ADRIANO I, papa
D'illustre famiglia dell'aristocrazia militare di Roma, orfano in tenera età del padre Teodoro e perduta poi anche la madre, fu accolto ed allevato dallo zio paterno Teodoto, il quale, dopo aver ricoperto la carica di console e duca, era entrato negli uffici dell'amministrazione pontificia raggiungendovi, durante il pontificato di Stefano II (752-757), l'alta carica di primiceno dei notai. A., presa la tonsura chiericale al tempo di Paolo I (757-767), da questo papa fu nominato notaio regionario e ordinato suddiacono; da Stefano III (768-772) ricevette l'ordinazione a diacono.
La sua elezione a pontefice (A. fu consacrato il 9 febbr. 772) segnò la riscossa degli avversari della fazione filolongobarda capeggiata da Paolo Afiarta, inaspriti dalla tragica fine del capo della loro fazione Cristoforo, dal mistero che circondava la scomparsa di suo figlio, Sergio, e dagli arresti e bandi che avevano colpito quanti dei maggiorenti della Chiesa e dell'aristocrazia militare Paolo Afiarta sospettava suoi nemici. A., che al momento stesso dell'elezione aveva fatto mettere in libertà gli arrestati e richiamare i banditi, procuratasi la necessaria libertà d'azione, allontanando da Roma Paolo Afiarta col pretesto di una missione presso Desiderio, condusse personalmente l'inchiesta. Da questa risultò che Sergio era stato trucidato per mano di due sicari; A. deferì allora gli autori materiali del delitto ed un "cubicularius" del Palazzo Lateranense, il quale aveva servito da tramite fra loro e Paolo Afiarta, al giudizio del "praefectus urbi", e ordinò all'arcivescovo di Ravenna, Leone, di far arrestare Paolo Afiarta quando, di ritorno da Pavia, fosse passato per Ravenna o per Rimini. La sentenza di esilio, da espiare a Costantinopoli, pronunciata contro i due sicari (il "cubicularius" era morto in seguito ai tormenti subiti durante il processo), dimostra che Roma, pur dopo la cessazione di fatto del dominio bizantino, riconosceva ancora di essere sotto la sovranità dell'impero. Lo stesso pensava A. per Ravenna, poiché non appena seppe che Paolo Afiarta era stato effettivamente tratto in arresto a Rimini, incaricò l'arcivescovo Leone di provvedere all'inoltro di una lettera, con cui il papa informava gli imperatori Costantino V e Leone IV delle circostanze del delitto e li pregava di ordinare la traduzione ed il confino in Grecia del prigioniero. Se non se ne fece nulla dipese dalla cattiva volontà di Leone. L'arcivescovo, invece di eseguire l'incarico e di obbedire agli ordini successivamente mandatigli da A., prima di occuparsi dell'imbarco del prigioniero per Bisanzio, poi di consegnarlo ad un suo inviato, il quale lo avrebbe condotto con sé a Roma, si era preso l'arbitrio di deferire Paolo Afiarta al giudizio del magistrato in Ravenna competente per la giurisdizione criminale, ed a questo aveva forzato la mano, inducendolo a mettere a morte l'imputato. La condotta di Leone, se era indizio preoccupante dei vivi sentimenti locali d'autonomismo e d'avversione a Roma, liberò tuttavia di un pericoloso personaggio A., evitandogli di trovarsi direttamente coinvolto nella sua soppressione, come lo era stato Stefano III nei casi di Cristoforo e di Sergio. La disfatta definitiva della fazione asservita a Desiderio nel seno stesso del patriarchio lateranense assicurava un esito felice all'opera da A. accortamente intrapresa per ristabilire in Roma l'autorità temporale dei papi, che i drammatici avvenimenti seguiti alla morte di Paolo I, con il colpo di mano di Totone e dei suoi fratelli, avevano gravemente scosso.
Era tempo, perché proprio allora entravano in una fase critica le relazioni con Desiderio, per l'ambizioso piano concepito dal re longobardo di opporre all'opera unificatrice di Carlomagno in Francia l'autorità del vicario di S. Pietro, costringendo il papa ad ungere re gli orfani di Carlomanno, il che gli avrebbe inoltre permesso, creando difficoltà tra A. e Carlomagno, di avere più agevole la via alla totale conquista degli ultimi domini dell'impero nella penisola italiana. Sin dai primi inizi del pontificato del nuovo papa, Desiderio si era provato ad ottenere che egli acconsentisse a stipulare con lui un patto d'amicizia. A., nella risposta data agli ambasciatori che gli avevano portato la richiesta, aveva subordinato i relativi negoziati all'integrale, effettiva cessione dei territori, oggetto degli impegni assunti nel 757 dal re longobardo con Stefano II, che non erano stati ancora consegnati alla Chiesa di Roma. Quando, alle reiterate insistenze in sede diplomatica, Desiderio aggiunse un'azione di violenze intimidatrici, facendo invadere l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli e spingere nello stesso territorio romano razzie, una delle quali desolò Bieda nell'estate del 772, il papa fronteggiò con grande fermezza l'aggravarsi della situazione. Si dichiarava pronto ad incontrarsi col re in qualunque luogo avesse preferito, esigeva però che prima Desiderio sgombrasse i territori allora occupati e consegnasse tutti quelli promessi a Stefano II. E quando la minaccia del re di portare le sue armi contro Roma, se il papa non si fosse recato da lui e non avesse unto re i figli di Carlomanno, rese evidente l'impossibilità di un accordo pacifico, A. cominciò a prendere le misure necessarie per mettere la città in condizione di difendersi.
A. si era sino allora preoccupato soprattutto di mantenere il conflitto nell'ambito dei rapporti con Desiderio. Probabilmente ancora incerto nella valutazione degli sviluppi della situazione interna in Francia, A. si proponeva di evitare sino all'estremo un appello a Carlomagno, che necessariamente implicava il riconoscimento di quanto egli aveva operato in danno dei nipoti. Soltanto nel febbraio o al principio del marzo 773 un inviato giunto in Francia via mare consegnò a Carlomagno, mentre svernava a Thionville, la lettera con cui A. invocava il soccorso del "re dei Franchi e patrizio dei Romani". Il papa vi si era deciso proprio stretto alla gola dall'incalzare degli avvenimenti, "necessitate compulsus" scrive il suo biografo. Nell'attesa, alla notizia che Desiderio e Adelchi, nella primavera del 773, si erano mossi da Pavia alla volta di Roma, alla testa dell'esercito, e portando con loro la vedova ed i figli di Carlomanno, A. provvide a preparare la resistenza ad oltranza facendo affluire nella città tutte le truppe dei ducati di Perugia e di Roma, ingrossate da reparti provenienti dalla Pentapoli e mise al sicuro in Roma i tesori delle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. Ma Desiderio, preoccupato dell'imminente intervento franco, ed anche delle minacce di anatema lanciategli dal papa, dopo esser giunto nelle vicinanze del confine, ricondusse il suo esercito alla guardia dei valichi alpini.
A. seppe allora cogliere con sagace tempestività la fase durante la quale Desiderio lottava in difesa del suo stesso trono, e Carlomagno non glielo aveva ancora strappato, per mettere il re franco di fronte al fatto compiuto di una situazione politica nell'Italia centrale, che consentisse alla Chiesa di Roma di trattare nelle migliori condizioni quando, finita la guerra, si sarebbe deciso del nuovo assetto generale della penisola italiana. Ripresa la via accennata da Gregorio III e percorsa da Stefano II, A. raccolse i primi frutti già dal momento in cui Desiderio indisse la mobilitazione generale per affrontare i Franchi. Diversi maggiorenti di Spoleto e di Rieti, tra i quali lo spoletino Ildeprando, invece di obbedire al loro sovrano, cercarono asilo in Roma e vi giurarono fedeltà a S. Pietro ed ai suoi vicari. Ugual giuramento prestarono i rappresentanti di tutti i ceti della popolazione del ducato di Spoleto convenuti a Roma nel settembre 773, quando Carlomagno aveva appena iniziato l'assedio di Pavia, e chiesero ed ottennero il consenso del papa per eleggersi duca Ildeprando. L'esempio fu seguito dai Longobardi di Castellum Felicitatis (Città di Castello), di Fermo, di Osimo e di Ancona. Al principio del 774 A. poteva ritenere d'esser riuscito ad estendere a gran parte dell'Italia centrale la sfera d'influenza politica del papato, assicurando più ampio respiro alle difese dei ducati di Roma e di Perugia, e delle loro comunicazioni con la Pentapoli e con Ravenna. Il giuramento da lui imposto ai Longobardi che gli avevano fatto atto di sottomissione era di fedeltà a S. Pietro ed ai suoi vicari soltanto, mentre di fedeltà anche a Pipino era stato quello richiesto da Stefano II nel 757. A. si proponeva dunque di dare a tali riconoscimenti del governo temporale dei papi il carattere di una validità indipendente da un consenso o da una compartecipazione, comunque, di Carlomagno. Il quale, tuttavia, ormai ben risoluto ad una vera guerra di conquista, voleva che tutto il problema della successione nei domini dei re longobardi fosse oggetto di accordi bilaterali, discussi insieme col papa in un convegno personale. Trattative per prepararlo probabilmente vi furono, ma il re franco non attese che esse avessero portato a precise intese preliminari: ad A. giunse inaspettata e sconcertante la notizia che Carlomagno, lasciata sotto Pavia una parte dell'esercito, stava attraversando la Tuscia di gran fretta per arrivare a Roma il 2 aprile, vigilia di Pasqua, con notevoli forze e largo seguito di grandi ecclesiastici e laici.
La prima visita ed il primo convegno a Roma di un sovrano franco con un papa fu evento memorando, e perché senza precedenti, ed ancor più perché il momento era di singolare importanza. S'impegnò allora fra A. e Carlomagno una partita politica, che in quella fase iniziale parve volgersi a favore del papa. Il 6 apr. 774, infatti, nella basilica di S. Pietro, presenti gli alti ecclesiastici, dignitari e funzionari della Chiesa, i capi dell'aristocrazia militare romana, i grandi ecclesiastici e laici franchi, Carlomagno rilasciò solennemente la sua promissio donationis, tanto discussa dagli studiosi.
Con essa concedeva a S. Pietro, e s'impegnava a far consegnare a A., le Venezie, l'Istria, l'intero Esarcato di Ravenna nella sua antica estensione, con la Pentapoli, i ducati di Spoleto e di Benevento, la Corsica, i territori di dominio longobardo a sud di una linea che da Luni, sul litorale tirrenico alle foci della Magra, per Filattiera, la Cisa, Berceto, Parma, Reggio Emilia e Mantova, raggiungeva a Monselice, sul versante adriatico, la zona di confine con la Venezia bizantina e con l'Esarcato. Una contropartita indubbiamente v'era, e di natura da offrire al suo beneficiano quanto bastava per neutralizzare a suo tempo, così da renderle inoperanti, le clausole della promissio. Consisteva, per ciò che riguardava la Francia, nel riconoscimento dato dal papa all'unione dei domini di Carlomanno con quelli di Carlomagno; per ciò che riguardava l'Italia, nel consenso che il re franco, vinto Desiderio, assumesse anche il titolo ed i poteri di "rex Langobardorum".
Nel secondo convegno avuto con Carlomagno a Roma nel 781, A., se il sabato santo (14 aprile) ne battezzò il figlio Carlomanno, che prese allora lo stesso nome dell'avo, Pipino, e lo unse re in Italia, e unse re d'Aquitania l'altro figlio Ludovico (il futuro Ludovico il Pio), dovette però accettare che la clausola della promissio concernente l'intero ducato di Spoleto fosse sostituita da un nuovo particolare scriptum donationis, limitato ai soli beni fondiari sui quali la Chiesa di Roma avesse diritti di proprietà nel sottile lembo della Sabina spoletina, fra il Tevere e il territorio di Rieti. Il papa non poté impedire che nell'intero ducato, compreso il territorio di Fermo, fosse riconosciuta la soggezione, anziché a S. Pietro ed ai suoi vicari giusta il giuramento del 773, a Carlomagno nella sua qualità di "rex Langobardorum". Del principato (già ducato) di Benevento decise il terzo convegno, avvenuto a Roma nei primi mesi del 787. A. dovette accontentarsi di una nuova donatio, che prevedeva la cessione al governo temporale dei papi solo della zona perifenica settentrionale del principato, con Sora, Arce, Arpino (fin qui semplice reintegrazione del ducato di Roma nello status quo ante il 702, data alla quale le tre città gli erano state tolte dal duca Gisulfo I), Aquino, Capua e Teano. Ma la donatio non fu mai tradotta in realtà concreta, e il principato di Benevento rimase infatti intatto da una qualunque fosse pure piccola mutilazione a vantaggio della Chiesa di Roma. Anche della Tuscia longobarda fu decisa la sorte nel terzo convegno di Roma, e anche per essa con danno del papa. Posta a sud della linea Luni-Monselice rientrava fra le regioni contemplate nella promissio del 774. Nel 787 si parlò di cessione soltanto della sua parte meridionale, con Populonia, Roselle, Sovana, Bagnoregio, Viterbo e Tuscania; per il resto, ferma rimanendovi la sovranità di Carlomagno, sarebbero passati all'amministrazione pontificia solo i cespiti qui annualmente percepiti dal fisco regio. In merito Carlomagno rilasciò una donatio, e A. contraccambiò con un praeceptum di ratifica. Allora e negli stessi atti, o già nel convegno del 781 e negli atti relativi, anche per il ducato di Spoleto fu stabilito, con le stesse formalità e con la stessa riserva della sovranità, il versamento all'amministrazione pontificia dei cespiti fino allora percepiti dal fisco regio. Se si aggiunge che A. non riuscì a farsi consegnare Populonia e Roselle, e che la promissio del 774 rimase lettera morta anche per la Corsica, le Venezie, l'Istria e per la zona a sud di Monselice, appare evidente lo scacco subito dal papa rispetto all'impostazione da lui data alla sua politica territoriale nel primo convegno con Carlomagno.
L'area geografica sotto il reggimento temporale dei papi rimaneva quella sulla quale già trent'anni prima Stefano II aveva cercato di affermarlo, ampliata soltanto con l'acquisto di Tuscania, Viterbo, Bagnoregio e Sovana nel lembo meridionale della Tuscia longobarda. Vi si distinguevano due principali complessi territoriali, differenziati dalle circostanze che vi avevano segnato il passaggio alla "potestas" temporale dei vicari di S. Pietro dalla "potestas" dei sovrani che in precedenza ne avevano avuto il dominio diretto: i ducati di Roma e di Perugia, dove gli imperatori avevano perduto l'esercizio effettivo della sovranità per il naturale e graduale maturarsi di una situazione interna di fatto, che non era stato interrotto da interventi dall'esterno e che le popolazioni e le autorità civili e militari locali avevano accettato, onde né Stefano II da Pipino né A. da Carlomagno avevano dovuto sollecitare un qualunque atto di donazione; l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli, dove i ripetuti interventi di Liutprando, di Astolfo e di Desiderio da parte longobarda, di Pipino e di Carlomagno da parte franca, avevano reso inevitabile che il passaggio alla "potestas" temporale dei papi fosse legato da Stefano II alla sanzione del vincitore di Astolfo, e da A. a quella di Carlomagno, non solo vincitore, ma addirittura successore di Desiderio come "rex Langobardorum". A maggior ragione la stessa necessità si era imposta per l'orlo meridionale di quella Tuscia, che dal tempo di Agilulfo era sempre rimasta sotto la diretta sovranità dei re di Pavia.
Non era derivata al governo temporale dei papi, dal modo come si era venuto configurando, una latitudine di poteri tali da conferire all'area geografica, dentro cui venivano esercitati, il carattere di un vero Stato, cioè di uno Stato della Chiesa a sovranità piena e indipendente da altra sovranità. Non a questo aveva mirato Stefano II, che in nome di S. Pietro e dell'autorità pastorale trasmessa da S. Pietro ai suoi successori, si era proposto soltanto l'acquisizione di un'autonomia politico-amministrativa adeguata ad assicurare alla Chiesa di Roma una più efficace difesa dell'ortodossia cattolica dall'eterodossia bizantina, e dell'indipendenza politica, minacciata dalla conquista longobarda. Nello stesso ordine di idee si mosse Adriano.
Il passo, assai discusso dagli studiosi, di una sua lettera a Carlomagno del maggio 778, che tra le munifiche elargizioni di Costantino Magno alla Chiesa di Roma al tempo di Silvestro I precisa quella della "potestas in his Hesperiae partibus", ha valore semplicemente di richiamo ad un fatto del remoto passato, come stimolo ad un maggior zelo del re franco nel procurare la restituzione integrale di tutti i beni patrimoniali tolti alla Chiesa di Roma dai Longobardi; non intende prospettarlo come capace di dare fondamento giuridico a rivendicazioni di sovranità.
Per Roma e per il suo ducato, per i ducati di Perugia e della Pentapoli, per l'Esarcato di Ravenna, si può considerare definitivo con A., ed a cominciare dal 774, il distacco dal nesso statale dell'impero. Si espresse a Roma anche con l'emissione di monete recanti l'effigie ed il nome del papa anziché del sovrano di Bisanzio, e con la sostituzione negli atti (a partire dal 781) degli anni di pontificato a quelli di regno degli imperatori. Si accompagnò tuttavia, nella realtà, con l'ingresso nell'ambito della sovranità di Carlomagno, ingresso peraltro avvenuto in forme e modi così peculiari da conferire ai rapporti di subordinazione, derivatine verso la persona del re franco, un carattere ben diverso da quello dei rapporti di dipendenza che le vincolavano il regno dei Longobardi e il ducato di Baviera.
Erano rapporti derivanti dalla dignità di "patricius Romanorum", che era della tradizione non franca, ma imperiale. Il fatto di esserne insignito, di potersi quindi considerare, in certo qual modo, subentrato nelle funzioni degli esarchi d'Italia, offerse a Carlomagno motivo per attribuirsi poteri effettivi di alta vigilanza sul governo temporale della Chiesa di Roma nei territori rimasti, sino alla metà del sec. VIII, dominio, sia pure nominale, dell'impero, mentre sul resto, dominio antico od occupazione recente dei re di Pavia, il re franco poteva vantare diritti di successione nei loro stessi diritti di alta sovranità. A. non disconobbe mai il fondamento che l'agire di Carlomagno poteva trovare nel fatto d'essere patrizio; ammise l'esercizio della sua "regalis tuitio" sui territori della Chiesa; gli contrappose, è vero, una volta il "patriziato", e cioè la "potestas" anche temporale, di S. Pietro sull'Esarcato di Ravenna e sulla Pentapoli per sollecitarne l'integrale rispetto: ma anche allora riconobbe esplicitamente che tale "patriziato" del principe degli Apostoli derivava dalle donazioni di Pipino e di Carlomagno. Non si provò ad affermarne una diretta origine da una autorità superiore tale da trascendere quella terrena dei re franchi.
In sostanza, nel campo politico, A., dopo un primo effimero momento, dovette subire, volente o nolente, le iniziative di Carlomagno. Ne accolse anche la richiesta di avere l'appoggio dell'autorità apostolica contro Tassilone III. Se ne parlò in entrambi i convegni del 781 e del 787. Nell'occasione del secondo, il papa non esitò a minacciare d'anatema il duca ed i suoi, e a dichiarare che se la disobbedienza ai suoi moniti avesse provocato la guerra, egli avrebbe proclamato Carlomagno ed i Franchi esenti da ogni colpa per le rovine e le stragi che ne avrebbe sofferto la Baviera. È vero che qui gli interessi politici di A. e dei Franchi coincidevano, perché Tassilone III era cognato di Adelchi e di Arechi, i due capi preconizzati della riscossa longobarda. Ma non è men vero che dall'atteggiamento del papa in una questione che stava tanto a cuore del re, questi trasse vantaggi ben più concreti di quanto A. aveva ottenuto da lui per un problema vitale nei riguardi del papato e di Roma, qual era il nuovo assetto territoriale e politico amministrativo della penisola italiana.
Anche nell'ambito dei problemi ecclesiastici e religiosi si ha l'impressione che A. si sia lasciato talora condurre, in un certo senso, a rimorchio, consentendo a Carlomagno di dare all'assolvimento dei suoi compiti di "defensor Ecclesiae" una latitudine tale da attribuirsi l'ufficio addirittura di "rector Ecclesiae". Il re franco s 'ingerì in questioni che toccavano direttamente i costumi morali anche dei sacerdoti romani e le stesse consacrazioni impartite dal papa. Per queste ultime A. dovette mettere bene in chiaro i particolari delle norme canoniche in materia, allo scopo di dimostrare che bastava la loro rigorosa osservanza - ed il papa assicurava di averlo sempre fatto - ad escludere ogni possibilità di consacrazione viziata da precedenti simoniaci. Non che egli abbia mancato di affermare l'autorità apostolica. Sollecitò il re a vietare che i vescovi ed i presbiteri del suo seguito andassero armati, e ad esigere che nel regno longobardo fossero rispettate le norme canoniche, in materia di giurisdizioni episcopali, e le regole monastiche, perché avessero termine le continue controversie tra quei vescovi sui confini delle rispettive diocesi e i casi così numerosi di abbandono dell'abito religioso, seguiti perfino da illeciti matrimoni, e per questi casi chiese che i colpevoli fossero mandati a Roma per esservi giudicati e puniti da lui. Ma anche sui punti più delicati, il linguaggio delle sue lettere a Carlomagno mantiene, di norma, toni di grande pacatezza, di innegabile dignità, senza varcare i limiti di una polemica implicita od appena accennata.
L'iniziativa di ristabilire rapporti diretti con la Chiesa spagnola, ancora tenacemente attaccata alle tradizioni dell'autonomia goduta, sotto la guida del metropolita di Toledo, quando era la Chiesa nazionale di Stato del regno visigoto, ebbe l'appoggio di A., ma partì da Carlomagno. Egila, il vescovo recatosi nella penisola iberica per promuovervi una riforma ecclesiastica generale, ricevette la consacrazione episcopale non a Roma dalle mani del papa, come Bonifacio, ma in Francia, dall'arcivescovo di Sens, Wilchario, previo però il consenso di Adriano. L'adozionismo spagnolo fu condannato da A. in una lettera indirizzata a quell'episcopato: ma da Carlomagno e dagli ecclesiastici raccolti intorno a lui a Ratisbona, nei primi mesi del 792, Felice, vescovo di Urgel, terra occupata dai Franchi, il quale aveva aderito all'eresia, fu costretto a riconoscere l'errore, e solo in un secondo tempo il re provvide a farlo condurre a Roma, perché il papa procedesse a sua volta contro di lui. A Carlomagno ed ai vescovi di Francia indirizzò l'episcopato spagnolo le lettere in cui chiedeva la reintegrazione di Felice nella sua sede e difendeva l'adozionismo. Non A. ed i suoi consiglieri, ma Carlomagno e gli uomini d'insigne dottrina e di acceso zelo religioso, - Franchi, Visigoti, Longobardi, Anglo-Sassoni - che egli aveva adunati alla sua corte, divenivano così il centro della disputa per l'adozionismo spagnolo, mentre stavano per porsi al centro anche della disputa per l'iconoclastia degli Orientali.
A. pareva risoluto ad agire di sua esclusiva iniziativa, quando, in data 26 ott. 785, rispose al messaggio in data 29 ag. 784, col quale Irene e Costantino VI gli avevano comunicato la loro decisione di convocare un concilio ecumenico, il quale ristabilisse l'unità della Chiesa nella condanna dell'iconoclastia formulata d'accordo col papa, che perciò invitavano a recarsi di persona a Bisanzio, o a farsi rappresentare al concilio da propri legati. A. deplorava il modo come Irene aveva provveduto alla sede patriarcale di Costantinopoli, facendovi innalzare un alto funzionario della sua corte, Tarasio, il quale era così passato dallo stato laicale all'ecclesiastico solo al momento della consacrazione (25 dic. 784); deplorava altresì che a Tarasio, nella sua nuova dignità, fosse ufficialmente attribuita quella qualifica di ecumenico, che già due secoli prima Gregorio Magno aveva rivendicato come di spettanza soltanto del vescovo di Roma. Ma approvava la convocazione del concilio e, definita la dottrina della Chiesa di Roma sulla materia controversa, preannunciava il successivo invio di due suoi legati. Nello stesso senso il papa rispose a Tarasio che, nella sinodica di rito, gli aveva comunicato la propria accettazione del culto delle immagini. Ora A. si astenne dall'informare Carlomagno delle sue risposte. Ed invero quanto aveva scritto non era tutto tale da apparire conforme agli interessi del re franco. Il papa, nel comprendere fra i punti, dei quali chiedeva l'accoglimento per giudicare soddisfacente un accordo, anche la restituzione dei beni patrimoniali incamerati e delle diocesi sottratte alla Chiesa di Roma dall'Isaurico, lasciava come trasparire un accenno alla possibilità che ciò procurasse all'impero, oltre alla pace religiosa, anche il ritorno del papato nella sua sfera politica. L'accenno, pur se sfumato in tocchi assai lievi di forma, assumeva, data la delicatissima situazione politica del momento, per il trascinarsi delle trattative matrimoniali fra le corti di Bisanzio e franca, un'implicita gravità di sostanza, che neutralizzava le ampie lodi rese nello stesso scritto a Pipino ed a Carlomagno, additati come esempio per le concessioni territoriali da loro elargite a S. Pietro.
Concorrevano senza dubbio a determinare l'atteggiamento di A. tanto le delusioni del convegno del 781, quanto le speranze da un lato di frustrare i maneggi di Adelchi e di Arechi a Bisanzio, dall'altro di guadagnarsi nell'impero un appoggio che potesse bilanciare la paventata strapotenza in Italia del re franco. Due legati, l'arcipresbitero Pietro e l'abate del monastero greco di S. Saba, in Roma, rappresentarono effettivamente la persona del papa al concilio di Nicea (VII ecumenico, Il Niceno; 24 sett.-23 ott. 787), che deliberò il ristabilimento nell'impero del culto delle immagini e condannò la iconoclastia. Anche per tutto il tempo corso sino allora sembra che A. abbia avuto cura di non dare notizie a Carlomagno su quanto stava accadendo fra Roma e Bisanzio. Tanto più energica e di vasta portata fu la reazione del re franco, non appena gli atti conciliari furono da lui conosciuti in un'infelice traduzione latina, giuntagli in circostanze non ben chiare; un secolo più tardi si affermava in Francia che gliela avesse inviata lo stesso Adriano. La reazione si manifestò con quel Capitulare de imaginibus, che è più comunemente noto sotto il titolo di Libri Carolini, e sfociò nel concilio di Francoforte del giugno 794.
Non è probabilmente semplice coincidenza se proprio in questo periodo traspaiono nel carteggio del papa col re più chiari gli accenni polemici, pur se accompagnati da solenni assicurazioni reciproche: di Carlomagno, che non si proponeva di venire comunque meno né alle promesse fatte a S. Pietro, né al patto d'amicizia con la Chiesa di Roma; di A., che non intendeva mancare al rispetto della dignità patriziale del re, e la voleva anzi tenere in sempre maggior conto.
In questo periodo corsero voci di una lettera scritta dal re di Mercia, Offa, a Carlomagno per consigliargli di liberarsi di A., cacciandolo dalla sede apostolica ed insediando in essa uno dei suoi Franchi; e si disse che il papa ne aveva avuta notizia. Alle recise smentite ufficiali dei due re fece eco A., negando che gli fosse arrivato anche solo un sentore di tali voci; ma ritenne non fuori di luogo aggiungere una serie di citazioni scritturali per proclamare solennemente che, se Dio era con lui, niente un uomo poteva contro di lui; che egli deteneva la sede apostolica come vicario di S. Pietro e da essa reggeva l'intera Cristianità in quanto non eletto da uomini, ma chiamato, perché a ciò predestinato, direttamente da Cristo.
L'estrema violenza del linguaggio polemico, con cui nel Capitulare de imaginibus si cerca d'invalidare la convocazione e le deliberazioni del concilio di Nicea, sembra proporsi a bersaglio principale le persone d'Irene e di suo figlio; aveva tuttavia implicitamente di mira anche un altro bersaglio, agli occhi di Carlomagno in realtà più importante, e cioè la persona di A., senza dubbio perché si temeva e si voleva impedire un riavvicinamento troppo stretto del papa con l'impero.
Il Capitulare implicava, infatti, la sconfessione di tutto l'opcrato dello stesso papa, e formulando una diversa dottrina in un trattato di contenuto teologico presentato come opera alla quale aveva deciso di por mano lo stesso re, significava il trasferimento da A. a Carlomagno delle funzioni di guida suprema nello stesso magistero in materia di fede, che costituiva il retaggio lasciato da S. Pietro ai papi suoi successori in Roma. Il corollario logico delle posizioni postulate dal Capitulare de imaginibus fu il concilio di Francoforte.
Qui non solo venne pronunciata la condanna definitiva dell'adozionismo spagnolo, ma il carattere di assise solenni di tutte le Chiese dell'Occidente cristiano, al di sopra delle divisioni politiche, conferito al concilio dalla presenza d'inviati anche dei paesi anglo-sassoni, ne accentuò il significato di manifestazione intesa, per volontà di Carlomagno, in nome appunto dell'intera cristianità occidentale, non solo a declassare il concilio niceno dal rango di ecumenico a quello di particolare delle sole Chiese orientali, ma anche a rifiutarne la validità e a condannare quanti lo accettavano. A. veniva posto in una situazione in tanto più incresciosa in quanto anche a Francoforte egli si era fatto rappresentare da due suoi legati, vescovi entrambi, il che implicava un suo assenso preliminare anche alla convocazione di questo concilio, e poteva giustificare la precisazione, data all'inizio del Capitulare redatto alla chiusura dei lavori, che i vescovi partecipanti vi si erano recati in forza della autorità apostolica e per ordine del re. Ne usciva la figura paradossalmente contraddittoria di un papa non solo consenziente alla convocazione sulla stessa materia di due successivi concili, il primo in Oriente ed il secondo in Occidente, ma rappresentato, in entrambi, da propri legati che nulla avevano trovato da eccepire alle rispettive deliberazioni, sebbene il secondo, a distanza di sette anni, avesse respinto la validità e le decisioni del primo.
Non risulta che Carlomagno abbia trasmesso gli atti di Francoforte a A. per sottoporli alla sua approvazione. Risulta solo che gli mandò a mezzo di un suo fiduciario, l'abate di Saint-Riquier, Angilberto, un esemplare del Capitulare de imaginibus. E l'unico documento rimastoci a gettare qualche luce sulla linea di condotta cui allora si attenne il papa è il testo della sua risposta. E un'ampia difesa delle deliberazioni nicene, con la puntuale confutazione delle argomentazioni del Capitulare, in cui sono messi in risalto gli errori d'interpretazione sui quali esse erano fondate.
Per la cronologia della missione di Angilberto e della risposta di A. gli studiosi oscillano fra il 791 e un tempo posteriore al concilio di Francoforte. Nell'uno e nell'altro caso non muta sostanzialmente la portata storica dell'agire di Carlomagno e del suo concilio nei riguardi di A. Se erano già in possesso della risposta, l'avrebbero di proposito ignorata; se la missione di Angilberto è posteriore al concilio, il re avrebbe evitato di trasmettere ad A., insieme con l'esemplare del Capitulare de imaginibus, anche quello degli atti conciliari, ed ugualmente senza tener conto dell'autorità apostolica, perché nel Capitulare non si parla di una risposta papale, e nessuna revisione fu apportata alle decisioni di Francoforte: sulla loro base si continuò in Francia a definire il concilio niceno uno pseudo-sinodo dei Greci, che non era né ecumenico né settimo, e che a Francoforte era stato refutato ed annullato. In realtà, Carlomagno poteva considerare il suo modo di agire giustificato, in un certo qual senso, dallo stesso scritto di Adriano in quanto il papa lo aveva informato ad uno spirito di propensione al compromesso, e non di intransigente affermazione del suo magistero supremo in materia di fede. Ed invero A. si era preoccupato di chiuderlo annunciando che si proponeva di insistere categoricamente perché l'imperatore restituisse le diocesi ed i patrimoni tolti alla Chiesa di Roma, con la minaccia, ove non lo avesse fatto, di proclamarlo eretico. Eretico, dunque, sul piano non delle dottrine definite a Nicea, ma della mancata riparazione alle offese che i suoi predecessori avevano recato alla Chiesa di Roma come sede metropolitana e come proprietaria dei beni destinati a fornirle i mezzi per le spese del culto e per il sostentamento dei poveri. Era l'unico modo per conservarsi aperta la possibilità di venire incontro alle esigenze di Carlomagno, senza contraddire al precedente argomentare in prova della validità del concilio niceno. E si badi che A., annunciando l'idea di scrivere a Bisanzio nel senso indicato, si preoccupava di avvertire che ne subordinava l'attuazione ad un preliminare consenso del re franco.
Appare evidente la via che A. intendeva seguire per attraversare lo spineto creatogli da Carlomagno: eludere le pressioni dirette a indurlo a sconfessare il concilio niceno, sconfessando implicitamente se stesso; evitare così una rottura immediata con Bisanzio che pregiudicasse le prospettive di una pace religiosa e di un riavvicinamento politico con l'impero; evitare, nel contempo, di dare alla difesa di Nicea il carattere di una precisa conferma apostolica, tassativamente formulata in sede dottrinale, per non essere costretto a trarne conseguenze in sede pratica, a proclamare, cioè, solennemente che le decisioni nicene erano vincolative anche nell'ambito dei domini di Carlomagno, ed esporsi così al rischio ugualmente deprecabile di un conflitto religioso e politico col re franco; guadagnar tempo, evitando di impegnarsi su due fronti, in attesa che ulteriori chiarimenti sulle intenzioni di Carlomagno offrissero nuovi elementi agli effetti di una successiva presa di posizione.
La risposta di A. ha per oggetto soltanto il Capitulare de imaginibus. Se fu redatta dopo Francoforte, il silenzio su quel concilio starebbe a indicare anche il proposito di A. di conservare la libertà di pronunciarsi nei suoi riguardi soltanto in seguito, quando avesse giudicato opportuno.
A. ne fu comunque impedito dalla morte: il 26 dic. 795 veniva sepolto in S. Pietro.
Per la vita spirituale e per l'arte e l'edilizia sacra di Roma A. aveva svolto un'attività fervida, occupandosi del miglioramento morale e materiale dei monasteri, facendo restaurare e decorare e riccamente dotando un gran numero di chiese nella zona suburbana. Grandi cure dedicò alle diaconiae, a quegli enti monastici, cioè, che avevano la funzione specifica di carità e di assistenza ai poveri.
Rilevante impulso diede alla vita economica, estendendo a sempre più vasti complessi di beni fondiari della Chiesa nelle campagne, per un raggio di sedici miglia intorno a Roma, il sistema di gestione diretta, che era carattere proprio delle sue grandi unità aziendali denominate domus-cultae. A. ne fondò altre sei. Degni delle migliori tradizioni del passato furono i grandi lavori di pubblico interesse da lui promossi con largo impiego di mezzi e di mano d'opera: il restauro e la ricostruzione delle mura e delle terre sull'intero circuito della cinta; la completa ricostruzione di quattro dei maggiori acquedotti - Claudio, Giovio, Sabatino, dell'Acqua Vergine - onde a Roma si vantò ritornata l'antica abbondanza di risorse idriche; lo sbancamento su larga scala delle rive del Tevere per ricavarne il materiale di costruzione da impiegare nell'ampliamento e nell'abbellimento del portico che dal fiume conduceva alla basilica di S. Pietro, e che non era più sufficiente ad accogliere il movimento delle masse sempre crescenti dei fedeli. Ci mancano elementi per stabilire quali innovazioni A. abbia introdotto nell'esercizio della "potestas" temporale, di recente origine, perché cominciato solo con gli ultimi anni del pontificato di Stefano II. Certo è che anche da lui le forze armate e i loro ufficiali ricevevano gli ordini. Probabilmente A. non soltanto cercò di garantirsi della loro leale osservanza del giuramento di fedeltà a S. Pietro ed ai suoi vicari, ormai accettato da tutti, mediante la nomina di un membro della sua famiglia, il nipote Teodoro, a duca, ma mirò anche e riuscì ad arginare l'influenza politica della casta militare nel ducato romano, decentrando l'alto comando con la nomina di più duchi.
Per l'Esarcato di Ravenna e per la Pentapoli A., come già Stefano II, avocò a sé la nomina dei funzionari delle singole città, senza però insediare in Ravenna un organo superiore ecclesiastico-militare, esecutivo della "potestas" papale, come aveva fatto Stefano II, che vi aveva inviato un presbitero e lo stesso duca di Roma del tempo, Eustachio.
Ne fu probabilmente distolto non solo dalle resistenze dell'autonomismo locale, avverso a Roma, ma anche dal proposito di non lasciare che nel governo di quei territori la casta militare romana avesse una qualunque compartecipazione stabile e diretta.
Dalle città avute nella Tuscia longobarda A. non pretese, come dai Longobardi del ducato di Spoleto, al momento della loro effimera sottomissione nel 773, il taglio simbolico della chioma alla foggia romana; ebbe anzi cura di assicurare a Carlomagno che le avrebbe lasciate libere di seguire la loro legge. Intendeva dunque modellarsi sull'esempio dato dal re franco nei suoi rapporti di "rex Lungobardorum" con i nuovi sudditi d'Italia, per la evidente preoccupazione che un diverso trattamento potesse spingere quelle città a volere il loro ricongiungimento al resto della Tuscia rimasta nell'ambito del regno.
Non risulta che la politica interna di A. si sia mai urtata in Roma, per tutti i quasi ventiquattro anni del suo pontificato, contro serie difficoltà. Egli aveva saputo interpretare i sentimenti di decisa avversione a Desiderio ed alle sue creature in seno al patriarchio lateranense, che avevano condotto l'aristocrazia militare a farsi solidale con i maggiorenti della Chiesa per abbattere il predominio della fazione di Paolo Afiarta. Dall'aristocrazia militare uscivano A. e suo zio Teodoto, ma erano passati entrambi agli uffici dell'ammistrazione pontificia, e A. aveva percorso tutti i gradi della carriera ecclesiastica. In lui si era dunque auspicato, eleggendolo, il papa che, riconciliati tra loro i ceti dirigenti cittadini, li guidasse poi alla lotta inevitabile contro il pericolo longobardo. Questo compito aveva assolto A., assicurando a Roma un lungo periodo di pace all'interno ed all'esterno, che le aveva inoltre indubbiamente permesso anche una notevolissima ripresa economica: ne sono indizio innegabile i grandi lavori edilizi e di pubblico interesse.
Per eliminare il pericolo longobardo A., come già Stefano II, si era trovato nella necessità di provocare l'intervento dei Franchi. Carlomagno aveva però ben altre mire politiche e religiose del padre, e pesò in ben altra misura sugli sviluppi della situazione italiana e del papato.
Gli aspetti essenziali del pontificato di A. furono perciò caratterizzati da un ininterrotto dialogo tra lui ed il re franco, si che non è stato possibile tracciare la sua biografia senza tenere continuamente conto dell'opera dell'altro interlocutore. Fu un dialogo non sempre piacevole, e la morte di A. lo interruppe quando era ancora lontano da un chiarimento soddisfacente il problema che aveva costituito la maggior preoccupazione del papa, quello cioè dei rapporti con Carlomagno. Nella tradizione imperiale la dignità patriziale non conferiva a chi ne era insignito quella capacità di agire come alto "defensor Ecclesiae", che era prerogativa rimasta sino al principio del sec. VIII riconosciuta di spettanza esclusiva degli imperatori. Stefano II, per trasferirla ai re dei Franchi, si era avvalso dell'autorità che gli derivava da S. Pietro, ma necessariamente ciò aveva significato legare, con l'istituto germanico della "regalis tuitio", l'esercizio della "defensio Ecclesiae", in quanto questo non poteva evidentemente considerarsi legato con la dignità patriziale. A Roma la sensibilità giuridica non era certo così affievolita da non avvertire lo slittamento verso concezioni estranee al mondo romano ed ai rischi che esso comportava, specie dopo la conquista del regno longobardo da parte di un uomo di tanto rilievo. Secondo ogni probabilità A. pensò che meno gravi rischi sarebbero risultati se l'esercizio della prerogativa sovrana della "defensio Ecclesiae" fosse stato ricondotto nell'alveo della tradizione romana, e che il modo più opportuno per riuscirvi poteva esser quello di avvalersi dell'autorità di S. Pietro altresì per fare del re franco un imperatore.
Il pensiero si appalesa in una ben nota iscrizione metrica votiva, che il papa appose ad una corona aurea da lui offerta alla confessione del principe degli Apostoli. Il testo è di sicura autenticità: esso è, tuttavia, assai discusso anche in sede di accertamento critico di alcune lezioni della silloge in cui ci è giunto. A. vi riprende la dottrina gelasiana del "regale sacerdotium" di Cristo, e dei due poteri istituiti dal Redentore a guide supreme del mondo: quello del pastore del gregge dei fedeli affidato a S. Pietro, ed allora a lui, A., come suo vicario, e quello della sovranità romana che Cristo elargiva nell'Urbe fedele a chi gli fosse piaciuto, e che Carlomagno avrebbe ricevuto dalla destra di Pietro, "suscipiet dextra glorificante Petri". Era l'adattamento alle nuove esigenze di quella idea di un impero religiosamente purificato da un suo ritorno all'unità con la Chiesa di Roma, che aveva cominciato ad affacciarsi nei circoli lateranensi al tempo di Stefano II, espressa nella formula "Sanctae Dei Ecclesiae res publica Romanorum"; ma era un pensiero non facilmente accessibile alla mentalità religiosa e giuridico-politica del mondo cui il re franco apparteneva, e tale da destare le sue preoccupazioni piuttosto che lusingare le sue ambizioni. La "defensio Ecclesiae "rimase così legata alla" regalis tuitio. germanica, il re si attenne alla dignità di "patricius Romanorum" ed ai poteri non bene definiti che egli ne poteva derivarè. Base dei rapporti fra lui e Roma continuarono ad essere i patti di mutua amicizia e fedeltà che risalivano a Stefano II ed a Pipino, e che da ultimo erano stati confermati con i giuramenti scambiati il 2 apr. 774 sulla tomba di S. Pietro da Carlomagno e dai suoi grandi con A. e con i maggiorenti romani della Chiesa e del laicato. Certo, in connessione con tutto ciò, scomparve dalla terminologia di A. la formula ereditata dal tempo di Stefano II, che egli ancora usava al principio del suo pontificato, aveva anzi ancor più, diciamo, "romanizzata" premettendo un "nostra" a "Romanorum res publica", e che nelle sue lettere a Carlomagno è attestata un'ultima volta per la fine del 775. Cominciava invece a delinearsi un'idea di una "christiana res publica", che aveva ben altro significato, perché concepita non a Roma, ma alla corte franca, ed incentrata sulla figura non del papa "vicarius S. Petri", ma del re franco "rector Ecclesiae": il Capitulare de imaginibus ed il concilio di Francoforte ne avevano dato i primi indizi.
A. era stato costretto ad abbandonare il sogno ambizioso di un papato reggitore temporale di gran parte della penisola italiana, dalle regioni prospicienti il golfo di Venezia, l'Adriatico ed il golfo di Taranto, a quelle bagnate dal Tirreno. Gli si deve, però, riconoscere, e non è poco, di aver salvato i frutti dell'opera di Stefano II e di averli, sia pure in modesta misura, accresciuti, dando all'area geografica posta sotto il governo della Chiesa di Roma l'estensione che rimase sostanzialmente immutata durante secoli interi.
Di A. va inoltre messo in rilievo che fu il primo papa ad usare l'arma spirituale della minaccia d'anatema sul terreno politico. La usò contro Desiderio e contro Tassilone III, in entrambi i casi per una valutazione del loro agire, che egli certo fondava anche su motivi di natura religiosa: la paventata offesa del re longobardo alla città sacra a S. Pietro e sede del suo vicario; l'offesa al buon ordine morale, di un mancamento, da parte del duca dei Bavari, ai giuramenti di fedeltà prestati ai re dei Franchi. A. aveva conseguito buoni risultati nell'ambito delle vicende interne di Roma, risultati che erano tuttavia più apparenti che di durevole durata. Per il papato l'acquisto del governo temporale aveva significato il determinarsi di una situazione in sviluppo sotto il gioco di forze soprattutto materiali, che non erano tutte e sempre dominabili dalla sola autorità personale dei papi. Senza dubbio anche per non allenarsi un appoggio, che in determinati frangenti poteva rappresentare la salvezza, A. aveva giudicato opportuno mostrarsi così spesso conciliante verso Carlomagno. Vari fattori concorrevano a preparare in Roma, sotto la tranquillità esteriore, il risorgere di correnti d'opposizione: il disappunto nei circoli ecclesiastici e dell'aristocrazia militare per le mutilazioni imposte da Carlomagno al programma politico territoriale patrocinato dal papa e inizialmente accolto nella promissio del 774; l'insoddisfazione di coloro che giudicavano troppo condiscendente A.. e talora addirittura debole nei suoi rapporti con Carlomagno; lo stato d'animo dell'aristocrazia militare di fronte alla tendenza del papa a limitarne l'influenza politica nel nuovo ordine di cose, e di fronte all'auspicio da lui espresso, nella iscrizione votiva di cui parlammo, di un re franco creato imperatore per mano di S. Pietro, e cioè di un fatto del tutto ignoto alle tradizioni romane, le quali potevano invece offrire ai capi delle forze armate di Roma motivi per rivendicare il diritto che anche la loro voce fosse sentita in materia. D'altra parte A., per consolidare il suo potere personale, come aveva nominato duca il nipote Teodoro, così aveva chiamato un altro suo nipote, Pasquale, all'alto ufficio di primicerio dei notai, che consentiva al titolare larga parte nella trattazione degli affari della Chiesa, donde un innegabile incentivo al rinfocolarsi di gelosie e di rivalità in seno agli stessi circoli ecclesiastici. Questo agitarsi profondo si sarebbe manifestato in superficie già nella scelta del successore di A., Leone III: ne è prova il fatto che appunto il primicerio Pasquale ed altri da A. tenuti in gran conto saranno tra i promotori della rivolta in cui non tardò a pericolare non soltanto la "potestas", ma la vita stessa del nuovo papa.
Carlomagno, che con tanta vigile cura aveva costantemente seguito gli atti del pontilicato di A., che nel corso di quasi un quarto di secolo aveva largamente beneficato del suo spirito di comprensione, misurò in pieno quale perdita fosse per lui la scomparsa di chi gli era stato sulla cattedra papale così a lungo un amico prezioso, ne pianse sinceramente la morte e volle, per l'ultima volta, legarne il nome al proprio, raccomandarsi al suo ricordo in cielo, attestargli che mai lo avrebbe dimenticato, nell'iscrizione metrica che fu apposta sulla tomba del defunto in S. Pietro ad esaltare la santità della sua vita, il fervore delle sue opere, l'umanità degli affetti da lui raccolti, e di questo supremo elogio volle passare alla posterità come autore:
Post patrem lacrimans Karolus haec carmina [scripsi,
Tu mihi dulcis amor, te modo plango, pater.
Tu memor esto mei, sequitur te mens mea [semper;
Nomina iungo simul titulis, clarissime, [nostra;
Hadrianus, Karolus rex ego, tuque pater.
Aveva composto l'iscrizione, per incarico del re, Alcuino, certo uno dei suoi più autorevoli consiglieri, quasi certamente l'estensore di quel Capitulare de imaginibus, che era stato l'ultimo motivo polemico del dialogo di A. con Carlomagno.
Fonti: Biografia, certo opera di un contemporaneo, nel Liber pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 486-514. - Lettere di A. a Carlomagno sino al 791 circa: Codex Carolinus, ed. W. Gundlach, Epistolae Merowingici et Karolini Aevi, I, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, III, Berolini 1892, nn. 50-97, pp. 565-648;cfr. Appendix, n. 1, pp. 654 s.
- Altre lettere di A.: ed. K. Hampe, Epistolae Karolini Aevi, III, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, V, Berolini 1899, Epistolae selectae pontificum Romanorum Carolo Magno et Ludovico Pio regnantibus scriptae, nn. 1-2, pp. 3-57.
- Per le lettere è da usare con molta cautela la stampa del Migne, Patr. Lat., XCVI, coll. 1203-1342, perché vi sono accolte anche quelle spurie o di dubbia autenticità. - Divalis sacra di Costantino VI e di Irene a A. per il concilio di Nicea, e lettere di A. in risposta ai due sovrani ed a Tarasio patriarca di Costantinopoli in J. D. Mansi, Sacror. Concil. Nova et Ampliss. Collectio, XII, Florentiae 1766, coll. 984-986, 1055-1076, 1077-1084. - Carme acrostico di A. a Carlomagno: ed. E. Duemmler, Poetae latini Aevi Carolini, I, in Monumenta Germ. Hist., Poetae latini Medii Aevi, I, Berolini 1881, pp. 90 s. -Iscrizione di A. sulla corona aurea votiva: ed. cit., p. 106 n. XIII. - Epitaphium Hadriani papae, ed. cit. p.113, n. IX.
- Regesti di A.: Ph. Jaffé W. Wattenbach-P. Ewald, Regesta Pontif. Rom., I, Lipsiae 1885, pp. 289-306. - Regesti di Carlomagno (per il periodo del pontificato di A.): J. F. Böhmer-E. Mühlbacher-J. Lechner, Die Regesten des Kaiserreichs unter den Karolingern, in J. F. Böhmer, Regesta Imperii, I, Innsbruck 1908, pp. 69-145. - Annales regni Francorum e Annales qui dicuntur Einhardi, ad a. 772-796, ed. Fr. Kurze, Scriptores rerum Germanicarum, Hannoverae 1895, pp. 32-99. - Einhardi Vita Karoli Magni imperatoris, ed. e trad. franc. di L. Halphen, Paris 1923 (Les classiques de l'histoire de France au Moyen Age), cap. 6, pp. 18-23; cap. 19, p. 60 cap. 23, p. 70.
- Per l'epigrafe sepolcrale: Annales Laureshamenses e Chronicon Moissiacense, ad a. 795, ed. G. H. Pertz, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, I, Hannoverae 1826, pp. 56 e 302. - Libri Carolini sive Caroli Magni Capitulare de imaginibus, ed. H. Baetgen, Concilia, II, Supplementum, in Monumenta Germ. Hist., Legum Sectio III, Concilia, II, Hannoverae ct Lipsiae 1924. - Capitulare Francofurtense, ed. A. Werminghoff, Concilio Aevi Karolini, I, 1, in Monumenta Germ. Hist., Legum Sectio III, Concilio, II, 1, Hannoverae et Lipsiae 1906, pp.165-171.
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Materialmente impossibile sarebbe dare qui una bibliografia, anche solo essenziale, dei numerosissimi studi pubblicati sulle donazioni carolinge; ci si limita a richiamare quanto sulla biografia di A. scrive il Duchesne nella Introduzione alla sua edizione del Liber pontificalis, pp. CCXXXIV-CCXLIII, ed a ricordare, fra i negatori dell'autenticità del passo che nella biografia riguarda il contenuto della Promissio donotionis del 6 apr. 774, L. Saltet, La lecture d'un texte et la critique contemporaine. Les prétendues promesses de Quierzy (754) et de Rome (774) dans le "Liber Pontificalis", in Bulletin de littérature ecclésiastique publié par l'Institut catholique de Tolouse, 1940, n. 4, pp. 176-206, 1941, n. 2, pp. 61-85 (ricerca rimasta incompiuta).