CALLISTO III, papa
Alonso Borja nacque il 31 dic. 1378 a Torre del Canals presso Játiva (Valenza). Suo padre, Domingo, apparteneva a un ramo cadetto della più importante famiglia di Játiva ed era un piccolo proprietario terriero e un gentiluomo di campagna. Sua madre, Francina Marti, proveniva da una famiglia valenciana stabilitasi a Játiva.
La famiglia Borja proveniva originariamente, come suggerisce il nome, da Borja nella valle dell'Ebro. Essa vantava una discendenza da don Pedro de Atares, eletto re di Aragona e signore di Borja nel XII sec.; ma tale discendenza non è dimostrabile. Nel 1240 Giacomo I d'Aragona concesse a Esteban Borja e ad altri membri della famiglia alcune terre, a Játiva e nei suoi dintorni, da poco conquistate ai Mori.
A quattordici anni Alonso andò all'università di Lérida per studiare diritto canonico e civile e, addottoratosi, divenne lettore nella stessa università. Notato per le sue doti di giurista e di amministratore da Pedro de Luna, fu da questo nominato nel 1408 assessore e ufficiale della diocesi di Lérida. Si iniziava così la sua carriera ecclesiatica. Nel 1411 divenne canonico della cattedrale. Intorno allo stesso periodo seppe che s. Vincenzo Ferrer aveva profetizzato la sua elevazione al trono pontificio. La storia della profezia di s. Vincenzo è riferita dallo stesso Alonso, e uno dei primi atti del suo pontificato fu la canonizzazime del predicatore domenicano. Nel 1416 Alonso fu scelto come delegato ufficiale della diocesi di Lérida al concilio di Costanza, ma, in seguito all'ascesa al trono di Alfonso V, che al concilio si opponeva, non vi partecipò. Si recò invece a Barcellona a rappresentare la sua diocesi al sinodo della Chiesa aragonese, e l'anno seguente, nel 1417, trattò con ufficiali regi questioni finanziarie della sua diocesi. In questa occasione le sue capacità di diplomatico e di amministratore colpirono favorevolmente il re che lo chiamò a corte in qualità di segretario: da questo momento fino al 1444, quando divenne cardinale e fissò la sua residenza a Roma, egli fu uno dei principali consiglieri di Alfonso V.
Nel 1418 il Borja fu incaricato di trattare cm il cardinal Adimari arcivescovo di Pisa, inviato da Martino V per chiedere l'appoggio di Alfonso V. L'unità della Chiesa stava particolarmente a cuore ad Alonso e la sua influenza sul monarca aragonese fu probabilmente decisiva per la conclusione dell'accordo tra questo e il nuovo papa. È certo che il Borja fu ricompensato da Martino V con un canonicato nella cattedrale di Barcellona. Tuttavia Alonso, che era divenuto inoltre rettore di S. Nicola a Valenza, operava ancora più come ufficiale del re che non come uomo cli chiesa. Ebbe una parte importante nei negoziati tra l'Aragona e gli altri regni spagnoli, e nel 1420, quando Alfonso V venne in Italia per la prima volta, il Borja rimase in patria come vice cancelliere del Regno. Tra il 1420 e il 1423 fu anche vice cancelliere dell'università di Lérida; ma nel 1423 si dimise dagli incarichi tenuti nell'università e nella diocesi di Lérida, in modo da poter dedicare tutte le sue energie al servizio del re. Nel 1424 fu nominato amministratore della diocesi di Maiorca; Alfonso V avrebbe desiderato la sua elevazione al cardinalato, ma la richiesta non fu accolta da Martino V.
Nel 1429 il cardinale di Foix giunse a Barcellona con l'incarico di ottenere la rinuncia dell'antipapa Clemente VIII, che si era rinchiuso fin dal 1424 nella fortezza rocciosa di Peniscola. Il cardinale chiese l'intervento del Borja che, con un solo compagno, si recò a Peniscola ove, nell'agosto del 1429, riuscì a convincere l'antipapa a rinunciare alle sue pretese: finalmente lo scisma ebbe termine. In ricompensa dei servigi resi, il Borja fu creato vescovo di Valenza e fu ordinato dallo stesso cardinale di Foix.
Per tre anni Alonso si occupò attivamente della sua diocesi, che era stata uno degli ultimi capisaldi dello scisma e si trovava in uno stato di notevole confusione. Trasportò nella cattedrale le ossa di s. Luigi di Tolosa e iniziò la costruzione di una cappella per deporvele. Mostrò una particolare capacità per organizzare splendide cerimonie che facevano appello alla naturale religiosità dei Valenciani. Nel 1432 Alfonso V lo chiamò in Italia perché riassumesse la sua carica di consigliere regio.
Poco si sa dei successivi dodici anni della sua vita. Nel 1436 ritornò in Spagna per prendere il figlio illegittimo di Alfonso, Ferrante, e per alcuni anni fu il tutore del giovane principe. Quando finalmente Alfonso si stabilì a Napoli nel 1442, il Borja ebbe l'incarico di riorganizzare il sistema giudiziario del Regno, divenne presidente del Sacro Consiglio, e fu presidente del Consiglio regio tra il 1442 e il 1444. Durante questi anni continuò a dar prova della sua ferma obbedienza al pontefice romano, resistendo strenuamente ai progetti di Alfonso di appoggiare il concilio di Basilea in modo da costringere Eugenio IV a riconoscere le sue pretese su Napoli. Egli inoltre, nel 1439, aveva guidato la delegazione aragonese al concilio di Firenze, dove incontrò i cardinali Bessarione e Cesarini e dove ebbe i primi contatti con la corte pontificia. Questo fu anche, probabilmente, il suo primo vero contatto col mondo intellettuale dell'umanesimo fiorentino.
Tuttavia fu ancora una volta come negoziatore che il Borja si distinse nel 1443 quando, insieme con il cardinale Ludovico Trevisan, negoziatore pontificio, fu uno degli artefici dell'accordo finale tra Eugenio IV e Alfonso V, noto come trattato di Terracina. L'anno seguente fu creato cardinale prete dei SS. Quattro Coronati e prese subito residenza a Roma in un palazzo dietro il Colosseo.
La prontezza con la quale egli abbandonò il servizio regio, al momento della sua nomina nel Sacro Collegio, è abbastanza sorprendente; fu dovuta certo al suo desiderio di lasciare incarichi politici e amministrativi per dedicarsi ad una vita più prettamente ecclesiastica. Durante i suoi undici anni di cardinalato il Borja non svolse un ruolo importante nel governo della Chiesa. Condusse una vita austera, tranquilla e indisturbata nel suo palazzo ai SS. Quattro Coronati, di cui restaurò i chiostri; si guadagnò fama di incorruttibilità e si tenne al di fuori delle mene politiche e delle fazioni della corte pontificia. Il Platina scrisse di lui: "non minore modestia in cardinalatu utens, quam antea in episcopatu fecerat, ab omni pompa et inani gloria alienus semper fuit". Ala come molti altri cardinali ben presto si circondò di connazionali e di suoi familiari.
Le voci secondo cui il Borja era padre di Francesco Borja, il futuro tesoriere di Alessandro VI, creato cardinale nel 1500, sono cettamente prive di fondamento; ma è sicuro che fu prodigo di attenzioni e ricompense nei confronti dei suoi nipoti. Sua sorella maggiore, Catalina, aveva sposato Juan de Mila, e il loro figlio Luis Juan venne in Italia presso lo zio. Maggiore importanza ebbe la più giovane delle sorelle di Alonso, Isabella, che sposò Jofré Borja, del ramo maggiore della famiglia, e i suoi due figli, Pier Luigi e Rodrigo, che giunsero a Roma intorno al 1450. Inoltre l'atmosfera essenzialmente catalana della casa di Alonso, che doveva essere causa di profondo risentimento quando fu eletto papa, era già evidente negli anni precedenti.
Alla morte di Niccolò V, avvenuta nella primavera del 1455, il conclave si svolse in un'atmosfera di accentuata tensione internazionale. Oltre alla vecchia rivalità Orsini-Colonna, che aveva tormentato tutti i conclavi del XV sec., la recente caduta di Costantinopoli aveva messo in stato di allarme l'Europa sul pericolo costituito dai Turchi e aveva creato un'atmosfera in cui si sentiva l'urgenza di una nuova crociata. Al conclave, che si aprì il 4 apr. 1455, erano presenti sette cardinali italiani, quattro spagnoli, due francesi e due greci. Il predominio numerico dei cardinali non italiani e la portata dei problemi internazionali che si presentavano alla Chiesa furono verosimilmente i motivi che portarono all'elezione di uno straniero; l'opposizione francese al candidato su cui convergevano molti consensi, il greco Bessarione, rese inevitabile una scelta di compromesso. Alonso Borja, di settantasette anni di età, il più vecchio dei cardinali, largamente apprezzato e noto per la appassionata ed intima convinzione con cui propugnava la crociata, fu la scelta più ovvia. L'8 aprile fu eletto papa e prese il nome di Callisto III.
Nonostante l'età e le infermità crescenti (era già allora per lo più costretto a letto dalla gotta), C. III diede subito prova di sorprendente energia e indipendenza. Avendo fatto voto solenne, subito dopo la sua elezione, di dedicarsi interamente alla lotta contro i Turchi, egli inviò per tutta Europa i suoi legati a predicare la crociata. Le sue lettere in proposito sono imbevute di un violento e polemico vigore e risentono chiaramente della sua educazione formatasi nell'atmosfera della "reconquista". Ma gli appelli del papa suscitarono scarse adesioni: i principi europei erano troppo occupati coi loro problemi interni per accettare l'ipotesi di una crociata. Soltanto in Ungheria, dove il pericolo turco si faceva realmente sentire, il legato pontificio, cardinale Carvajal e il predicatore francescano Giovanni da Capestrano riuscirono a ispirare un vero fervore per la crociata; l'esercito di Giovanni Hunyadi colse una grande vittoria a Belgrado nel 1456. C. III raddoppiò allora i suoi sforzi per inviare aiuti finanziari sia all'Hunyadi sia al condottiero albanese Skanderbeg, e per suscitare nuove adesioni alla crociata. Ai primi del 1458 chiese a tutte le potenze europee di inviare ambasciatori a Roma per discutere sulla lotta contro i Turchi; ma pochi furono i rappresentanti che arrivarono, e ancora una volta i risultati furono scarsi. Notevoli sforzi furono compiuti da C. III per la creazione di una flotta pontificia da opporre ai Turchi. Appena un mese dopo la sua elezione erano già stati conclusi contratti per il noleggio e la costruzione di galee. Furono noleggiate alcune galee catalane; Antonio Frescobaldi fu autorizzato ad armare quattro galee a Porto Pisano; a Roma le banchine del Tevere furono trasformate in un cantiere navale sotto la supervisione di un mastro costruttore navale, Pietro Torres, fatto venire da Barcellona; 200.000 ducati furono pagati dal tesoro segreto per la flotta che doveva essere posta al comando del cardinale camerlengo Ludovico Trevisan. La prima squadra navale prese il mare nel settembre 1455 al comando di Pietro Urrea, arcivescovo di Tarragona, ma passò l'inverno compiendo atti indiscriminati di pirateria lungo le coste della Sicilia. Intorno alla metà del 1456 una seconda squadra di sedici galee, per la maggior parte costruite sul Tevere, erano pronte a salpare col cardinal Ludovico, e più tardi, nel corso dello stesso anno, l'intera flotta si riunì nel Mediterraneo orientale. Tuttavia, nonostante i continui sforzi di C. III, la flotta ricevette ben pochi rinforzi durante i diciotto mesi in cui fronteggiò i Turchi. Il papa inviò ancora alcune galee e continue somme di denaro, ma nessuna altra squadra raggiunse il cardinal legato. Costui era troppo debole per tentare un attacco su Costantinopoli, come il papa avrebbe desiderato, ma riuscì a difendere le isole cristiane dell'Egeo, e ad infliggere una sconfitta alla flotta turca presso Lesbo. Nel 1458 egli si impadronì per breve tempo delle acropoli di Atene e di Corinto. Ma questi risultati furono una ben povera ricompensa per tutto il denaro e le energie che C. III aveva profuso nella costruzione della flotta.
Un particolare disappunto provò C. III per la mancata risposta ai suoi inviti del suo antico sovrano, Alfonso d'Aragona. Gli era stata promessa la flotta napoletana per la crociata, ma Alfonso, assai più interessato a consolidare il suo potere in Italia, la impiegò per attaccare Genova. C. III, che riteneva il mantenimento della pace in Italia una base fondamentale per la crociata, deplorò violentemente tale mossa e mostrò ben presto di non dipendere politicamente dall'Aragonese, come molti governi italiani temevano. Quando Iacopo Piccinino, con l'appoggio di Alfonso, minacciò Siena nel tentativo di crearsi uno Stato nell'Italia centrale, immediatamente C. III mobilitò l'esercito pontificio e, con Paiuto di Francesco Sforza, riuscì a bloccare il Piccinino a Castiglione della Pescaia. Alla fine il condottiero ricevette denaro per rinunciare all'impresa e si ritirò a Napoli.
Il conflitto tra C. III e Alfonso durò fino alla morte del re. Alfonso appoggiava gli Orsini contro il papa e pretendeva di controllare la Marca d'Ancona; C. III minacciava di deporlo in virtù dei suoi diritti di signore feudale del Regno. Alla morte di Alfonso nel 1458 C. III cercò di impedire l'ascesa al trono di Ferrante. Egli prese anche in considerazione la possibilità di mettere suo nipote, Pier Luigi, sul trono napoletano, ma, più realisticamente, si rivolse agli Angioini che non avevano mai abbandonato le loro aspirazioni sul Regno.
All'interno dello Stato pontificio C. III intervenne più volte nelle contese tra gli Orsini e i Colonna a favore di questi ultimi. Per la sua politica interna si valse specialmente del nipote Pier Luigi Borja che tra il 1456 e il 1457 nominò capitano generale della Chiesa, duca di Spoleto, governatore di castel Sant'Angelo, governatore di Terni, Narni, Todi, Rieti, Orvieto, della provincia del Patrimonio e prefetto di Roma. Altri numerosi incarichi sia amministrativi sia militari dello Stato pontificio erano stati concessi ai Catalani. C. III aveva ben presto compreso la posizione d'isolamento in cui si sarebbe trovato un pontefice straniero a Roma, e molte delle crescenti antipatie nei confronti suoi e della sua famiglia furono provocate dalla sua determinazione di privare i baroni romani dalle loro cariche per concederle ai suoi seguaci. Il fratello più giovane di Pier Luigi, Rodrigo, il futuro Alessandro VI, fu preparato ad essere il principale consigliere ecclesiastico dello zio. Dopo aver preso la laurea in diritto canonico all'università di Bologna, fu creato cardinale nel 1456 insieme con suo cugino maggiore, Luis Juan de Mila. Fu quindi inviato come legato nella Marca di Ancona, dove domò con successo una rivolta ad Ascoli, e nel 1457, al suo ritorno a Roma, fu creato vicecancelliere della Chiesa. Inoltre C. III nominò il cardinal de Mila suo legato a Bologna ed affidò numerose fortezze ad altri membri della famiglia. Alla corte pontificia i Catalani predominavano, anche se pochi erano gli uffici burocratici loro affidati. Cosimo di Monserrat fu fatto confessore e datario pontificio, Bartolomé Regas segretario privato di C. III, Pietro Daltell, tesoriere di corte; inoltre la maggior parte dei dottori e dignitari di corte erano catalani. Tuttavia la maggior parte dei benefici conferiti da C. III a Catalani furono spagnoli e non italiani. Ci sono ben poche prove che egli spogliasse la Chiesa in Italia per beneficiare il suo entourage.
In realtà a C. III fu rivolta più spesso l'accusa di una eccessiva parsimonia che l'altra di aver spogliato la Chiesa per beneficiare i suoi nipoti. Ad esempio egli ordinò di sostituire i candelieri d'argento della cappella pontificia con altri di piombo e di usare per i propri appartamenti semplici mobili di legno e ferro. Le spese mensili della corte scesero dai 2.500 ducati degli anni di Niccolò V a circa 1500. Furono bloccati i vasti programmi di costruzioni, ad eccezione di quelli riguardanti il restauro delle chiese (durante il pontificato di C. III furono restaurate le chiese di S. Callisto, S. Sebastiano, S. Prisca e S. Lorenzo fuori le Mura), ed il completamento delle fortificazioni iniziate da Niccolò V a ponte Milvio e la pavimentazione di piazza S. Pietro.
La naturale parsimonia del pontefice e la volontà di concentrare le spese nella preparazione della crociata possono giustificare l'atteggiamento di C. III verso l'umanesimo e le arti. La sua educazione strettamente giuridica e la sua formazione spagnola spiegano certamente la sua scarsa simpatia nei riguardi dei movimenti artistici e intellettuali italiani a lui contemporanei; ma non ne sono le uniche cause, poiché non si deve dimenticare la sua volontà di fissare un ordine prioritario nelle spese ponendo al primo posto la crociata. Infatti durante il suo episcopato valenciano C. III aveva destinato una parte delle entrate alla dotazione di una cappella, dedicata a s. Anna, nella collegiale di Játiva, e aveva commissionato un gruppo bronzeo da collocare sopra il portico di S. Martino a Valenza. Inoltre a Roma C. III incoraggiò Lorenzo Valla e Flavio Biondo. Gli mancò, però, certamente la grande visione di Niccolò V e Gianozzo Manetti per la creazione di una nuova capitale della cristianità, mentre del tutto ignorati rimasero gli umanisti della cancelleria pontificia. Tale indifferenza accrebbe la già profonda ostilità che a Roma si nutriva nei suoi confronti; e fu in questa atmosfera che fiorì la leggenda della distruzione da lui compiuta della biblioteca di Niccolò V. Il Filelfo e Vespasiano da Bisticci furono i principali responsabili della diceria secondo cui C. III, con la sua scarsa sensibilità intellettuale e le sue idee arretrate, aveva provocato la dispersione della famosa collezione di manoscritti del suo predecessore. Tuttavia tale leggenda è ampiamente confutata sia dai cataloghi contemporanei della bibboteca vaticana sia dal fatto che è giunta fino a noi la maggior parte della collezione di Niccolò V. è vero soltanto che C. III dette ordine di togliere da alcuni volumi le loro preziose rilegature per venderle e destinare il ricavato ai fondi per la crociata; ma è altrettanto vero che egli stesso lasciò la sua collezione di opere giuridiche alla biblioteca. Come pure priva di fondamento sembra essere la leggenda, messa in circolazione dal Platina, secondo cui C. III ordinò che tutte le campane delle chiese venissero suonate ogni giorno a mezzogiorno come intercessione contro la pericolosa influenza della cometa di Halley apparsa nel 1456. Scopo evidente del Platina era quello di discreditare il papa denunciando la sua superstizione e i suoi limiti intellettuali; in effetti l'ordine era stato dato allo scopo di ricordare ogni giorno ai cristiani la minaccia dei Turchi e la necessità della crociata.
Tutto ciò che riguardava la crociata costituì la principale preoccupazione di C. III fino alla fine della sua vita. Nell'agosto del 1458, nella stagione in cui la corte pontificia lasciava di norma l'insalubre aria di Roma per ritirarsi sulle colline C. III rimase nel suo studio in Vaticano per continuare il suo lavoro. La sua salute, già debole, peggiorò ben presto, e il 6 agosto C. III morì. Il suo corpo fu frettolosamente sotterrato a S. Maria delle Febbri, donde fu più tardi traslato a S. Maria in Monserrato.
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