inviati come ufficiali o funzionari nelle zone protestanti, in quelle cattoliche arrivavano protestanti in gran numero. In Slesia e in Posnania i cattolici si erano sottomessi senza difficoltà, e i matrimoni misti erano ormai celebrati abitualmente davanti al parroco competente senza le cautele previste dalla legge cattolica. Nella Renania la situazione era diversa, e la vertenza era continuata sotto Pio VIII. Le forti insistenze prussiane e l'esposizione della situazione in lettere collettive di quattro vescovi della Renania e Vestfalia (Colonia, Treviri, Münster, Paderborn) avevano portato a lunghe discussioni sostenute essenzialmente dal Cappellari, ancora cardinale e sempre incline all'intransigenza, a differenza dell'Albani, segretario di Stato di Pio VIII. Il Bunsen, per lunghi anni rappresentante prussiano a Roma (dopo B.G. Niebuhr), decisamente fautore degli interessi protestanti, notevole studioso dell'antichità romana ma forse discutibile come diplomatico, richiedeva la rinunzia alla promessa dell'educazione cattolica dei figli, mentre Cappellari faceva leva sulla malferma salute di Pio VIII e sulla necessità di evitare al papa nuovi dolori; il Bunsen per il momento si arrese. In un breve del 25 marzo 1830 Pio VIII autorizzò, nel caso di matrimoni misti celebrati senza la promessa di educare i figli nella religione cattolica, la presenza del parroco cattolico, che riceveva il consenso degli sposi senza impartire la consueta benedizione. Tecnicamente, si parlava di assistenza passiva. Al breve erano seguite istruzioni ai quattro vescovi sopra citati, giunte loro con molto ritardo da parte del governo, cui per primo erano state comunicate. Roma non era disposta a ulteriori concessioni e il Bunsen faceva sperare una maggior moderazione della Prussia. In realtà, subito dopo l'avvento di G. XVI, si ebbero chiari indizi di un irrigidimento prussiano e della pretesa di nuove concessioni, una revisione del breve di Pio VIII e nuove istruzioni ai vescovi. Gli sposi infatti, pur sapendo che la semplice assistenza passiva del parroco era sufficiente per la validità del loro matrimonio, tenevano molto alla benedizione nuziale del sacerdote, senza la quale v'era l'impressione che la Chiesa cattolica non l'approvasse. Il papa, aiutato da valenti canonisti come i due fratelli C. e S. Vizzardelli (il primo più tardi cardinale) procedette per la strada che aveva già indicato da cardinale: respinse le proposte berlinesi del 1831 per ulteriori concessioni, e nel breve del maggio 1832 ai vescovi bavaresi ribadì la linea già seguita. Intanto le relazioni fra Berlino e Roma peggioravano, anche per la lunga resistenza vaticana alla nomina del canonico di Breslavia, L. Sedlnitzki (che poi rinunziò alla sede e lasciò la Chiesa), a vescovo della città. Il nunzio P. Ostini, da Vienna, informava chiaramente la Santa Sede e un cosiddetto "libro rosso", largamente diffuso in Germania, mostrava esattamente le manovre anticattoliche del governo.
Nel giugno 1834 il governo prussiano, con l'appoggio dell'arcivescovo di Colonia F.A. von Spiegel e con la presenza a Berlino del Bunsen, appositamente chiamato, aveva raggiunto un accordo clandestino coi vescovi di Renania e Vestfalia. Il breve di Pio VIII sarebbe stato comunicato ai parroci insieme con una pastorale, che ne minimizzava la portata. Una promessa generica del coniuge cattolico sull'educazione dei figli ("vigilare sull'ortodossia della loro fede e sull'adempimento del loro dovere") bastava a che fosse concessa la benedizione nuziale. L'assistenza passiva si trasformava effettivamente in presenza attiva. Roma venne presto a conoscenza dell'accordo e meditò a lungo la risposta, anche per non creare difficoltà alla nomina di C.M. von Droste zu Vischering all'arcivescovato di Colonia, dove era morto lo Spiegel. Interrogato dal Lambruschini, il Bunsen negò impudentemente ogni cosa: poco dopo in Vaticano giunse la ritrattazione alla convenzione del 1834, redatta dal vescovo di Treviri, J. von Hommer, in punto di morte (fine 1836). La Santa Sede non precipitò le cose e, forse per la malattia del papa e del segretario di Stato Lambruschini, nonostante maldestre note del Bunsen aspettò ancora, limitandosi a comunicare al sovrano di Prussia la notizia. Sopraggiunse la forte denunzia della convenzione di Berlino da parte del nuovo arcivescovo di Colonia, Droste zu Vischering, che prima, essendo per circa un decennio ausiliare di suo fratello, vescovo di Münster, era apparso remissivo e alieno da conflitti clamorosi. L'arcivescovo, arrivato in sede all'inizio del 1836, al governo che lo interpellava dichiarò subito la sua fedeltà al breve di Pio VIII e, nonostante uno scambio di note minacciose con Berlino, rimase al suo posto facendo sapere ai fedeli che lo si voleva cacciare dalla sua sede, ciò che avvenne per ordine di Federico Guglielmo III alla fine di novembre 1837: il prelato venne arrestato e condotto alla fortezza di Minden, nella Vestfalia settentrionale. G. XVI reagì immediatamente: il 10 dicembre, con un'allocuzione, accuratamente preparata, denunziò la violazione della libertà e della dignità episcopale e i soprusi contro il governo della Chiesa. Egli ruppe ogni indugio e attaccò un forte Stato assoluto dando grande pubblicità al gesto. L'impressione sull'opinione pubblica fu assai forte e rafforzò la coscienza cattolica e la convinzione della sua indipendenza di fronte allo Stato. Aggravò la questione la condanna dell'arcivescovo di Posen, M. von Dunin, incarcerato per dieci mesi nella fortezza di Kolberg, non lontano da Danzica, ed elogiato dal papa nell'allocuzione dell'8 luglio 1839. I "fatti di Colonia" da allora furono un punto fermo nella storia della Chiesa tedesca; solo con la morte di Federico Guglielmo III e l'avvento di Federico Guglielmo IV (1840) si arrivò alla conclusione: Droste zu Vischering fu invitato a ritirarsi mantenendo il titolo, e al suo posto subentrò come coadiutore con diritto di successione mons. J. Geissel, di Spira.
I fatti di Colonia ebbero una conseguenza inattesa in altri paesi. I vescovi ungheresi, in un paese dove i cattolici vivevano fianco a fianco con gli acattolici, si erano abituati da tempo a una certa elasticità nelle questioni matrimoniali, derogando dalle leggi canoniche e supponendo il consenso implicito di Roma. Dopo le lotte in Prussia sorsero dei dubbi e l'episcopato locale chiese chiarimenti.
Il 4 apr. 1841 una seduta della congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, alla presenza del papa, discusse la situazione dell'Ungheria e Transilvania. Ci si rifece alla solenne dichiarazione con cui Benedetto XIV il 4 nov. 1741 aveva dichiarato validi i matrimoni contratti in Olanda fra due eretici o fra un eretico e un cattolico, data la mancata pubblicazione in quel paese del decreto tridentino noto con la parola iniziale, Tametsi. Il papa era contrario ad applicare all'Ungheria la benedettina, ma si fece presente il progetto di legge della Dieta ungherese, che avrebbe imposto la celebrazione del matrimonio davanti al parroco acattolico e l'educazione di tutta la prole nella religione paterna. Si finì così, pur con le consuete cautele della diplomazia pontificia, per riconoscere validi i matrimoni celebrati davanti a un ministro acattolico, senza dispense e senza cauzioni per l'educazione cattolica della futura prole: "mixta matrimonia ea ratione […] inita, […] prudenter dissimulanda, et quantumvis illicita, pro validis habenda". Nella discussione si riconobbe l'opportunità di evitare in tal modo discussioni e rimorsi di coscienza, quando il contraente cattolico doveva contro la sua coscienza presentarsi davanti a un ministro acattolico. Si volle però evitare un "atto solenne e direttamente pontificio", limitandosi a un'istruzione del Lambruschini, che restava di fatto il semplice portavoce del papa e l'esecutore della sua volontà. L'istruzione, promulgata il 30 apr. 1841 ed edita fra gli atti del papa, resta uno degli atti più inattesi e insoliti di G. XVI; si direbbe che la Santa Sede, vittoriosa in Prussia, in Ungheria tollerasse la situazione di fatto. In sostanza fu estesa al paese la benedettina del 1741, anche se in teoria ci si limitò a un'istruzione del segretario di Stato e a un invito alla tolleranza e alla prudente dissimulazione, accompagnato tuttavia da una lettera del papa dello stesso giorno, identica nella sostanza ma di tono più severo. Forse si potrebbe rievocare la Sollicitudo, con la distinzione fra situazione di diritto e di fatto: ma il documento del 1831 non toccava questioni sacramentali.
Nella penisola iberica, come accennato, s'inasprivano questioni che intrecciavano l'opposizione fra liberali e fautori d'un regime assoluto a discussioni sulla legittimità dei sovrani.
In Svizzera si erano aggravati i contrasti fra i federalisti, difensori delle autonomie dei Cantoni, e i fautori d'uno Stato unitario e centralizzato che rispondeva alle esigenze dei tempi, ma proponeva una Chiesa svizzera largamente indipendente dalla S. Sede e sotto il largo influsso delle autorità civili (articoli di Baden, 1832). Non erano mancate, specie in Cantoni come l'Argovia, misure contro i religiosi. Senza intervenire nelle questioni locali G. XVI difese i diritti della Chiesa e il 17 maggio 1835 e il 1° apr. 1842 condannò recisamente il programma antiromano e la lotta contro i religiosi. Mentre il clima si stava distendendo il ritorno dei gesuiti, chiamati a Lucerna alla fine del 1844, provocò un nuovo irrigidimento dei due fronti. Probabilmente G. XVI si lasciò persuadere troppo facilmente, approvando l'invito fatto ai gesuiti senza rendersi conto delle conseguenze anche cruente che, dopo la sua morte, sarebbero esplose.
Il papa mostrò più volte il suo interesse e la sua simpatia per il Belgio, nato nel 1830, quasi contemporaneamente alla sua elevazione al pontificato. Ottima fu la scelta del giovane E. Sterckx per arcivescovo di Malines, che resse con coraggio ed energia per trentacinque anni lasciando un influsso avvertito a lungo.
Né si può dimenticare l'approvazione, tacita ma chiara, della costituzione belga del 1831 e della linea dei fedeli e del clero di fronte a essa: senza entrare in discussioni accademiche, Roma riconobbe fin dal 1832 che la costituzione era alla fin fine accettabile, tollerando il giuramento di fedeltà a essa. Sin dal 1835 G. XVI decise l'istituzione in Belgio d'una rappresentanza diplomatica, con un pronunzio di valore, T.P. Gizzi. La rappresentanza divenne regolare nunziatura nel 1842 e si rivelò efficace strumento per una maggior unione fra i vescovi e una sincera e discreta collaborazione fra Corona e Chiesa. Nel 1838 la promozione al cardinalato dello Sterckx fu un nuovo segno dell'interesse del papa per il giovane Stato, mentre gli anni seguenti G. XVI intervenne più volte tramite il nunzio, invitando i vescovi a desistere dalla domanda di riconoscimento dell'Università di Lovanio come persona civile, che aveva sollevato le perplessità dei liberali, mentre sostenne invece la nuova facoltà di filosofia eretta dai gesuiti a Namur.
G. XVI non sostenne direttamente i cattolici irlandesi nella lotta per l'indipendenza, ma nel 1844 tramite il Lambruschini fece sapere al Metternich che avrebbe conservato la consueta prudenza davanti alla condotta del clero dell'isola (rifiuto diplomatico ma chiaro di una condanna). Il papa vide con benevolenza il movimento di Oxford, e, influenzato da N. Wiseman, incoraggiò i cattolici tradizionalisti di vecchio stampo a guardare con simpatia le nuove reclute provenienti da Oxford.
In Francia l'anticlericalismo, vivo specie durante la monarchia di luglio, polemiche lezioni universitarie di J. Michelet ed E. Quinet nel 1843 e L'ebreo errante di E. Sue avevano provocato una forte opposizione alla Compagnia di Gesù. F.-P.-G. Guizot inviò a Roma nell'ottobre 1844 Pellegrino Rossi per ottenere dal papa la dispersione della Compagnia in Francia. Per evitare mali maggiori G. XVI cedette parzialmente e ordinò al generale Roothaan di chiudere un certo numero di case. Il generale ubbidì, ma insistette perché i gesuiti fossero lasciati liberi di difendersi. Il papa acconsentì, e la tempesta per il momento si placò.
Nel pensiero cattolico della prima metà dell'Ottocento si fronteggiavano due correnti: il tradizionalismo (che, in reazione al razionalismo del Settecento, negava alla ragione la capacità di provare le fondamentali verità spirituali, immortalità, esistenza di Dio, premesse della fede), e il semirazionalismo (che rivendicava invece alla ragione il compito di spiegare almeno parzialmente i misteri cristiani). La Santa Sede, da G. XVI in poi, seguì una via equilibrata, condannando tutti e due i sistemi, difendendo la ragione ma sottolineandone i limiti. Nel 1840 e nel 1845 L.-E.-M. Bautain, professore a Strasburgo, dovette sottoscrivere alcune tesi contrarie al tradizionalismo. Quella condanna, seguita sotto Pio IX da altri interventi del tutto analoghi, sino al Vaticano I, fu uno dei primi passi importanti nella difesa della ragione tipica della Santa Sede tra Otto e Novecento. Un certo razionalismo appariva invece nelle opere di G. Hermes, professore a Bonn; per influsso kantiano e reazione a una certa scolastica deteriore del Settecento egli ammetteva il dubbio positivo come fondamento di ogni ricerca teologica e considerava la ragione come unico mezzo per giungere alla conoscenza delle verità soprannaturali, che d'altra parte trovavano una conferma non con l'aiuto della grazia, ma per un'esigenza della volontà. Prima e dopo la sua morte G. Hermes aveva avuto largo successo in molti ambienti universitari, specie a Bonn, e persino in alcuni catechismi popolari; era inoltre visto con simpatia dal governo prussiano, nella speranza che la sua concezione potesse avvicinare protestanti e cattolici, ed era difeso dal vescovo di Colonia Spiegel. Ma la polemica contro di lui in Germania era forte da parte del sacerdote A.J. Binterim e dei neoscolastici influenzati dal romanticismo, che rifiutavano una fede frutto di un ragionamento e priva di slancio esistenziale. La pubblicazione postuma della Dogmatik di Hermes affrettò passi dei nunzi di Monaco e Vienna. Il 26 sett. 1835 G. XVI non si limitò a una messa all'Indice, ma con un breve speciale condannò vari punti che riteneva difesi dal teologo di Bonn, colpendo in ogni modo lo spirito dell'hermesianismo, la concezione d'una fede più conclusione di un ragionamento che frutto della grazia. Alla condanna seguirono interventi fin troppo severi del Droste zu Vischering contro i professori di Bonn e tentativi di difesa di Hermes compiuti dai discepoli P.J. Elvenich e J.W.J. Braun in un lungo soggiorno a Roma: il loro tentativo fallì, soprattutto perché negarono che Hermes avesse insegnato gli errori condannati, attirandosi così il rimprovero di ricorrere alla distinzione giansenistica fra questione di diritto e questione di fatto. In una prospettiva storica l'intervento di G. XVI appare positivo, avendo accelerato il declino della dottrina di Hermes, che oggi appare frutto di un illuminismo in ritardo per lo scarso interesse all'elemento soprannaturale, l'accento quanto meno semipelagiano, la noncuranza per la tradizione ecclesiastica e lo sviluppo del dogma nella storia.
Contemporaneamente, si sviluppava in Italia la polemica fra i gesuiti e Rosmini, dovuta a fattori quali l'innegabile chiusura al mondo moderno di membri della Compagnia, primo tra i quali il Roothaan, educato nella Russia di Alessandro I, la loro adesione al probabilismo morale, una maggior fiducia nella natura umana, privata, sì, dopo il peccato originale, dei doni soprannaturali, ma indebolita, non ferita in se stessa. Verso il 1840 si moltiplicarono gli opuscoli molto severi di gesuiti contro Rosmini, fra cui uno anonimo sulla cui paternità già allora si discusse: Alcune affermazioni del signor Antonio Rosmini… con un saggio di riflessioni scritte da Eusebio Cristiano. La polemica si aggravò quando in un articolo su L'Ami de la religion uno stretto collaboratore del Roothaan, il de Rozaven, insinuò come probabile che Rosmini potesse fare la stessa fine di Lamennais. G. XVI aveva più volte manifestato la sua simpatia per Rosmini, approvando nel 1839 l'istituto da lui fondato e prodigandosi in elogi del roveretano nonostante alcune perplessità della Curia; stimava però ugualmente i gesuiti per la loro opera dentro e fuori d'Europa. Questa volta ritenne di dover intervenire, e il 7 marzo impose alle due parti il silenzio. Rosmini e Roothaan dichiararono subito la loro ubbidienza, ma tutti e due speravano in nuovi provvedimenti, ciascuno secondo le loro prospettive. Roothaan in cuor suo sperava di poter riprendere in futuro la lotta (come fece alla morte di G. XVI), Rosmini pensava che il pericolo per la sopravvivenza dell'Istituto fosse grave e si chiedeva se non fosse il caso di qualche passo presso il papa. La questione era sopita, non risolta; la controversia sarebbe ripresa sotto Pio IX e avrebbe raggiunto il suo acme nei primi anni del nuovo papa, con un altro precetto di silenzio.
Fuori d'Europa il pontificato di G. XVI, come hanno dimostrato P. de Leturia e M. Batllori, fu importante per l'America Latina. Con la chiara visione già manifestata come cardinale e prefetto di Propaganda, G. XVI pose fine alle perduranti incertezze e oscillazioni e a un certo persistente legittimismo, ormai anacronistico e dannoso. Il dominio spagnolo in America Latina era finito per sempre; bisognava tener conto che si apriva una nuova epoca storica e riconoscere i nuovi Stati e le loro legittime aspirazioni, pur opponendosi al regalismo creolo, non di rado radicale come il giurisdizionalismo europeo, che si pretendeva erede del patronato spagnolo, visto non come una concessione pontificia ma come un diritto innato della sovranità. Poche settimane dopo la sua elezione G. XVI nominò vescovi residenziali in Messico; lo stesso fece nel 1832 per Cile, Argentina, Perù. Era superata così la lunga incertezza continuata sotto Leone XII e Pio VIII; venne presto il riconoscimento definitivo della Grande Colombia (1835), del Messico (1836), dell'Ecuador (1838), del Cile (1840) e gradualmente vennero stabilite relazioni diplomatiche con vari Stati, mediante due delegati a Rio de Janeiro e Bogotá, accreditati ciascuno presso più governi. Le encicliche legittimiste di Pio VII e Leone XII appartenevano ormai al passato e si apriva la strada ai passi ulteriori del nuovo papa, Pio IX.
L'attività relativa alle missioni dell'antico prefetto di Propaganda, accanto all'appoggio per quelle che si stavano moltiplicando in Asia e in Africa, ebbe particolare rilievo con la condanna della tratta (1839), l'incoraggiamento alla formazione del clero indigeno (1845), l'intervento energico - ma con conseguenze polivalenti - sul patronato portoghese in Estremo Oriente (1838). La solenne lettera del 1839, rievocati precedenti interventi dei pontefici, da Paolo III a Pio VII, ribadiva la condanna della schiavitù ma aggiungeva esplicitamente quella della tratta. Il fenomeno, già in declino e condannato dal congresso di Vienna, continuava ancora e, in proporzioni ridotte, si prolungò anche in seguito; si discute ancora sull'efficacia pratica del documento gregoriano, probabilmente non molto grande. Il 23 nov. 1845 l'istruzione di Propaganda Neminem profecto, accettando la linea scelta dal sinodo di Pondicherry dell'anno precedente, esplicitamente ricordato, insisté sulla formazione del clero indigeno, anche in vista della progressiva nomina di vescovi locali. L'impulso dato su questo punto da G. XVI, che esaminò e approvò personalmente l'istruzione, non venne sempre seguito sotto Pio IX, provocando ritardi superati solo con Leone XIII. Maggior efficacia pratica ebbe la lettera Multa praeclare (24 apr. 1838), studiata a fondo negli ultimi decenni da J. Metzler. Il patronato portoghese sulle missioni dell'Estremo Oriente aveva assicurato per oltre due secoli la protezione e l'aiuto di Lisbona, ma col tempo l'impero coloniale portoghese si era ristretto a semplici teste di ponte sulle coste, come Goa, mentre l'Inghilterra aveva conquistato gran parte dell'India. I Portoghesi pretendevano ancora di esercitare la propria giurisdizione su tutto il territorio indiano, sino a Bombay e Calcutta, cioè sull'India ormai britannica, mentre allo zelo apostolico dei tempi di s. Francesco Saverio e del re Giovanni III era sottentrato lo spirito illuministico simboleggiato da S.J. Pombal. G. XVI non abrogò il patronato ma lo limitò a Goa, dichiarando che nelle altre regioni avrebbero avuto autorità vicari apostolici da lui nominati e soggetti a lui solo. La questione non era però risolta. Nel 1843 G. XVI, nominando arcivescovo di Goa il benedettino J.M. da Silva Torres, nella bolla ufficiale gli aveva concesso i tradizionali diritti del vescovo di Goa sui territori già posseduti dai Portoghesi, mentre in una lettera privata gli aveva imposto di considerare la sua giurisdizione limitata al territorio di Goa e di non immischiarsi nel governo dei vicariati apostolici eretti di recente. Naturalmente il Silva Torres, di fronte a due documenti quasi contraddittori, considerò valida la bolla ufficiale e sostenne quanti si opponevano ai vicari apostolici. Ne seguirono conflitti non solo personali, che nascondevano in realtà la lotta fra Propaganda e Lisbona, fra i succubi del nazionalismo e del giurisdizionalismo portoghese e i difensori di Roma e dell'indipendenza della Chiesa. Se è eccessivo parlare di scisma di Goa, si deve ammettere una forte tensione fra i due campi. G. XVI ammonì più volte inutilmente il vescovo; la questione si trascinava ancora alla sua morte e si risolse solo sotto Pio IX, con reiterati interventi del nuovo papa, rinunzia del Silva Torres, minacce di scomuniche ai suoi fautori e il concordato del 1857, che intendeva teoricamente ristabilire il patronato, anche nelle Indie inglesi: un passo indietro rispetto a Gregorio XVI.
Nei suoi anni i numerosi riconoscimenti ottenuti dal sistema morale alfonsiano, insieme con opere in sua difesa edite prima o dopo (J.-P. Bouvier, Th. Gousset, J.-P. Gury), contribuirono alla sua affermazione e, in definitiva, alla vittoria della pastorale antigiansenistica, antirigorista, moderata. Vista con diffidenza da correnti storiografiche dell'Otto e Novecento, da V. Gioberti a F. Ruffini, essa è oggi largamente rivalutata (da G. Miccoli a G. De Rosa).
Anche se il movimento non va limitato a quegli anni, sono da ricordare almeno una risposta della Penitenzieria del 1831, sollecitata dal vescovo di Besançon, L.-F.-A. de Rohan-Chabot. Non sembra che G. XVI fosse personalmente favorevole alla morale alfonsiana, temendo probabilmente che la canonizzazione di Alfonso Maria de Liguori potesse essere interpretata come atto favorevole al Lamennais, ma nel 1839 lo proclamò ugualmente santo, con una bolla che incidentalmente ribadiva l'ortodossia della sua dottrina e che fu comunque salutata come una vittoria del partito alfonsiano. Fra G. XVI e Pio IX vi è su questo punto piena continuità. Non vi furono nel suo pontificato molte altre canonizzazioni con la stessa eco di quella del 1839 (altre quattro riguardarono il gesuita Francesco de Geronimo, grande apostolo di Napoli all'inizio del Settecento, Veronica de Giuliani, Pacifico di San Severino e Giovanni Giuseppe della Croce). Lo stesso si deve dire delle beatificazioni (fra cui quella del domenicano Martino de Porres, latinoamericano, e del sacerdote torinese Sebastiano Valfrè, dell'inizio del Settecento) e delle conferme del culto già prestato a vari servi di Dio.
Gli anni 1831-46 videro anche ventiquattro promozioni cardinalizie con settantotto nomine, che colmarono i vuoti creati dalla scomparsa di sessantuno cardinali. Il S. Collegio venne radicalmente rinnovato. È difficile cogliere una precisa linea nelle scelte, anche se le preferenze del papa andavano agli intransigenti o zelanti. Fra i promossi vi furono grandi pastori (E. Sterckx, F.J.J.C. Schwarzenberg, H.-R.-J.-C. de la Tour d'Auvergne, B. Romilli, G. Monico, C. Falconieri, F. Serra Cassano, F. Caracciolo, G.M. Trigonas Parisi, F.M. Pignatelli); curiali benemeriti per la riforma dei religiosi, come Antonio Sala; funzionari di Curia, talora non sacerdoti, come Ludovico Gazzoli, preside della Comarca, o discutibili ministri delle finanze come il Tosti; ex nunzi come L. Lambruschini, T.M.P. Gizzi, P. Ostini, L. Altieri, G. Giustiniani, F. Tiberi, U.P. Spinola; Costantino Patrizi, vicario generale di Roma dal 1841; grandi dotti, come A. Mai e G. Mezzofanti, e il Mastai, promosso nel 1839. Il Collegio cardinalizio conservò una fisionomia fortemente italiana, addirittura un po' provinciale, per l'assenza di vescovi di capitali estere come Parigi, Vienna, Monaco o Madrid e la presenza di pastori di piccole diocesi del Lazio o delle Marche, sia pure dopo brillanti carriere all'estero come nunzi.
Il pontificato gregoriano si chiuse il 1° giugno 1846 con una morte che, dopo una breve malattia di cui non si capì la gravità, colse di sorpresa anche i suoi stretti aiutanti.
Come pontefice G. XVI appare a distanza con un triplice aspetto. È il campione della libertà della Chiesa in Svizzera, in Germania, nella penisola iberica, nella stessa Russia, qui almeno dopo iniziali confusioni. È un papa che più volte mostra un'inattesa apertura e una precisa comprensione dei tempi: si pensi alla svolta impressa alla politica curiale in America Latina, alla comprensione mostrata in Belgio, alla resistenza al patronato portoghese (Multa praeclare, 1838), al superamento del legittimismo (Sollicitudo, 1830), alla tolleranza matrimoniale in Ungheria e Transilvania (1841), all'impulso al clero indigeno (Neminem latet, 1845). D'altra parte non possiamo dimenticare ritardi e chiusure nell'amministrazione pontificia, le condanne della Mirari vos (1832), con l'angusta visione d'una Chiesa immutabile mai soggetta a crisi e l'aperta sfiducia nel laicato, la libertà di coscienza legata all'indifferentismo, quindi vista come errore e follia.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia si rinvia a G. Martina, G. XVI, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 559 s.