GIOVANNI IX, papa
Figlio di Ramboaldo, non si conoscono né la data né il luogo della sua nascita, si sa però che era originario di Tivoli, presso Roma, e che fu ordinato sacerdote da papa Formoso.
Dopo la fine dei brevi pontificati di Romano (papa dall'agosto al novembre 897) e di Teodoro II (papa per meno di un mese nel dicembre 897), furono eletti al pontificato contemporaneamente Sergio e G., ma solo quest'ultimo fu consacrato, tra la fine dell'897 e il gennaio 898, mentre Sergio (che sarebbe diventato papa nel 904) fu costretto all'esilio.
Una delle prime preoccupazioni del nuovo pontefice fu quella di riabilitare papa Formoso, condannato da Stefano VI nel cosiddetto "sinodo del cadavere", e di restituire validità a tutte le sue ordinazioni, proseguendo in questo senso l'opera dei predecessori Romano e Teodoro. La pacificazione ecclesiastica voluta da G. fu affiancata dal ristabilimento dell'alleanza con l'Impero, ovvero con Lamberto di Spoleto (892-898).
Secondo Flodoardo, e secondo l'epitaffio di G., questi tenne tre concili. Del primo non si conoscono né la data né il luogo; il secondo avrebbe avuto luogo a Roma; il terzo si riunì a Ravenna nel luglio 898; in questa sede sarebbero stati ripresi e ribaditi in forma più solenne i canoni del precedente concilio romano. Secondo alcuni studiosi, all'interno della documentazione, in cui i canoni dei due concili si "confondono materialmente", sarebbe possibile rintracciare i decreti emanati a Roma e quelli emanati a Ravenna. All'inizio degli anni Trenta, però, questa tesi fu messa in discussione da J. Duhr che sostenne che il concilio romano dovesse essere attribuito non a G. ma al suo predecessore Teodoro, e gli atti che sono giunti fino a noi - il verbale delle due sessioni in cui fu riesaminata la questione formosiana, la serie di capitoli relativi alla medesima questione e il verbale della seduta conclusiva del concilio, nel corso della quale furono sanciti i termini dell'accordo tra il papa e Lamberto - fossero quelli di Ravenna.
Il concilio di Ravenna si svolse alla presenza dell'imperatore Lamberto, del clero romano, e di settantatré vescovi provenienti da tutte le province del Regno. Il concilio condannò il "sinodo del cadavere", disponendone la distruzione degli atti, ma concesse il perdono ai vescovi che vi avevano partecipato, accogliendo le loro preghiere, nonché la loro affermazione di essere stati costretti ad approvarne le decisioni; furono condannati soltanto i presbiteri Sergio (il futuro papa Sergio III), Benedetto e Marino, i diaconi Leone, Pasquale e Giovanni, insieme con coloro che avevano profanato la tomba di Formoso e ne avevano gettato il corpo nel Tevere. Il concilio stabilì inoltre che il caso di Formoso, che si era trasferito da Porto a Roma, non dovesse essere mai più preso a esempio e che chi avesse osato contravvenire alla antica regola (il XV canone di Nicea), che vietava il trasferimento di un vescovo da una sede a un'altra, sarebbe stato scomunicato. Tutti gli atti di Formoso - le ordinazioni e l'incoronazione di Lamberto dell'892 - furono di nuovo considerati validi; fu invece ritenuta illegittima l'incoronazione di Arnolfo, avvenuta nell'896, quando, chiamato dal papa, era giunto a Roma per cacciarne Lamberto e sua madre. Formoso infatti temeva l'ingerenza degli Spoletini nell'Italia meridionale, in seguito alla decisione della madre di Lamberto, l'imperatrice Ageltrude (figlia del duca di Benevento), di aiutare la sua famiglia a riconquistare il Ducato sottrattole dai Bizantini nell'891 chiedendo al cugino Guido (IV) di muovere dalla Marca di Spoleto, di cui era reggente, su Benevento.
Per evitare che la Chiesa potesse subire violenze nel periodo di vacanza del seggio pontificio, il concilio stabilì che per il futuro la consacrazione del pontefice si sarebbe svolta alla presenza dei missi imperiali, secondo una prassi - che però riguardava l'elezione del pontefice, e non la consacrazione - stabilita dalla Constitutio Romana dell'imperatore Lotario, emanata nell'824, e allora ripresa; venne inoltre stabilito che sarebbero stati colpiti non solo dalla censura ecclesiastica ma anche imperiale coloro che, durante la vacanza del seggio papale, avessero osato depredare il patriarchio - una consuetudine cui si intendeva mettere fine. I vescovi dovevano tornare a giudicare le cause di loro pertinenza nelle proprie diocesi, mentre i Romani, laici o ecclesiastici, avrebbero potuto appellarsi all'imperatore per ottenere giustizia. La Chiesa romana sarebbe stata protetta e difesa, secondo un patto stabilito "in tempi antichi da imperatori religiosissimi", dalle empietà commesse nei territori pontifici, nonché dagli illeciti patti che Romani, Longobardi e Franchi stringevano contro la volontà apostolica e imperiale. Infine fu decretata la restituzione alla Chiesa dei patrimoni confiscati dopo l'incoronazione di Guido di Spoleto.
Il concilio aveva dunque conseguito il duplice scopo di riabilitare Formoso e di ristabilire - come sottolinea Duhr - l'intesa tra il Papato e il potere imperiale, rinnovando un patto concluso - come ricordato negli atti del concilio - da Lamberto e da suo padre Guido, all'epoca della sua incoronazione imperiale (891), con Formoso; un'intesa che, se difficile da rispettare sul piano dei rapporti di vicinato tra Roma e Spoleto, era tuttavia possibile nella prospettiva - più ampia e meno compromessa - dei rapporti tra le due istituzioni, tra i due capi della Cristianità, e tanto più desiderata in un momento in cui la situazione di Roma e dei dintorni si era fatta drammatica, come testimoniano, oltre al passo del canone conciliare, le difficoltà incontrate da G. nel procurarsi il materiale per la ricostruzione della basilica lateranense, da lui iniziata ma mai portata a termine, dato che dei "malitiosi homines" impedivano agli operai la raccolta della legna nei boschi. A determinare un simile stato di emergenza erano non soltanto le incursioni dei Saraceni, che dal Garigliano si muovevano a saccheggiare le regioni dell'Italia centrale, ma anche le irrequiete forze locali, che tendevano a sottrarsi a ogni autorità e che avrebbero finito col prevalere dopo la morte di G. e quella di Lamberto, vittima di un incidente di caccia nell'ottobre 898.
L'opera pacificatrice di G. non si limitò all'Occidente. Negli anni del suo pontificato era ancora in corso, in Oriente, la disputa riguardante il patriarca Fozio che era stato eletto una prima volta patriarca di Costantinopoli nell'854, in modo irregolare, essendo egli un laico e non essendo ancora vacante la sede vescovile, dato che Ignazio rifiutava di abbandonarla. Contro Fozio si era pronunciato papa Niccolò I nell'860, ma la questione non fu risolta fino al settembre 867, quando l'imperatore Michele III, sostenitore di Fozio, fu assassinato e Ignazio tornò al suo posto (novembre). L'VIII concilio ecumenico, svoltosi tra l'869 e l'870, aveva condannato Fozio, il quale solo nell'ottobre 877, dopo la morte di Ignazio, assunse di nuovo il patriarcato. A questo punto si pone la questione di un secondo scisma di Fozio, apertosi con il suo reinsediamento. L'atteggiamento di Giovanni VIII e dei papi successivi (Marino I, Adriano II, Stefano V e Formoso) nei confronti di Fozio è stato oggetto di studi non sempre concordi. Secondo la prospettiva tradizionale (Hergenröter, Hefele), i papi da Niccolò I a G. furono concordi nel condannare il patriarca di Costantinopoli. Secondo A. Lapôtre, al contrario, tutti i pontefici da Giovanni VIII a G. riconobbero il secondo patriarcato di Fozio (877-886) salvo Formoso e Marino I. Successivamente altri studiosi, sebbene con alcune divergenze, soprattutto in merito all'atteggiamento tenuto da Formoso, hanno ritenuto impossibile che ci sia stato un secondo scisma di Fozio sostenuto da tanti pontefici.
Nella raccolta di scritti antifoziani, risalente all'ultimo decennio del IX secolo e annessa in alcuni manoscritti greci agli atti dell'VIII concilio ecumenico (raccolta che costituisce un documento fondamentale per lo studio delle relazioni tra Roma e Bisanzio durante il secondo patriarcato di Fozio) è contenuta una lettera di G. a Stiliano Mapa, metropolita di Neocesarea, e agli altri capi del partito degli antifoziani intransigenti. Nella lettera - che all'interno della raccolta è seguita da un commento che tende a interpretarla, erroneamente, in senso antifoziano - il pontefice afferma che dovranno essere osservate le decisioni prese dai suoi predecessori Niccolò I, Giovanni VIII e Stefano V, quindi conferma la validità dei patriarcati di Ignazio, Fozio, Stefano e Antonio Cauleas e le loro ordinazioni. La lettera costituisce un esempio della tattica adottata dal Papato nei confronti degli ignaziani, ai quali doveva essere riconosciuta l'opportunità della condanna del primo patriarcato di Fozio, mentre, nello stesso tempo, venivano scoraggiati dal continuare le ostilità.
Oltre a svolgere un'opera di pacificazione sia in Occidente, sia in Oriente, G. tentò di recuperare all'autorità di Roma la diocesi di Moravia. La Moravia era stata cristianizzata nella seconda metà del IX secolo da Cirillo e Metodio, inviati da Bisanzio, i quali iniziarono con successo l'opera di evangelizzazione e ricevettero l'approvazione di papa Adriano II, che nominò Metodio arcivescovo. Essi dovettero però affrontare l'ostilità del clero tedesco che - in virtù del dominio politico che la Germania aveva sino ad allora esercitato sulle tribù slave, e nello stesso tempo per rafforzarlo - non intendeva lasciarsi sottrarre i territori compresi nella provincia ecclesiastica assegnata a Metodio. Il conflitto tra i vescovi tedeschi e Metodio continuò fino alla morte di questo, nell'885; l'amministrazione dell'arcidiocesi fu allora assunta dal suo suffraganeo e nemico Vichingo che aveva ottenuto da Stefano V una lettera in cui si condannava l'uso della lingua slava nella liturgia, praticato da Cirillo e Metodio sin dal loro arrivo in Moravia. I discepoli di Metodio dovettero lasciare la Moravia e si rifugiarono per la maggior parte in Bulgaria, passando così sotto l'autorità della Chiesa di Bisanzio. Quando G. volle riprendere la politica di Giovanni VIII, se non tornando sulle decisioni relative all'uso della lingua slava, nominando però un nuovo arcivescovo, i presuli bavaresi non mancarono di protestare con un lungo mémoire, ma la risposta di G. a questa lettera è purtroppo andata perduta.
G. morì a Bisanzio tra il gennaio e il maggio 900.
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