CALLISTO II, papa
Figlio di Guglielmo conte di Borgogna, ed imparentato per parte di madre con i duchi di Normandia, nacque in un anno imprecisato, probabilmente non molto oltre la seconda metà dell'XI secolo, e gli venne imposto il nome di Guido: il fatto che nel 1088 egli sia divenuto arcivescovo di Vienne non permette molte congetture al riguardo perché la potenza della sua famiglia, legata ai re francesi e tedeschi, ulteriormente confermata dalle brillanti sistemazioni dei suoi fratelli e sorelle equamente divisi tra le carriere ecclesiastiche o civili e il matrimonio con rampolli di potenti casate, poteva permettersi anche di non rispettare l'età prescritta dai canoni. La sua attività di vescovo non si distingue per iniziative notevoli o particolari, fino alla grande crisi, legata al fallimento del compromesso di Sutri e alla prigionia di Pasquale II ad opera di Enrico V (1111). Per gli anni precedenti si ricorda un annoso contrasto di potere con Ugo vescovo di Grenoble (vedi, tra l'altro, Jaffé-Loewenfeld, nn. 5523, 5524, 5548, 5568, 5595, 6163; e per altri contrasti di giurisdizione nn. 5591, 5609, 5770, e particolarmente per la durezza del giudizio generale su Guido n. 5685): tale da attestare atteggiamenti e modi di essere certo comuni tra la gerarchia episcopale francese ma che non sembrèrebbero comunque molto attenti alle più genuine e vivaci esigenze prospettate dalle correnti riformatrici nei precedenti decenni. Nel 1100 una sua legazione presso il re d'Inghilterra su incarico di Pasquale II non segnò propriamente un successo. Assunse un ruolo di punta, come si è detto, con la crisi successiva alla concessione a Enrico V da parte di Pasquale II del cosiddetto privilegio delle investiture: Pasquale II era arrivato a quest'atto dopo che la gerarchia episcopale tedesca e non pochi della sua stessa cerchia si erano mostrati decisamente ostili al compromesso di Sutri che implicava la rinuncia da parte ecclesiastica delle regalie e il conseguente abbandono, da parte del sovrano, dell'investitura. Enrico V ne aveva approfittato per ridurlo in prigionia e per strappargli la concessione del suo pieno diritto alle investiture. Le reazioni in ambito ecclesiastico furono violente: l'atto del pontefice fu tacciato di eresia, si profilò la minaccia di uno scisma: tra gli altri, e a un certo momento in prima linea su queste posizioni intransigenti, Guido di Vienne. Non è facile, sulla base dei frammenti di notizie che ci sono pervenuti, precisare con assoluta esattezza l'ordine degli avvenimenti, riconoscere le alleanze, distinguere i collegamenti reali da quelli apparenti. Nel concilio lateranense del marzo 1112 Pasquale II fu costretto a una sconfessione del privilegio concesso, ma non si arrivò all'esplicita condanna di Enrico V. è immediatamente successiva al concilio una sua lettera a Guido che lo informa genericamente delle decisioni prese, riaffermando la sua fedeltà alla linea di Gregorio VII. In questa lettera Guido appare "apostolicae sedis vicarius", investito cioè di una legazione della quale non conosciamo scopi e portata (ibid., n. 6313). Una successiva lettera di Pasquale II a Guido, del giugno di quell'anno, rifà la storia del suo cedimento e ripete la cassazione del privilegio (ibid., n. 6325). Ma Guido riunì nel settembre a Vienne un concilio di numerosi vescovi francesi che andò ben oltre la linea del papa: l'investitura per mano di un laico fu dichiarata eretica, fu respinto ancora una volta il privilegio accordato da Pasquale II ad Enrico V e il re fu scomunicato (J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio…, XXI, Florentiae 1776, cc. 73 ss.). La lettera che Guido scrisse al papa per comunicargli queste decisioni, rispettosa nella forma, fu assai dura nella sostanza: gli fu chiesto di approvare le deliberazioni del concilio, di astenersi da ogni rapporto con Enrico V: "se seguirai un'altra strada, se non confermerai le nostre decisioni, ci aiuti Iddio, perché così ci respingeresti dalla soggezione ed obbedienza verso di te. Sta bene" (ibid., c. 76). Pasquale II si piegò, pur limitandosi a una conferma generica (Jaffé-Loewenfeld, n. 6330) ed evitando allora e in seguito di condannare apertamente Enrico V.
Ciò che stupisce in questa vicenda, che solo il concilio lateranense del 1116 chiuderà definitivamente con la ritrattazione anche del compromesso di Sutri, è il presentarsi di Guido su posizioni che si direbbero intransigentemente gregoriane, di condanna dell'investitura come eresia e di rottura con il re tedesco: posizioni che come vedremo saranno smentite nella sostanza dalla linea da lui adottata nel corso del suo pontificato. Le fonti di cui disponiamo sono troppo scarse per permettere di andare al di là di ipotesi e osservazioni generali; ma si sarebbe tentati di individuare nella posizione di Guido l'emergere di una lotta di potere all'interno della gerarchia ecclesiastica, dove il richiamarsi alle posizioni di Gregorio VII è in funzione strumentale alla critica della linea pauperistica e di cedimento scelta da Pasquale II, prima con il compromesso di Sutri e poi con il privilegio delle investiture, piuttosto che la manifestazione di radicali istanze di riforma. Si intende dire, cioè, che la posizione di Guido va inquadrata in tutta quella linea di restaurazione, di ordine e di disciplina, di potere insomma, assunta dalla Chiesa occidentalecon il pontificato di Urbano II, contro ogni istanza antitemporalistica e pauperistica, e contro ogni autonoma espressione di vita religiosa. Scelta la linea del governo e del potere, la gerarchia ecclesiastica restava divisa ed oscillante tra la ricerca di un compromesso con il potere politico, pur nel mantenimento della propria autonomia (soluzione adottata nella sostanza in Francia ed Inghilterra) e il perseguimento di un indirizzo più esplicitamente ierocratico: le contraddizioni e i contrasti di questi anni sembrano doversi interpretare in questo senso piuttosto che come un ripresentarsi degli scontri e delle contrapposizioni che avevano caratterizzato il primo periodo della riforma e, almeno in parte, lo stesso pontificato di Gregorio VII.
Negli anni seguenti (1115) Guido ricompare ancora come legato papale, a dirimere contrasti locali (ibid., nn. 6456 e 6467) e a presiedere, nel 1117, un non meglio individuato concilio a Digione (Mansi, XXI, cc. 159 ss.). ma ben poco d'altro si sa di lui e della sua attività. Pasquale II morì il 21 genn. 1118. Il suo successore, Gelasio II, regnò un anno soltanto: nel frattempo la rottura con Enrico V era ridivenuta esplicita, un papa imperiale, Burdino arcivescovo di Braga, era stato contrapposto al papa romano. Gelasio II, poco sicuro nella città anche per i contrasti tra le fazioni dei Pierleoni e dei Frangipane, si era recato in Francia, per trovare gli appoggi necessari nella pericolosa situazione: ma il 29 genn. 1119 era morto a Cluny. I cardinali di Ostia e di Preneste, che lo avevano accompagnato, ritennero opportuno affrettare i tempi della nuova elezione: il 2 febbraio scelsero come papa Guido e scrissero ai confratelli rimasti a Roma perché, ratificassero il loro operato. Ma già il 9 febbraio Guido si fece incoronare nella cattedrale di Vienne con il nome di Callisto II. Nelle settimane successive arrivarono le adesioni degli altri cardinali e del clero e del popolo romano, con il consiglio di riunire un concilio e di adoperarsi per la pace e la liberazione della Chiesa. Anche alcuni prelati romani che avevano assunto precedentemente posizioni di dissenso offrirono il loro appoggio. È molto probabile che tale fretta, e insieme tale unanimità trovino la loro spiegazione nella pericolosità della situazione, nell'opportunità di trovare un saldo appoggio nel regno di Francia e insieme nell'urgenza di puntare, con fronte compatto, ad un accordo con il re tedesco: per questo poterono restare momentaneamente sopiti i contrasti e le lacerazioni all'interno del collegio dei cardinali, già almeno in parte diviso tra Frangipane e Pierleoni, contrasti che emergeranno invece con chiarezza nel corso dell'elezione del 1124, prima di sfociare nello scisma del 1130.
C. II si trattenne in Francia più di un anno e fu un anno denso di iniziative e di attività, assai significativo per cogliere gli indirizzi di fondo del suo pontificato. Già nell'aprile egli predispose la riunione, per l'autunno, di un grande concilio a Reims per discutere dei rapporti con il regno tedesco (Jaffé-Loewenfeld, n. 6688), e fu in previsione di questo concilio che l'assemblea dei principi tedeschi, riunita da Enrico V nel giugno a Magonza, si aggiornò per attendeme le decisioni: si stava attuando cioè da ambo le parti uno sforzo congiunto per raggiungere un compromesso. Nell'attesa, un lungo viaggio attraverso la Francia centromeridionale permise a C. II di stabilire contatti e alleanze. Nel luglio presiedette a Tolosa un concilio, evidentemente per l'urgenza di adottare una serie di misure riguardanti una specifica situazione locale: in effetti, accanto a una serie di canoni tradizionali contro la simonia e la dispersione dei beni ecclesiastici e ad altri riguardanti la dignità del clero e il buon ordine sociale, troviamo la scomunica di quanti "condannino il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il battesimo dei fanciulli, il sacerdozio e gli altri ordini ecclesiastici, e i patti delle legittime nozze" (Mansi, XXI, c. 225). è pressoché certo che qui si allude alla predicazione di Pietro di Bruis e di altri a lui legati. Ma la rigida formulazione dottrinale del canone non deve trarre in inganno: è molto probabile che in primo luogo quella predicazione avesse di mira il temporalismo ecclesiastico, lungo la stessa linea degli altri predicatori itineranti del tempo: colpire i sacramenti, quei sacramenti, nella loro validità obiettiva, costituiva il modo più radicale per colpire l'istituzione e i suoi privilegi di casta e di potere. è probabile appunto che in questa direzione si muovesse l'iniziale predicazione di Pietro di Bruis, che il canone polemicamente trasferisce in una sfera puramente dottrinale, colpendola perciò come eretica. Anche quell'altro canone del resto, che scomunica chi, tra monaci, canonici e chierici, "primam fidem irritam faciens, retrorsum abierit, aut tanquam laicus comam barbamque nutrierit" (ibid.), non vuol alludere certo a fenomeni di folclore: ma colpire una, prassi di rottura della disciplina, della "stabilitas loci", dello stesso costume esteriore ecclesiastico, quelle tendenze insomma che conosciamo operanti e vivaci tra i predicatori itineranti della Francia centromeridionale, già fatti oggetto delle dure invettive di un Ivo di Chartres e di un Marbodo di Rennes. Conferma del resto la diffidenza, per non dire l'ostilità, di C. II per queste forme di evangelismo, individuate come eversive dell'istituzione ecclesiastica, il suo rifiuto di rinnovare a Norberto di Xanten la "licentiam praedicandi ubique in forma apostolorum" (G. G. Meersseman, p. 177) e le pesanti e ironiche allusioni verso esperienze del genere, ridotte a caratteristiche meramente truffaldine, contenute in una sua predica per la festa di s. Giacomo (Migne, Patr. lat., CLXIII, c. 1389 C-D). Sarebbe profondamente errato considerare questi giudizi e questi atteggiamenti come elemento secondario e in sostanza a sé stante della sua linea pontificale: l'urgenza di un accordo di compromesso con il re tedesco e in genere con il potere civile nasceva anche dalla considerazione della necessità di chiudere una vicenda che aveva profondamente lacerato il tessuto sociale e il suo ordinamento gerarchico, introducendo al suo interno pericolosi fermenti di critica e di sovversione.
Nell'estate del 1119 C. II continuò il suo itinerario francese: attraverso Périgueux, Angoulême, Poitiers, Laon, Fontevrault, Angers, Tours, Orléans, giunse all'inizio di ottobre ad Etampes, dove si incontrò con il re Luigi VI (Jaffé-Loewenfeld, p. 786). Pochi giorni dopo era a Parigi, dove lo raggiunsero Guglielino di Champeaux, vescovo di Chalons-sur-Marne, e Ponzio, abate di Cluny, che egli aveva inviato da Enrico V per trattare un accordo di compromesso. L'ambasceria papale aveva incontrato il re tedesco a Strasburgo e Guglielmo aveva prospettato al re il modus vivendi raggiunto in Francia: "Signore, quando sono stato eletto vescovo di Francia, nulla ho ricevuto dal re, né prima né dopo la mia consacrazione: e tuttavia per quanto riguarda le imposte, il servizio militare e tutte le altre prestazioni che anticamente spettavano allo Stato (res publica) e che poi i re cristiani hanno donato alla Chiesa di Dio, io lo servo non meno fedelmente di quanto fanno i vostri vescovi che hanno ricevuto da voi l'investitura per la quale vi siete attirata la scomunica" (Libellide lite, III, p.22). Era una proposta che mirava chiaramente a tutelare i reciproci interessi: si cercava da una parte di evitare una troppo pesante e individuale intrusione del re nelle nomine vescovili in dispregio di ogni norma canonica, e veniva perciò mantenuto il divieto dell'investitura con l'anello ed il pastorale, che anche formalmente sembrava far risaltare il fatto che era il re a consegnare in realtà al prescelto il vescovado; ma d'altra parte veniva ugualmente assicurato al re il mantenimento dei legami tradizionali con i vescovi, nella forma, si può presumere, di un qualche giuramento di fedeltà. Formalmente la legislazione gregoriana appariva salva, ma completamente tradita ne risultava quella componente antitemporalistica che non le era mancata e che ancora aveva ispirato la rinuncia di Pasquale II alle regalie. Su questa base sembrò profilarsi la possibilità di un accordo: mentre C. II si dirigeva verso Reims, per l'apertura del concilio, Guglielmo e Ponzio venivano inviati nuovamente presso Enrico, insieme con il cardinale vescovo di Ostia, Lamberto, e con il cardinale diacono Gregorio di S. Angelo. L'incontro avvenne tra Metz e Verdun e fu stilata una duplice dichiarazione che implicava la rinuncia delle investiture da parte di Enrico V e la promessa di pace reciproca. Nel frattempo, il 20 ottobre, si era aperto il concilio, folto per la presenza di numerosi arcivescovi e vescovi. C. II pronunciò un discorso, che oltre a manifestare la sua volontà di estirpare l'eresia simoniaca introdotta nella Chiesa dalle investiture, informò i presenti delle trattative con il re tedesco. L'ambasceria era nel frattempo ritornata e un incontro tra il re e il papa venne previsto a Mouzon. Il 22 C. II abbandonò il concilio per andare incontro al re. La presenza di Enrico con un esercito di trentamila uomini e dubbi sorti sul testo preparato in precedenza indussero C. II a rinserrarsi in un castello, inviando al re una nuova ambasceria: non solo erano ancora vivi i ricordi delle disavventure di Pasquale II, ma si temeva anche che i termini troppo generici dell'accordo permettessero al sovrano di reclamare tutti i possessi che il Regno aveva donato alla Chiesa (era la linea del compromesso di Sutri tra Pasquale II ed il re che si voleva ad ogni costo evitare di ripetere), e di pretendere insieme che i vescovi scismatici restassero al loro posto. Furono questi i problemi che fecero sfumare ancora una volta il compromesso: Enrico V chiese una dilazione, ma dopo un giorno di attesa C. II si rifiutò ad ogni ulteriore rinvio e ritornò in fretta a furia a Reims: il concilio si chiuse con la promulgazione di una nutrita serie di canoni e con la scomunica contro Enrico V e i suoi seguaci. La rottura era di nuovo aperta e clamorosa: tuttavia si può dire che più che da un disaccordo sui contenuti essa era stata determinata da una crisi di fiducia e insieme dalla difficoltà di liberarsi dal peso di certe formule e usanze troppo tradizionali: il re ancora incerto sulla possibilità effettiva da parte sua di mantenere un effettivo controllo sui vescovi senza ricorrere all'investituta con l'anello e il pastorale, il pontefice timoroso di nuovi tranelli o colpi di forza, e preoccupato di garantire interamente il regime di proprietà e di potere delle gerarchie vescovili. Ma al di là di queste ombre, le posizioni di fatto si erano ormai molto riavvicinate e troppi interessi premevano da ambo le parti verso una ripresa del discorso, perché quella rottura potesse prolungarsi e divenire irreparabile. Un indizio chiaro del resto, sia pure indiretto, lo ricaviamo dalle discussioni stesse del concilio quali ci sono narrate dallo scolastico Essone, testimone oculare di tutta la vicenda: tra i canoni che venivano sottoposti all'approvazione ne figurava anche uno riguardante la proibizione dell'investitura, a opera dei laici, di chiese e possessi ecclesiastici; ma si levò aspra la protesta di chierici e laici che temevano in tal modo di veder messo in discussione il controllo che da antico tempo i laici esercitavano su decime e benefici ecclesiastici: col rischio, aggiungerei, di veder nuovamente incrinata quella saldatura tra aristocrazia laica e clero che costituiva uno degli assi portanti della restaurazione ormai avviata dopo la bufera gregoriana. Essone ci riporta le dure parole di C. II contro costoro. Ma la formulazione finale del canone rispecchiò la sostanza delle loro preoccupazioni: fu proibita l'investitura per mano laica degli episcopati e delle abbazie; restava, cioè, aperto soltanto il capitolo del contrasto con il re tedesco: ma in un contesto generale che sollecitava ad un accordo, dal momento che ormai in nessun modo venivano più posti in discussione i termini e i modi della presenza e del ruolo dell'istituzione ecclesiastica nella società. La presenza di re Luigi nell'ultimo giorno del concilio e i canoni stessi che ci sono pervenuti confermano, questa linea: accanto alla tradizionale condanna della simonia e dell'investitura laica nei termini che si sono detti, veniva ribadito il diritto per la Chiesa di possedere i beni donatile da re e da fedeli, con l'evidente preoccupazione di evitare riaffermazioni pauperistiche di rinuncia. Veniva ripetuta inoltre la condanna del concubinato del clero, mentre un altro canone, vietando che le dignità ecclesiastiche si trasmettessero quasi per diritto ereditario, tradiva il persistere di situazioni di casta che la riforma aveva invano cercato di rompere.
Lasciata Reims, C. II s'incontrò nel novembre a Gisors con il re d'Inghilterra Enrico I Beauclerc, senza ottenere peraltro soddisfazione intorno a una serie di nomine vescovili che il re non era disposto ad accettare; il papa riuscì solo a ristabilire la pace tra Inghilterra e Francia, e concesse ad Enrico, per la Normandia tutte le "consuetudini" che suo padre già godeva in Inghilterra, stabilendo insieme che legati papali sarebbero intervenuti in Inghilterra solo su richiesta del re e per questioni che l'episcopato inglese non era in grado di risolvere. Guglielmo di Malmesbury afferma che C. II fu comprato dai doni di Enrico (Migne, Patr. lat., CLXXIX, c. 1362): è un'insinuazione per la quale mancano altre prove. Sta di fatto che C. II finì per mostrarsi non poco arrendevole con il suo interlocutore. Alla fine di dicembre giunse a Cluny, dove procedette alla solenne canonizzazione dell'abate Ugo. Dopo essersi trattenuto ancora alcuni mesi nella Francia meridionale, C. II prese finalmente la via delle Alpi per prendere solenne possesso della sua sede. A Tortona, nell'aprile, lo vide il cronista milanese Landolfo di S. Paolo che si presentò a lui per reclamare i beni dello zio Liprando usurpatigli da altri chierici. La risposta con la quale C. II rapidamente lo congedò è significativa di un clima e di una mentalità saldamente ancorati al realismo di precisi rapporti di forza, a legami e interessi fondati sulla ricchezza e sul potere: "Fratello, il denaro è una cosa con la quale l'uomo può fare molto di bene. Tu non hai denaro, né c'è tempo ora per discutere le tue ragioni. Ma Dio è potente nel dare" (cap. 48 bis). Il 3 giugno 1120 C. II entrò a Roma e fu solennemente intronizzato nella basilica di S. Pietro. L'anno successivo fu impiegato nel rafforzare la sua posizione locale: un viaggio nell'Italia meridionale, tra l'agosto e il dicembre, gli permise di rinsaldare i tradizionali legami con i Normanni: a Troia e a Bari proclamò la tregua di Dio e ricevette dai vassalli il giuramento di fedeltà. Ritornato a Roma, in un conventus del clero e del popolo romano, tolse all'arcivescovo di Pisa il privilegio, che egli aveva rinnovato pochi mesi prima, di consacrare i vescovi della Corsica, per porre fine ai contrasti con Genova. Con l'aiuto dei Normanni riunì un esercito, agli ordini del cardinale Giovanni di Crema, per catturare l'antipapa Burdino che, dopo la partenza di Enrico V, si era rifugiato a Sutri. Otto giorni di assedio, presente lo stesso pontefice, bastarono per la capitolazione della città. Burdino fu preso e il 23 aprile fece il suo ingresso a Roma, in groppa a un cammello e reggendone la coda: fu rinchiuso nel monastero di Cava. Nel luglio del 1121 C. II iniziò un nuovo viaggio nell'Italia meridionale, dove si trattenne fino ai primi mesi dell'anno successivo.
Una situazione nuova frattanto si era venuta determinando in Germania. Dopo il concilio di Reims, i grandi signori laici si erano stretti nella grande maggioranza intorno ad Enrico: alla Dieta di Goslar, del gennaio 1120, numerosi erano stati, tra gli intervenuti, gli antichi avversari del re. L'episcopato inclinò invece a schierarsi dalla parte del papa: anche Bruno, arcivescovo di Treviri ancora legato all'antipapa, fece atto di sottomissione a Callisto II. Lo stesso tipo di contrapposizione che si venne determinando è il segno di una divisione tra due blocchi che non sono riusciti a raggiungere ancora un compromesso di potere, ma nei quali non operano più drastiche contrapposizioni ideali di linea e di contenuto. Non mancarono peraltro scontri sanguinosi, a Münster, mentre Adalberto arcivescovo di Magonza, legato papale per tutta la Germania, raccolse un esercito per muovere contro il re. Ma i molti che, all'interno dei due fronti, miravano a un accordo riuscirono a evitare lo scontro: fu nominato un gruppo di arbitri, scelti in parti uguali tra i due partiti, e una Dieta venne convocata a Würzburg per il 29 settembre: vi fu prescritta fra l'altro per tutta la Germania una pace generale sotto pena di morte; i beni usurpati furono restituiti alle parti cui spettavano; e per risolvere il problema della scomunica del re fu inviata al pontefice un'ambasceria, composta dal vescovo di Spira e dall'abate di Fulda, per pregarlo di riunire un concilio "dove lo Spirito Santo avrebbe deciso ciò che gli uomini non riuscivano a risolvere" (Eccheardo, ad an.1121, p. 258). L'ambasceria era inoltre latrice di proposte e assicurazioni concrete che miravano a congelare la situazione nell'attesa del concilio. Gli ambasciatori raggiunsero quasi certamente C. II nel corso del suo viaggio nell'Italia meridionale: il 19 febbraio il papa scrisse al re una lettera amichevole, inviandogli contemporaneamente il vescovo di Acqui, Azzo, consanguineo di entrambi, per approfondire i termini del compromesso (Jaffé-Loewenfeld, n. 6950). Poco dopo partirono per la Germania anche il cardinale vescovo di Ostia, Lamberto, Gregorio cardinale diacono di S. Angelo, e Sassone cardinale diacono di S. Stefano, evidentemente con l'incarico di partecipare, in qualità di legati papali, a una nuova Dieta prevista per il 29 giugno a Würzburg. Ma essa fallì per i gravi contrasti sorti nel frattempo intorno alla nomina del nuovo vescovo di questa città. Un concilio generale tedesco venne allora convocato a Magonza per l'8 settembre. In realtà esso si riunì a Worms, molto probabilmente su richiesta del re perché si trattava di una città a lui fedele. La trattativa fu lunga e serrata e, dopo una serie di momenti difficili, il 23 settembre fu raggiunto l'accordo: Enrico rinunciava all'investitura con l'anello e il pastorale e garantiva elezione canonica e libera consacrazione in tutte le chiese del Regno. Restituiva inoltre i beni e i "regalia beati Petri" che fossero in suo possesso, e in genere si impegnava a favorire la restituzione di tutti i beni ecclesiastici e laici usurpati nel corso della guerra. C. II da parte sua concedeva a Enrico che le elezioni dei vescovi e degli abati del Regno tedesco avvenissero alla sua presenza, esclusi ogni intervento simoniaco e ogni violenza, con l'impegno per il re di dare il suo appoggio, ove emergessero contrasti, alla "sanior pars", sentito il parere del metropolita e degli altri vescovi della provincia. Il re inoltre avrebbe investito l'eletto con lo scettro, ottenendo l'impegno di osservanza di quanto gli era dovuto. Nelle altre parti dell'Impero l'investitura sarebbe avvenuta entro sei mesi dalla consacrazione. Ogni intervento regio era escluso nelle parti dipendenti dalla Chiesa di Roma. Le dichiarazioni furono sottoscritte da Enrico e dai legati papali e successivamente il cardinale vescovo di Ostia reintegrò il re in seno alla Chiesa senza nessuna particolare cerimonia penitenziale. Una lettera di C. II del 13 dicembre manifestò il plauso del pontefice per la pace conclusa (ibid., n. 6995).
Il concordato di Worms sancì la linea di compromesso che si era venuta faticosamente preparando nei precedenti decenni: mantenere all'episcopato il suo ruolo nella vita politica e sociale, senza rinunciare del tutto a quell'autonomia dalle potestà temporali che era stata nei propositi di Gregorio VII. Il re manteneva integri per la Germania tutti i suoi strumenti d'azione, intervento e controllo nelle nomine vescovili, ma perdeva terreno nelle altre parti dell'Impero. Completamente svincolata dalla tutela imperiale risultava Roma, che diveniva così anche la maggior garanzia di un margine di autonomia vescovile: perché nel Papato i vescovi potevano trovare una precisa autorità alla quale appoggiarsi e riferirsi in concorrenza con quelle dei sovrani e dei principi. Veniva posto così il germe di futuri gravi contrasti e di gravi lacerazioni non solo tra la Chiesa e lo Stato, ma anche all'interno della stessa compagine ecclesiastica. Ma anche per questa via la riforma gregoriana si risolveva in un potenziamento del primato romano e in un'affermazione del suo ruolo decisivo nella vita della Chiesa occidentale.
Molto è stato discusso sulla portata degli accordi: e in particolare si è discusso se la concessione dell'investitura andasse riferita alla sola persona di Enrico, o si dovesse intendere come estesa anche ai suoi successori. Gli ambienti romani sostennero molto presto, fin dai tempi di Corrado III, la prima tesi. I termini dell'accordo sono in effetti, e forse volutamente, ambigui e generici; è difficile tuttavia pensare che nel momento della sua stipulazione non si pensasse di attribuirgli una portata generale. La concessione fa nominativamente riferimento ad Enrico V, allo stesso modo che il compromesso inglese concluso da Pasquale II fa riferimento ad Enrico I, nella speranza che la provvidenza attenui l'intransigenza del re. Si tratta cioè di un compromesso politico, non di un regime ottimale: un compromesso però unitario, che è difficile poter pensare di interpretare unilateralmente (concessioni una volta per tutte alla Chiesa di Roma, temporanee all'Impero). Con questi limiti e ambiguità direi che la sua portata generale è indubbia, come del resto Eccheardo chiaramente afferma, al di là delle ipocrisie e delle sottigliezze che si sono volute attribuire ai negoziatori ecclesiastici e che gli ambienti curiali sosterranno pochi decenni dopo.
L'ultimo grande atto del pontificato di C. II fu la celebrazione di un concilio generale, che si aprì al Laterano il 18 marzo 1123 e che sarà annoverato più tardi come primo concilio ecumenico celebrato in Occidente. Il suo primo annuncio lo si ha in una lettera del papa del giugno 1122 all'arcivescovo di Dol (ibid., n. 6977). La partecipazione dei vescovi fu certamente larga, anche se al solito le cifre dei cronisti lasciano dei dubbi: l'abate Sugero, che vi assistette, parla ragionevolmente di trecento vescovi. Gli atti del compromesso di Worms furono letti in pubblico, approvati solennemente e deposti negli archivi della Chiesa romana. Del concilio, a parte alcune notizie cronistiche, ci sono pervenuti i canoni disciplinari e di riforma che furono promulgati il 27 marzo. Sono canoni che da questo punto di vista non dicono molto di nuovo: accanto alle tradizionali condanne della simonia e del concubinato dei preti, accanto alle disposizioni a favore dei crociati e dei pellegrini e a sostegno della tregua di Dio, l'aspetto forse più interessante è costituito dallo sforzo di ristabilire su tutta la diocesi l'autorità del vescovo, cercando insieme di por fine a quelle situazioni di indisciplina e di scollamento verificatesi nel vivo della lotta per la riforma. Lo stesso cronista cassinese Pietro Diacono ci attesta del resto un'offensiva dei vescovi contro i privilegi monastici, solo in parte rintuzzata dal pontefice (pp. 802 s.). Numerosi sono i canoni che trattano di questi problemi di restaurazione (nn. 2, 4, 6, 8, 16), del resto chiaramente presenti alla Chiesa romana fin dai tempi di Urbano II: si trattò, com'è noto, di un'opera che non riuscì a intaccare peraltro l'autonomia monastica rafforzata anzi nei successivi decenni dal formarsi di alcuni grandi ordini esenti. Nel concilio furono prese anche disposizioni riguardanti alcune circoscrizioni ecclesiastiche, risolte controversie, e fu canonizzato Corrado, vescovo di Costanza, uscito dalla famiglia dei Guelfi di Baviera.
Landolfo di S. Paolo (cap. 43) racconta come testimone oculare di un sinodo romano di C. II: non sembra potersi trattare di questo, ma nient'altro si sa di un altro sinodo da lui riunito. Nell'ultimo periodo della sua vita C. II soggiornò quasi sempre a Roma, nello sforzo di affermare il suo potere sulle inquiete fazioni (la distruzione della torre di Cencio Frangipane potrebbe però far pensare a colleganze sue con i Pierleoni): solo un altro viaggio nell'Italia meridionale, negli ultimi mesi del 1123 anche per combattere alcuni vassalli ribelli, e alcune puntate in località vicine nei mesi successivi lo allontanarono temporaneamente dalla città. Morì a Roma il 13 0 il 14 dic. 1124.
I biografi lo ricordano anche per la costruzione, nel palazzo pontificio, della cappella di S. Nicolò, ornata di una serie di pitture destinate a esaltare se stesso e gli altri papi della lunga lotta per le investiture; accanto ad essa fece inoltre costruire due camere, una destinata a camera da letto, l'altra "pro secretis consiliis". In questa camera una serie di pitture celebrava il trionfo dei papi legittimi sugli antipapi e il testo del concordato di Worms vi era interamente riprodotto in lettere dipinte. Sono aspetti che attestano un'alta coscienza della propria opera e del proprio ruolo. Sono un indizio, anche, di atteggiamenti e posizioni da grande potentato secolare, quale il Papato, nel corso della lotta per le investiture, si era venuto chiaramente affermando.
Fonti e Bibl.: Per le lettere e i diplomi di C. II vedi Ph. Jaffé-S. Loewenfeld, Regesta pontificum Romanorum, I, Lipsiae 1885, pp. 780-821; U. Robert, Bullaire du pape Calixte II, I-II, Paris 1891. Le biogr. di C. II scritte da Pandolfo e Bosone in L. Duchesne, Le "Liber pontificalis", II, Paris 1889-92, pp. 322-326, 376-379. I principali passi delle varie cronache del tempo (Orderico Vitale, Historia Compostellana, Pietro di Monte Cassino, Annales Hildesheimenses, Eccheardo di Aura, Falcone di Benevento) che menzionano C. II sono in I. Watterich, Pontif. Roman. Vitae ab aequalibus conscriptae, II, Lipsiae 1862, pp. 115-53. La relatio dello scolastico Essone in Mon. Germ. hist., Libelli de lite, III, Hannoverae 1897, pp. 21-28. Nel testo Eccheardo è citato dall'edizione dei Mon. Germ. hist., Scriptores, VI, Hannoverae 1844, pp. 254-63; Pietro Diacono sempre dai Mon. Germ. hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, pp. 792-804, e Landolfo di San Paolo dai Rerum Italic. Scriptores, 2 ediz., V, 3, a cura di C. Castiglioni, p. 11. Gli atti del concilio lateranense in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo-P. P. Joannou-C. Leonardi-P. Prodi, Freiburgi 1962, pp. 163-170. Si veda, inoltre, U. Robert, Etudes sur les actes du pape Calixte II, Paris 1874; Id., Histoire du pape Calixte II, Paris 1891; M. Maurer, Pabst Callixt II, I, Vorgeschichte, München 1886; II, Pontificat, 1, ibid. 1889; G. Meyer von Knonau, Jahrbücher des deutschen Reiches unter Heinrich IV. und Heinrich V., VII, Leipzig 1909, passim.In particolare, per il concordato di Worms si veda, nella vastissima letteratura, E. Bernheim, Zur Geschichte des Wormser Concordates, Göttingen 1878; D. Schäfer, Zur Beurteilung des Wormser Konkordats, in Abhandl. der K. preuss. Akad. d. Wissensch., Phil.-hist. Classe, Berlin 1905 (estr.); E. Bernheim, Das Wormser Konkordat und seine Vorurkunden…, Breslau 1906; H. Rudorff, Zur Erklärung des Wormser Konkordats, in Quellen und Studien zur Verfassungsgeschichte des deutschen Reiches, I(1906), n. 4; A. Hofmeister, Das Wormser Konkordat, in Festschrift für D. Schäfer, Jena 19,5, pp. 64-148. Per i rapporti di C. II con i monasteri vedi G. Ender, Die Stellung des Papstes C. II zu den Klöstern, Diss., Greifswald 1903; per i rapporti tra C. II e Norberto, G. G. Meerssemann, Eremitismo e predicazione itinerante dei secoli XI e XII, in L'eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Milano 1965, pp. 177 ss. Per altri riferim. bibl. al conc. later. del 1123, l'ed. cit. dei Conciliorum oecumen. decreta, p. 165. Si v. inoltre: S. A. Chodorow, Eccles. Politics and the Ending of the Investiture Contest…, in Speculum, XLVI (1971), pp. 613-640; L. Pellegrini (Mario da Bergamo), Cardinali e curia sotto C. II, in Racc. di studi in mem. di S. Mochi Onory, II, Milano 1972, pp. 507-549.