BONIFACIO V, papa
Originario di Napoli, figlio di un Giovanni, fu consacrato papa, dopo oltre un anno di vacanza della Sede apostolica, il 23 dic. 619, succedendo a papa Deusdedit (Adeodato I), sepolto in S. Pietro l'8 nov. 618.
Le ragioni di una così lunga vacanza sono senza dubbio da ricercare nella gravissima crisi che sconvolgeva allora l'Impero bizantino, attaccato, a sud, dai Persiani, i quali, impadronitisi della Siria, della Palestina e dell'Egitto, erano giunti dinnanzi a Costantinopoli che, attestatisi in Calcedonia, minacciavano direttamente; e a nord, dagli Avari, i quali, dopo essere stati sul punto di far prigioniero lo stesso imperatore, lo avevano inseguito fin nei sobborghi della capitale. Risulta chiaro che un siffatto complesso di circostanze e i continui spostamenti di sede, ai quali veniva costretto Eraclio per seguire l'andamento delle operazioni militari, non poterono se non influire negativamente sulla tempestività della conferma imperiale degli atti elettorali - pregiudiziale alla consacrazione del nuovo pontefice -, sempre subordinata, anche in tempi normali, alla difficoltà delle comunicazioni tra Roma e Bisanzio.
Tra la morte di papa Deusdedit e l'autunno inoltrato del 619 è da mettere il fallito colpo tentato da Eleuterio (la notizia del fatto giunse a Roma, come si fa premura di precisare l'anonimo biografo di B., "ante dies ordinationis eius", prima del 23 dicembre). A Ravenna era scoppiata una nuova rivolta tra i soldati di quella guarnigione: lo stesso esarca d'Italia, Eleuterio, si era posto alla testa del pronunciamento e, fattosi acclamare imperatore sfruttando con abilità il malcontento dei militari ed i risentimenti della popolazione civile, aveva iniziato una marcia su Roma, perché appunto nella città eterna intendeva assumere ufficialmente la corona. L'esercito venne disfatto nell'angusta gola dell'Appennino umbro, che sale al passo della Scheggia e di là scende verso Gualdo Tadino, dalle truppe del presidio del vicino castrum Luceoli (presso l'odierna Cantiano), poste a difesa del valico e fedeli all'imperatore.
L'aspetto rilevante dell'episodio non sta tanto nell'aver Eleuterio inteso dare all'Italia un impero a sé stante, di rango pari all'Impero bizantino ed a questo contrapposto, quanto nell'aver egli cercato la sanzione legale dell'atto rivoluzionario non a Ravenna - come avevano fatto gli ultimi imperatori in Occidente - ma a Roma, dove intendeva infatti prendere la corona, perché li "Imperii solium manet". Era il suggerimento datogli dal patriarca di Ravenna, Giovanni (IV), quando Eleuterio gli si era rivolto per ricevere dalle sue mani la consacrazione imperiale. È ovvio che il presule con il suo consiglio mirava essenzialmente a sottrarsi ad una responsabilità grave e pericolosa; ma esso rivelava anche la piena coscienza di ciò che rappresentava Roma, prima sede e culla dell'Impero, ed è inoltre sicura testimonianza, per quell'epoca, dell'esistenza di un Senato, cui si attribuiva tuttavia la prerogativa di essere il depositario del potere sovrano e la capacità giuridica di convalidare l'elezione di un nuovo imperatore. Perché solo al Senato di Roma - non al papa, che, oltre tutto, non era stato ancora consacrato - potevano aver pensato tanto Giovanni che Eleuterio: essi non potevano ignorare che l'incoronazione da parte di un vescovo - fosse anche quello di Ravenna o quello di Roma - non avrebbe avuto, perché del tutto estranea alle tradizioni costituzionali dell'Impero, la capacità giuridica di legittimare un'usurpazione.
Il fallimento dell'impresa di Eleuterio, concludendo il periodo di torbidi iniziatosi nel 616, segnò anche l'inizio di un ventennio di pace nell'Italia bizantina. Anche il breve pontificato - poco meno di sei anni - di B. V non fu caratterizzato da avvenimenti di un certo rilievo. Notevole importanza per la vita interna della città di Roma ebbero tuttavia alcune disposizioni da lui prese - una relativa all'attività dei notari ecclesiastici l'altra riguardante il diritto di asilo, la terza e la quarta sulle attribuzioni degli accoliti -, disposizioni di cui abbiamo notizia solo attraverso il Liber pontificalis e che potrebbero essere, secondo un'ipotesi del Duchesne, i decreti di un sinodo diocesano. Il divieto di strappare da una chiesa chi, per qualsiasi motivo, vi avesse cercato rifugio confermò solennemente l'antico privilegio, riconosciuto anche dallo Stato, del diritto di asilo che contribuiva efficacemente a rafforzare l'autorità episcopale nei confronti dei pubblici poteri. Il decreto relativo alla validità, come documento ufficiale, dei testamenti rogati secondo le vigenti leggi imperiali dai notari della Chiesa romana provava l'importanza dell'opera svolta da questi ultimi in concorrenza coi notari laici. L'esclusione degli accoliti dal servizio religioso presso le sante reliquie dei martiri, ed il divieto fatto loro di sostituire i diaconi ed i suddiaconi nella soniministrazione del battesimo, testimoniano, inoltre, da un lato il progressivo sviluppo del culto dei martiri, dall'altro l'incremento dei pellegrinaggi che, per visitare le memorie apostoliche ed i luoghi santi della Chiesa primitiva, e riportarne sacri ricordi, affluivano da ogni parte di Roma.
Per comprendere esattamente il significato di questi ultimi due provvedimenti bisogna ricordare che, a quell'epoca, i chierici dei quattro ordini minori - ostiarii,esorcisti,lettori ed accoliti - erano dei fanciulli o degli adolescenti riuniti nella Schola cantorum sotto la guida di un sovraintendente ecclesiastico. Affidando ai presbiteri, cui era delegato il servizio religioso nei luoghi santi della città, anche la distribuzione degli oggetti-ricordo, B. V aveva senza dubbio inteso aumentare l'importanza di questi ultimi agli occhi dei pellegrini; così come aveva inteso sottolineare l'importanza del sacramento riserbando la celebrazione del rito del battesimo a chierici forniti degli ordini maggiori, suddiaconi e diaconi.
Cure particolari rivolse B. V al cimitero extramuraneo di S. Nicomede, sito in località anticamente denominata hortus Iusti nei pressi del Castro Pretorio, sulla via Nomentana, a poca distanza dalla omonima porta urbica (ora sostituita dalla Porta Pia). Il pontefice vi fece eseguire un organico piano di riattamento e di restauro, e, al termine dei lavori, il 1º giugno di un anno imprecisato, celebrò una solenne funzione di dedicazione della contigua basilica di S. Nicomede, da lui fatta costruire (e da non confondere con il titulus Nicomedis, antica parrocchia all'interno delle mura cittadine).
Nel 1864 G. B. De Rossi scopriva parte delle rovine di questo santuario cristiano: le gallerie sotterranee del cimitero, la scalinata che portava ai piani inferiori e, proprio di fronte a quest'ultima, a livello del piano di campagna, le fondamenta di una piccola basilica absidata, la chiesa fatta erigere appunto da Bonifacio V.
Se nei rapporti con il clero secolare si informò all'indirizzo seguito dal suo predecessore, il cui pontificato, per reazione alle tendenze gregoriane prevalenti sotto Bonifacio III e Bonifacio IV, aveva segnato una ripresa degli interessi di quel clero, per altri versi B. V si attenne alle tradizioni missionarie e caritative che erano state caratteristiche del ministero apostolico del grande Gregorio I. Così il suo anonimo biografo sottolinea, come degna di particolare lode, la paterna sollecitudine nei confronti del clero secolare dimostrata da B. V e, come specialmente meritorio, il fatto che egli "roga integra clero suo dedit" - il che lascerebbe intendere che sin'allora i predecessori di B. V avevano avuto l'abitudine di trattenere una percentuale sulle rendite ecclesiastiche. Ma da altre fonti siamo informati che B. V appoggiò efficacemente l'opera missionaria svolta dagli ordini monastici tra gli Angli e i Sassoni, e quando, nel 624, la sede metropolitica di Canterbury rimase vacante, egli ne conferì il pallio a Giusto di Rochester, un vescovo tratto, come i suoi predecessori, dalle file dei monaci inviati nell'isola da Gregorio I. Ed anche nell'intensa attività assistenziale da lui svolta, come nella larghezza con cui provvide organicamente ad alleviare l'indigenza degli strati più umili della popolazione e a promuoverne il miglioramento, è da vedere non tanto i benefici effetti che aveva avuto sul rendimento dei patrimoni ecclesiastici la tregua tra Bizantini e Longobardi, ma soprattutto l'intima fedeltà di B. V agli ideali e alle tradizioni gregoriane.
Il 23 ott. 625 la morte troncò improvvisamente l'opera appena iniziata di questo pontefice; due giorni dopo, le spoglie mortali di colui che il Liber pontificalis definisce, parafrasando le parole ispirate del salinista, "beatissimus Bonifatius, mitissimus super omnes et misericors" venivano tumulate nella basilica di S. Pietro.
Di B. V ci sono pervenute cinque lettere Th. Jaffé-S. Loewenfeld, Regesta pontificum romanorum, I, Graz 1956, pp. 222 s., nn. 2005-2009): tre indirizzate a Giusto di Rochester, poi arcivescovo di Canterbury; una ad Edwin, re di Northumbria, una alla sposa di questo sovrano, la regina Etelberga. Queste due lettere, che Beda afferma essere opera di B. V, potrebbero essere invece, secondo alcuni studiosi, del suo successore Onorio I.
Appunto negli anni del pontificato di B. V - ma non conosciamo ancora i termini cronologici esatti del provvedimento - Eraclio abrogò formalmente la procedura che subordinava il rito della consacrazione di ogni nuovo papa alla conferma personale, da parte dell'imperatore, degli atti elettorali, e deferì all'esarca d'Italia la facoltà di provvedere alla loro ratifica, in modo che poche settimane - o pochi giorni soltanto, se l'esarca fosse stato a Roma - bastassero a rendere possibile la consacrazione dell'eletto pontefice. Ignoriamo quale parte abbia avuto B. V in questa importante decisione. Certo è che l'imperatore vi dovette essere stato indotto non solo dal fatto che l'antica procedura presentava l'inconveniente assai grave di lasciar troppo spesso e in momenti talora delicati scoperta la massima sede episcopale del mondo cristiano (nei quindici anni compresi tra la morte di Gregorio I, nel marzo 604, e la consacrazione di B. V, la Sede apostolica era rimasta vacante ben quattro volte, ed ogni volta per un periodo di tempo assai lungo, che andava da un minimo di sei a un massimo di tredici mesi); ma soprattutto dalla dura esperienza maturata nelle campagne contro i Persiani, che lo aveva obbligato a lunghe assenze dalla capitale ed a spostamenti continui, in rapporto con l'andamento delle operazioni militari, del suo quartier generale. La nuova procedura, pur eliminando i ritardi imputabili alla prassi precedente, non eliminava tuttavia quelli che potevano derivare dalla volontà dell'esarca; essa troncava, inoltre, un altro degli intimi legami che univano Roma a Costantinopoli in una materia tanto delicata ed essenziale, accelerando in tal modo quel processo, che avrebbe in breve portato i territori italiani di dominio bizantino a configurarsi come un organismo politico a sé stante, con caratteri e problemi propri, nettamente separato dal resto dell'Impero.
Fonti e Bibl.: Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, 1866, LXXI. Bonifatius, n. 118, pp. 321 s.; Bonifatii V papae Epistolae et decreta, in Migne, Patr. lat., LXXX, coll. 429-440; Bedae Historia ecclesiastica gentis Anglorum, II, 8, 10-11, ibid., XCV, coll.93 s., 96-100; F. Cabrol, L'Angleterre chrétienne avant les Normands, Paris 1900, pp. 53-70, 93-107 passim; W. Hunt, A history of the English Church from its foundation to the Norman conquest (597-1066), London 1901, pp. 49 s., 56 ss.; L. Duchesne, L'Eglise au VIe siècle, Paris 1925, pp. 607-611; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna s.d. [ma 1941], pp. 300-307.