CASTRO, Paolodi
Nacque a Castro, nel Lazio, tra il 1360 e il 1362, da genitori di umile origine; è noto solo il nome del padre, Angelo. Sulla facciata della cattedrale della città di Castro si notava ancora nell'anno 1630 una lapide sepolcrale con l'arme del C., come già risultava nel 1492 dal canonico Niccolò di Castro, suo nipote (Del Re, 1970). La lapide andò distrutta sulla fine del 1649 a opera delle milizie pontificie nella seconda guerra di Castro, dichiarata da Innocenzo X contro i Farnese.
Al luogo d'origine rimase poi il C. sempre attaccato, come dimostra una lettera inviata al "capitolo de' preti" con la firma "Paulus de Castro": "Ho visto quanto mi scrivete della morte di messer lo vescovo, però per operar con mons. lo Papa, che vi dia un messer lo vescovo, uomo dabbene e bell'avanzato, lasciate la cura a me" (in Stendardi). Tuttavia condusse una vita di viaggi e peregrinazioni per ragioni sia di studio sia di professione, contribuendo alla diffusione del linguaggio e dell'esperienza dei giuristi moderni.
Dapprima fu allievo di Baldo a Perugia: nel 1375 secondo il Del Re (1970) se è veritiera una additio anonima ad un commento dello stesso C., da cui peraltro non si ricava chiaramente una datazione: "Ubi allegatur iste textus ad decisionem Pau. de Ca., qui incepit hic audire iura civilia in hac lege a domino Baldo, et habebat duos socios qui erant filii sui et sedebant in una bancha, et dicit quod verba sua non erant pro novitiis, et cum recessisset ab eo [= eius] schola, cito recolligebat verba sua, quae non erant pro novitiis": in Digestum vetus, l. finale, D. de edendo (D. 2.13.13); ma vedi anche quanto dice lo stesso C. in Infortiatum, l. filius a patre, D. de liberis in fine (D. 28. 2.28): "Memor eius, quod Baldus hic determinabat clarius quam alibi, quod etiam in pueritia didici a doctore meo, a quo audivi infortiatum Perusii"; e quanto afferma in Digestum vetus, l. iuris gentium, D. de pactis, n. 20 (D. 2.14.7).
Il Panciroli ritiene che il C. lavorasse come scriba al servizio di Baldo, mentre il Savigny, sulla base dell'additio anonima prima ricordata, prospetta l'ipotesi che egli operasse in casa del maestro come ripetitore dei figli. Dalle notizie sicure in nostro possesso possiamo dire che l'amicizia tra Baldo e il C. si mantenne viva per molti anni. Essi si incontrarono sicuramente a Pavia nel 1390,quando Baldo tenne una pubblica disputa con il giurista Filippo Cassoli; e la continuità dei loro rapporti appare confermata dalle due lettere inviate dal C. a Zenobi, figlio di Baldo, il 10 aprile e il 20 maggio probabilmente del 1399 e pubblicate dal Savigny (III, pp. 527-531). Il C., che si trovava a Parigi, sollecitava Baldo e Zenobi, a nome della corte francese, ad adoperarsi per la composizione dello scisma che travagliava la Chiesa d'Occidente al fine di evitare che la separazione tra le due obbedienze divenisse definitiva al pari di quella tra la Chiesa romana e quella greca. Il fatto che la corte francese, la quale faceva grande affidamento sull'intervento di Baldo ai fini del superamento dello scisma, si rivolgesse al C. per sollecitare l'opera del grande maestro sembra attestare una continuità di rapporti amichevoli tra i due anche dopo gli anni della scuola.Oltre a Baldo, il C. ebbe come maestro Cristoforo Castiglioni. Egli ricorda, infatti, in un passo del commento al Novum: "Tempore quo studebam, dom. Christ[ophorus] de castilio dominus meus videbatur dicere contrarium" (l. stipulationum, D. de verborum obligationibus [D. 45.1.2]). E poiché il Castiglioni insegnava nello Studio di Pavia, appare lecito ritenere che il C. si trasferì in questa università. Conseguì, comunque, il dottorato inutroque fuori d'Italia, ad Avignone, nel 1385. Non sappiamo quando egli passò in questa città. Il Del Re (1970) pensa che vi si recasse al seguito del cardinale Pietro Corsini, detto il cardinale fiorentino, il quale, dopo lunga esitazione, aveva scelto l'obbedienza avignonese ed era andato alla corte di Clemente VII nel settembre 1381 (al riguardo L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Corsini, Firenze 1858, pp. 68-75); ma in merito mancano precise testimonianze. In effetti, mentre è sicuramente attestato che il C. operò come auditor del cardinale ad Avignone, non sappiamo quando egli iniziò taleservizio.
D'altro canto tutto il periodo avignonese del C. appare difficilmente databile. Egli stesso ricorda che "ibi residentiam feci per annos decem & octo, 1395 usque in 1402" (Consilia, I, ante cons. 335). Tale contraddittoria dichiarazione è stata variamente interpretata. Alcuni, come il Tiraboschi, hanno pensato che la residenza avignonese durasse solo otto anni, dal 1395, cioè, al 1402; altri, invece, come il Savigny (II, p. 696) hanno ritenuto valida la durata di diciotto anni e hanno spostato al 1412 la data della sua partenza. Da ultimo il Del Re (1970) ha pensato di poter risolvere i dubbi accettando come valido il periodo di diciotto anni e spostando al 1385 la data iniziale. Egli si basa su alcuni dati certi: nel 1385 il C. conseguì il dottorato; ad Avignone iniziò il proprio insegnamento, come egli stesso ricorda (in Codicem, l. nos quidem, C. de iurisdictione omnium iudicum [C.3. 13. 1]), narrando di aver tenuto la prima lezione sul tema della prorogatio iurisdictionis nel palazzo vescovile alla presenza di alcuni prelati e di aver discusso con i presenti fino a tarda sera; infine, nella stessa città si trovava, stando alle sue stesse parole, nel 1394 quando i cardinali avignonesi elessero pontefice Pietro de Luna ("et istud vidi allegari in arduissima, questione cum Cardinales in Avignone elegissent in papam Petrum de Limaco [ = de Luna]": in Codicem, l. conventicula illicita, C. de episcopis et clericis [C.1. 3. 15]).
Da queste notizie certe il Del Re ritiene che si possa dedurre che il C., dopo aver conseguito il dottorato, rimase stabilmente ad Avignone, operando come auditor del cardinale Corsini, dedicandosi all'insegnamento e iniziando la propria attività professionale. La ricostruzione del Del Re, tuttavia, appare in contrasto con altre testimonianze che si ricavano dal commento del C. all'Infortiatum. La sua lettura alla l. si filius haeres, D. de liberis et postumis (D. 28. 2. 16) è, infatti, preceduta dall'indicazione "Repetita per Paulum de Castro in curia Avenionensi anno MCCCXCIIII die xiiij octobris. De liberis et postumis Senis per D. Paulum a. MCCCXC". Sembra, dunque, che il C, ripeté nell'ottobre 1394 nella Curia avignonese il commento che a quella legge aveva letto a Siena nel 1390. Non solo: come si è prima accennato il C., a proposito della l. paterSeverinianam, D. de conditionibus (D. 35. 1. 101), narra di esser stato presente alla pubblica disputa svoltasi a Pavia tra Baldo e il giurista Filippo Cassoli. Ora, è certo che tale disputa si tenne nell'autunno del 1390, quando Baldo venne chiamato in quella università in concorrenza con Cristoforo Castiglioni e con il suddetto Cassoli. Queste testimonianze inducono, allora, a ritenere che il C. non si fermò a lungo ad Avignone dopo aver conseguito il dottorato. Probabilmente iniziò lì il suo insegnamento, ma ben presto dovette rientrare in Italia per proseguirlo a Siena.
Nell'autunno 1390 passò a Pavia ove rimase certamente non oltre il 1394, quando lo troviamo di nuovo ad Avignone. E in Francia, con molta probabilità, rimase di continuo fino al 1401, quando ritornò in Italia. Si potrebbe, allora, prospettare l'ipotesi che la testimonianza del C. sul suo soggiorno avignonese debba interpretarsi nel senso che nel complesso egli vi risiedette per diciotto anni, ma solo a partire dal 1394 (e non 1395) fino al 1401 (e non 1402) la sua permanenza fu continua.
Ad Avignone, come si diceva, il C. fu auditor del cardinale Corsini; egli stesso ricorda che "coram me fiebant omnes actus" (in Codicem, auth. Ad haec, C. de iudiciis [C. 3. 1. 5]). Presso la corte avignonese, dunque, e non presso quella romana, come erroneamente ritiene il Diplovataccio e sulla sua scorta il Panciroli, il C. ebbe modo di acquistare una ricca esperienza di pratica giudiziaria di cui trarrà vantaggio nella sua opera di consulente. Inoltre, con molta probabilità, lesse nello Studio cittadino; ma nulla sappiamo in merito al suo insegnamento. Certamente svolse una continua e feconda attività professionale, come attestano i numerosi consilia ascrivibili agli anni avignonesi. Nel medesimo periodo egli ebbe modo di farsi conoscere ed apprezzare dalla corte reale francese: le lettere prima ricordate che egli scrisse a Zenobi degli Ubaldi per conto del monarca stanno a indicare la fiducia che in lui questi poneva. Forse al periodo della permanenza in Francia potrebbe assegnarsi il possibile insegnamento del C. presso l'università di Tolosa. In realtà, mancano al riguardo precise notizie; il C. stesso ne accenna appena in un passo del suo commento al Vetus, là dove dice: "Et ita tenui in repetitione l. filio praeterito Tholosae et Avenione" (in Digestum vetus, l. Papinianus libro quinto, D. De inofficioso testamento, par. 4 [D. 5. 2. 8]).
All'inizio del sec. XV il C. lasciò Avignone. La prima notizia della sua presenza in Italia si riferisce al suo arrivo nello Studio fiorentino. Il 17 ott. 1401 il C., già quarantenne, fu chiamato, in concorrenza con Torello Torelli da Prato, alla cattedra di diritto civile con lo stipendio annuo di 100 fiorini. L'anno successivo, in data 26 sett. 1402, gli venne rinnovato l'incarico (Gherardi, pp. 375,377). Alla fine del 1403 lasciò l'università fiorentina, chiamato da Giovannello Tomacelli, rettore e capitano generale del Patrimonio e fratello del pontefice romano Bonifacio IX, come podestà di Viterbo per il semestre 1º febbraio-31 luglio 1404. Poco sappiamo del suo governo della città, a parte le notizie relative agli onori che gli vennero tributati e ai privilegi che gli furono assegnati dal Consiglio comunale. È certamente da escludere che egli collaborasse alla riforma degli statuti cittadini, riforma che sarà realizzata solo molti anni dopo.
Al termine del suo incarico podestarile, il C. tornò all'insegnamento universitario, ma non più a Firenze, bensì a Siena. Qui, infatti, risulta alla fine del 1404, stando ai consigli 367 e 421 del primo volume nei quali è indicato come "doct(or) sen(ensis)". Nessun'altra notizia si ha sul suo insegnamento senese e quindi non siamo in grado di precisarne la durata. Per gli anni immediatamente successivi sappiamo soltanto che nel 1407 egli venne interpellato dai cardinali di obbedienza romana in merito alla riconciliazione della Chiesa occidentale. Il C., che già si era occupato della questione durante il soggiorno avignonese, doveva aver acquistato ormai una fama considerevole. Al pari di altri giuristi, consultati nella medesima occasione, come Antonio da Budrio, Pietro d'Ancarano e Matteo Mattesilani, egli sostenne l'opportunità dell'incontro con il pontefice avignonese organizzato dai cardinali romani, sollecitando questi ultimi a convocare un concilio generale della Cristianità occidentale in caso di fallimento della trattativa. A suo parere, infatti, i cardinali avevano pieno diritto di procedere a una tale convocazione (Consilia, I, n. 418).
Nel 1411 lo ritroviamo a Firenze, ma con compiti diversi da quelli di docente: il C. ricopre, infatti, la carica di vicario spirituale del vescovo cittadino Amerigo Corsini, da lui probabilmente conosciuto ad Avignone. Una speciale dispensa del pontefice Giovanni XXIII lo aveva autorizzato a svolgere quelle funzioni benché coniugato. Era ancora a Firenze nel 1413, quando l'arte dei giudici e dei notai si rivolse a lui per un consiglio in merito al diritto dei cives ex privilegio (gli stranieri, cioè, che avevano ottenuto la cittadinanza fiorentina) di ricoprire uffici pubblici. Nello stesso anno o nel successivo il C. fu chiamato "ad lecturam Digesti ordinarie de mane" con il salario di 250 fiorini dallo Studio fiorentino (Gherardi, p. 389).
Le molteplici attività svolte dal C. nella città e nella regione, tra le quali non si deve certamente dimenticare la continua opera di consulente, gli procurarono ampia fama, tanto che nel 1414 a lui si rivolse la Signoria fiorentina per la revisione degli statuti. Con il C. collaborarono l'altro giurista Bartolomeo Volpi da Soncino e cinque notai fiorentini. Forse già in passato egli aveva preso parte alla riforma di statuti cittadini. Il Curi lo afferma a proposito degli statuti di Fermo che vennero elaborati nei primi anni del sec. XV e poi furono approvati nel 1446 da Eugenio IV e l'idea sembra condivisa anche dal Del Re (1970), il quale avverte comunque che nessun ricordo di tale contributo del C. si rinviene nella prima edizione di questi statuti, apparsa a Venezia nel 1507 per cura del giurista Marco Martello. In proposito è da osservare che nessuna indicazione è rinvenibile nell'opera del C., il quale invece più volte ha l'occasione di ricordare la sua partecipazione alla riforma degli statuti fiorentini.
Dopo il 1415 mancano notizie su di lui fino al 4 sett. 1422, quando venne di nuovo chiamato all'insegnamento delle leggi civili nello Studio fiorentino, con il salario annuo di 330 fiorini. Insegnò anche nell'anno accademico successivo, al termine del quale abbandonò definitivamente la città toscana e si trasferrì a Bologna. Nella più celebre e antica università italiana egli si fermò dall'ottobre 1424 all'autunno del 1429, leggendo, ad anni alterni, l'Infortiatum e il Digestum Novum nei corsi "de sero". Ed è da notare che nello Studio bolognese si dava particolare importanza alla lettura serale che veniva affidata ai migliori maestri. A questi stessi anni risale, poi, il suo intervento alla riforma di altri statuti cittadini, quelli di Siena. Il 12 sett. 1425, infatti, il Consiglio della Campana, dietro suggerimento di s. Bernardino, lo incaricò della compilazione della nuova raccolta statutaria.
Le precise testimonianze pervenuteci in merito al periodo di insegnamento bolognese smentiscono l'idea formulata dal Bini secondo la quale il C. avrebbe letto nello Studio perugino negli anni immediatamente precedenti il 1429. Per primo il Tiraboschi aveva pensato a un suo insegnamento nell'università umbra - senza peraltro fissare il periodo - sulla base di una affermazione del giurista che in un passo del suo commento al Codex ricordava "Et hoc semel vidi de facto Perusii cum in eorum commune quidam doctor legens volebat addere vel minuere statuto quod disponebat de doctoribus legentibus. Et fuit consultum quod poterat" (in Codicem, De novo codice faciendo).E ad un insegnamento perugino pensa, anche se con qualche dubbio, lo stesso Savigny. In proposito è stato notato dal Del Re (1970) che più volte il C. ricorda le città in cui era stato, come Arezzo, Brescia, Bergamo, Vicenza e Pavia: ma la sua presenza in tali Comuni non era certamente, dovuta all'attività di docente, bensì all'esercizio della professione che il C. portava avanti, parallelamente all'insegnamento, con grande successo. Nel caso specifico di Perugia, le parole del C. inducono a pensare piuttosto a una sua attività di consulenza che non a un impegno di insegnamento. Così che appare preferibile escludere, allo stato attuale delle fonti, Perugia dalle università in cui il C. lesse.
Nell'autunno del 1429 egli lasciò Bologna e si trasferì a Padova presso il cui Studio è attestato a partire dal 19 ottobre di quell'anno (Acta graduum, I, n. 740, p. 254). E a Padova rimase fino alla morte, insegnando per dodici anni diritto civile. L'ultimo documento universitario che lo ricorda è del 30 maggio 1441 (ibid., II, n. 1524, p. 120). La data esatta della sua morte ci è stata tramandata da un'annotazione fatta da uno studente svizzero del C. in un manoscritto contenente il Digestum vetus, rinvenuto a Monaco di Baviera dal Puchta e da questo segnalato al Savigny che pubblicò la testimonianza: "No. hic quod famosissimus iuris utriusque monarca dominus et praeceptor meus dominus Paulus de Castro obiit MCCCCXXXXI tertio decimo Kalendas Augusti die Mercurii hora XXII" (II, p. 698, n. e). Il C., dunque, morì il 20 luglio 1441 e venne sepolto nella chiesa di S. Maria dei Servi, dove nel 1492 il nipote Niccolò fece erigere un monumento in onore del C. e del figlio Angelo.
Il C. si era sposato a Firenze, probabilmente nel 1403, con Piera de' Cervini di Corneto, nipote del canonista Pietro d'Ancarano e aveva avuto tre figli maschi, Angelo, Giovanni e Gilio (quest'ultimo morto di peste a Firenze nel 1420) e una figlia, Francesca.
Dei suoi commenti al testo giustinianeo sono a noi giunte Lecturae al Codice, al Digesto Vecchio, Inforziato e Nuovo. La Lectura Codicis del C. riguarda soltanto i primi quattro libri, il sesto e il settimo. Un manoscritto si trova nella Bayer. Staatsbibl. di Monaco, cod. Mon. lat. 10473, mentre il Mon. lat. 6568 della stessa biblioteca contiene la sola lettura al VI libro e quello della Universitätsbibliothek di Friburgo in Br. 255 contiene la lettura al libro IV a partire dal titolo 19 (ff. 24r-165r). Dubbia è la paternità del C. della Lectura al libro secondo del Codice della Biblioteca del Collegio di Spagna di Bologna, ms. 185 (Dolezalek). Numerose sono le edizioni quattrocentesche. L'intero commento fu edito a Venezia nel 1495 da Andrea Torresani in quattro volumi. La Lectura al primo, secondo e terzo libro era stata già pubblicata a Modena da Enrico da Colonia nel 1483 e a Venezia da Andrea Torresani nel 1487; quella al quarto a Siena da Enrico da Colonia, Lorenzo Canizzari, Iacopo Germonia e Luca Martini nel 1485 e a Venezia da Andrea Calabrese nel 1489; la Lectura al sesto libro a Brescia da Enrico da Colonia nel 1477, a Siena da Enrico da Colonia e compagni nel 1484 e nel 1488, nonché a Milano nel 1488; infine quelle al settimo a Venezia sia da Hermann Lichtenstein, sia da Andrea Torresani e Bartolomeo da Alessandria nel 1483, a Milano nel 1488 e nello stesso anno a Venezia da Andrea Calabrese.
La Lectura del C. al Digestum Vetus si conserva in vari manoscritti: a Bologna nella Bibl. del Collegio di Spagna, ms. 176 (ai libri I e II del Digesto); ad Eichstätt, Staatliche Bibliothek 172 (ai libri XII e XIII); a Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Mon. lat. 6657 (all'intera parte seconda del Vetus), 6675, ff. 1-125 (al libro I) e ff. 310-349 (ai libri IV e VIII); a Parigi, Bibliothèque Nationale, 4500 (all'intero Vetus); e infine a Venezia, Bibl. naz. Marciana, Marc. lat. V 13, ff. 29-79, 81, 83, 87-100, 116-206, 211-214 (frammenti della lettura al Vetus). Dubbia è, invece, la paternità del C. della Lectura Digesti veteris contenuta nel ms. 185 del Collegio di Spagna di Bologna (Dolezalek). La Lectura alla prima parte del Vetus fu edita a Bologna da Enrico da Colonia nel 1483; quella alla seconda parte dallo stesso editore, insieme con Sigismondo de' Libri, a Bologna nel 1478 e insieme con Lorenzo Canizzari e Iacopo Germonia a Siena nel 1485, nonché a Venezia nel 1492 da Andrea Calabrese; le due parti, infine, furono pubblicate insieme a Milano nel 1489 (Hain, n. 4613), a Venezia da Andrea Torresani nel 1495 e ancora a Milano da Leonardo Pachel nel 1496.
Contiene, inoltre, l'intera Lectura all'Infortiatum il cod. 4500 della Nazionale di Parigi, mentre il cod. G. II. 12 della Biblioteca dell'Escorial conserva la Lectura allaseconda parte dell'Infortiatum tenuta a Padova dal C. nel 1433 e il Mon. lat. 6674 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco la Lectura alla prima parte. Le edizioni della prima parte sono quella bolognese di Enrico da Colonia del 1478 e quella pavese di Giovanni Francesco Pezzani del 1483. La Lectura alla seconda parte dell'Infortiatum fu pubblicata a Ferrara nel 1480 da André Belfort. L'intera Lectura Infortiati venne edita a Venezia da Andrea Calabrese nel 1487, a Milano nel 1488 da Giovanni Antonio da Onate, ancora a Venezia nel 1494 da Andrea Torresani e successivamente a Milano da Leonardo Pachel nel 1496.
La Lectura al Novum è conservata nel cod. 125 della Biblioteca del Collegio di Spagna (libri XXXIX-XLII), e nel cod. 1569 della Biblioteca vescovile di Trento (libri XLV-XLVI, scritta dal C. a Padova nel 1435 in collaborazione con Giacomo Valser da Bussano). Dubbia è, infine, l'attribuzione al C. della Lectura al Novum conservata nel cod. 185 nella Biblioteca del Collegio di Spagna. La Lectura super prima parte Digesti Novi fu edita a Venezia da Bernardino Stagnino nel 1483 e a Venezia da Andrea Calabrese nel 1490; quella sulla seconda parte a Napoli da Francesco del Tuppo e Bernardino Gerardini nel 1479 e a Venezia da Giovanni e Gregorio de' Gregori nel 1480 e nel 1485; insieme le due parti vennero pubblicate a Venezia da Andrea Torresani nel 1494 e a Milano da Leonardo Pachel nel 1496.
Inoltre frammenti di letture del C. si rinvengono nei codici 125, 176, 177, 248 e 255 della Biblioteca del Collegio di Spagna e nel ms. 115 della Biblioteca universitaria di Kaliningrad. Si deve ancora ricordare infine che alcuni passi delle Lecturae del C. alla prima parte del Vetus e alla seconda parte del Novum sono indicati come Avenionice Praelectiones: laraccolta di tali brani, sotto il titolo di Avenionice Praelectiones, fu pubblicata nel corso del sec. XVI. Alcuni brani delle Lecturae al Vetus e alla seconda parte del Codex sono poi precedute dall'indicazione Patavinae praelectiones.
Nella Universitätsbibliothek di Monaco, 2. Cod. ms. 249, n. 13, si conservano poi le Expositiones terminorum iuris civilis del C.; nella Bibl. comunale di Lucca, ms. 224,la Quaestio de sacramentis puberum;a Kassel, Murhardsche Bibliothek der Stadt Kassel und Landesbibliothek, 2 Ms. iurid. 20, ff. 6r-32v, una repetitio a D. 28.1-2. Nel sec. XV furono edite la Repetitio legis "Si de vi" digesti "De iudiciis" (Pavia,Leonardo Gerla, 1494); la Repetitio rubricae "De liberis et postumis" (Bologna, Enrico da Colonia, 1479) e una raccolta di repetitiones a Venezia nel 1491 da Bernardino Stagnino.
Segno evidente dell'importanza attribuita alla dottrina del C. è la pubblicazione dei suoi commenti ai testi giustinianei appena si diffuse in Italia l'arte della stampa, al pari di quanto accadeva per i grandi maestri trecenteschi. Altrettanto avvenne per i suoi Consilia, la cui raccolta venne pubblicata addirittura nel 1473 a Roma da Vindelino da Wyla, Teobaldo Schencbecher e Giovanni Reinhard. Numerosi sono i manoscritti che contengono i Consilia del C. sia di quelli editi nella raccolta, sia di quelli esclusi. Ricordiamo il Cod. lat. 1161 (ff. 154-157) e il cod. autogr. Campori "Castro Paolo" della Bibl. Est. di Modena; i cod. 70, 83, 179,185, 211, 248 della Bibl. del Coll. di Spagna di Bologna; i Magliab. XXIX. 174 e 193 della Naz. di Firenze e il cod. Ashburnham 1798 della Laurenziana di Firenze; i cod. 373, 484 e 485 della Classense di Ravenna; il cod. 701 della Bibl. universitaria di Pisa; il cod. 224 della Comunale di Lucca (contiene un Consilium in causa testamenti); il Marc. lat. V. 2 della Marciana di Venezia; un manoscritto senza segnatura dell'Arch. dell'università di Siena (Dolezalek); il cod. A. IV. 14 della Comunale di Imola; il Lat. fol. 474 della Staatsbibliothek di Berlino; il cod. 225 della Universitätsbibliothek di Friburgo in Br.; il Mon. lat. 19514 della Bayerische Staatsbibl. di Monaco; il Cent. II.95 della Stadtbibliothek di Norimberga; il Barthol. 141 della Stadt- und Universitätsbibliothek di Francoforte; il cod. 2139 della Biblioteca Nacional di Madrid; i codici Urb. lat. 1132, Vat. lat. 8068, 8069, 10726, 11605 e Ottob. lat. 1727 della Bibl. Apost. Vaticana. Si ricorda, infine, che nel secolo XVI vennero pubblicati estratti dei passi più importanti dell'opera del C., scelti da giuristi posteriori, nella raccolta Singularia Variorum (Francofurti 1596).
Il C. è a ragione considerato il maggior giurista della prima metà del Quattrocento. La storiografia ha da tempo messo in luce la particolare chiarezza che egli mostra nell'impostare e trattare i problemi, la sua profonda conoscenza della dottrina precedente e, soprattutto, la sua rigorosa indipendenza di giudizio. Aspetto, questo, di sicuro rilievo, se si considera che già allora la scienza giuridica cominciava a manifestare segni di stanchezza e si dimostrava sempre più disposta ad accettare le soluzioni raggiunte dall'elaborazione dei grandi maestri trecenteschi, in primo luogo da Bartolo, senza sottoporle a un vaglio critico. Il C. si distinse in ciò dai suoi contemporanei: pur esprimendosi in termini di assoluta moderazione e rifuggendo da polemiche, egli difese con vigore la necessità di analizzare ogni problema in modo indipendente, consapevole delle proprie capacità e della propria dottrina. Come esempio di tale libertà di pensiero si suole ricordare che il C. corresse un errore di Bartolo sul fedecommesso, errore che i contemporanei avevano sempre accettato sulla base dell'autorità del grande maestro (in l. 26, C. De inofficiosotestamento [C. 3.28.26]: il Del Re [1970] ha sostenuto in proposito che il C. ebbe occasione di fare tale precisazione alla dottrina bartoliana durante il periodo del suo insegnamento bolognese: in realtà il C., affermando che "istum casum etiam ego habui de facto Bononiae",sembra dire che si imbatté nella questione nel corso della sua attività professionale; e non necessariamente dovette svolgere la stessa a Bologna nei soli anni del suo insegnamento in quella città). La precisa e profonda analisi da lui portata avanti gli consentì da un canto di operare una selezione all'interno della dottrina precedente, dall'altro di giungere in più casi a soluzioni nuove e originali. Al riguardo gli storici ricordano, ad esempio, il suo consiglio sul possessorium summarissimum, nel quale egli definì in modo completo tale tipo di azione conservativa a difesa del possesso, precisando che questa prescindeva dalla causa possessionis e si preoccupava soltanto di difendere, in modo provvisorio, l'ultimo possessore (Consilia, II, n. 3).
Né il contributo originale del C. si limita ad alcune revisioni dell'opiniocommunis o a una più precisa sistemazione della precedente dottrina su alcuni istituti. Esso si può cogliere anche in una chiara visione del sistema di diritto comune e nella elaborazione di una disciplina più adeguata alle esigenze dei suoi tempi per alcune fattispecie concrete che si erano imposte nella prassi. Anche sotto questo profilo egli mostra la validità della sua formazione culturale avvenuta sia all'interno della scuola, sia in continuo contatto, sin dai tempi di Avignone, con la vita pratica del diritto - di quello civile come di quello canonico - e in relazione con la realtà viva della normativa statutaria. Dalla chiara consapevolezza - di recente sottolineata dal Lange - che il diritto generale non si esauriva nello ius civile, ma comprendeva in egual misura il diritto canonico, il C. traeva la conseguenza che a questo il primo doveva cedere, quando una sua troppo rigida applicazione avrebbe potuto portare a errori spirituali. Così per esempio, la sua nota dottrina dei cosidetti "requisiti castrensi" nasce proprio dalla sua esigenza di applicare a una materia temporale i principi della legge canonica, allo scopo di modificare una prassi che si era affermata in modo divergente da questi. Si trattava della annosa questione della liceità degli interessi nei mutui: e il C. affermò che questi ultimi dovevano essere ammessi solo quando esistevano i tre requisiti del danno emergente, del lucro cessante e del periculum sortis. La soluzione era in linea con quanto stabilito nel diritto canonico che appunto vietava gli interessi quando mancassero quelle condizioni (Del Re, 1970). Il rispetto dell'impostazione data al problema della dottrina canonista è evidente anche in merito alla questione, politicamente di considerevole rilievo, della donazione di Costantino. Nei pochi passi in cui se ne occupa, il C., come è stato notato dal Maffei, mostra una "adesione incondizionata al punto di vista teocratico".
Per quanto, poi, riguarda i rapporti tra il diritto comune e il diritto statutario il C. sembra aderire alla migliore dottrina contemporanea che ammetteva l'interpretazione estensiva ed analogica anche per il secondo, nonché la possibilità di interpretare gli statuti anche alla luce del diritto generale. Il Lange sembra assegnare al C. il merito di tale precisazione; ma, se è vero che in più passi della sua opera la tesi è esposta in termini chiari, non sembra potersi negare che altri giuristi avevano ormai acquisito la medesima convinzione. Piuttosto sembra opportuno sottolineare il contributo da lui offerto nella sistemazione di alcuni istituti che si andavano affermando nella prassi giuridica. Alcuni storici fanno risalire al C. la precisazione di problemi connessi con lo sviluppo delle attività mercantili. E. Bussi, per esempio, gli attribuisce, tra l'altro, il merito di aver precisato che, all'interno di una società, gli acquisti fatti dai singoli soci che non dichiaravano espressamente a nome di chi agivano, dovevano intendersi come acquisti personali e non già della società. Assegna ancora al C. l'aver chiarito che dalla lettera di cambio "nascono due precisi rapporti di mandato, dei quali l'uno sorge con la persona che deve pagare, mentre l'altro sorge con la persona che deve ricevere". Segnala, infine, che le sue precisazioni sulla fideiussione e sul pegno vennero successivamente recepite "pacificamente dalla giurisprudenza". Al riguardo uno studio più approfondito potrebbe farci conoscere la reale consistenza del contributo offerto dal C. alla dottrina relativa a quegli istituti. Per ora appare preferibile limitarsi a sottolineare la chiarezza dell'impostazione seguita dal C. al riguardo, grazie alla quale la sua dottrina venne accolta dai giuristi successivi.
Un sicuro contributo del C. può essere, infine, rinvenuto nella soluzione di numerose questioni connesse con la vasta e complessa problematica successoria. Si deve ricordare che numerosi sono in questa materia i suoi consilia, a testimonianza dell'interesse che soprattutto i titolari di vaste proprietà immobiliari avevano per il parere di un noto giurista come lui, al fine di sistemare in modo adeguato la trasmissione mortis causa dei loro beni. Sono note, ad esempio, le soluzioni date dal C. al dibattuto problema del legato a favore del creditore e della successione al padre della figlia che aveva già ricevuto la dote.
Il suo interesse per le questioni giuridiche più vive perché connesse a problemi rilevanti della vita economica - interesse continuamente alimentato dalla feconda attività professionale (nell'esercizio della quale alcuni storici, come il Calasso, hanno affermato che egli si comportò sempre con notevole onestà) - la sua vasta cultura e l'indipendenza di giudizio lo fecero grandemente apprezzare dai suoi contemporanei (ad esempio, un giudizio estremamente positivo dà di lui Enea Silvio Piccolomini). Lo stesso Alciato, critico della tradizione scolastica italiana, avrà per il C. parole di elogio.
Fonti e Bibl.: Molte notizie sulla vita si rinvengono nelle sue opere, come è stato segnalato in precedenza. Si veda inoltre Pii secundi Commentarii...,Francofurti 1614, p. 185; Statuti della Università e Studio fiorentino...,a cura di A. Gherardi, Firenze 1881, ad Indicem; I Rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese..., a cura di U. Dallari, IV, Bologna 1924, pp. 47, 49, 52, 54, 56; Acta graduum acad. Gymnasii Patavini ab a. 1406 ad a. 1450, a cura di G. Zonta-G. Brotto, I-II, Padova 1970, ad Indicem. Il Del Re (P. di C., dottore di verità) pubblica la lettera del 31 ott. 1403 con cui il C.venne nominato podestà di Viterbo (App. I, pp. 231-233). Della vita e dell'opera del C. si sono occupati tra gli altri: A. Alciato, Parerga... Parergon iuris libri tres, Lugduni 1539, p. 130; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, II, Venetia 1647, pp. 208 s.; P. Freher, Theatrum virorum eruditione clarorum, Norimbergae 1688, p. 793; G. V. Gravina, Origines iuris civilis…, I,Lipsiae 1708, pp. 200 s.; G. Panciroli, De claris legum interpretibus…, Lipsiae 1721, pp. 186-189; N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, I, Venetiis 1726, pp. 213 s.; F. Bussi, Ist. della città di Viterbo, Roma 1742, p. 224; V. Bini, Mem. istor. della perugina Univ. degli studi e dei suoi professori, Perugia 1816, pp. 331-334; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital.,III, Milano 1833, pp. 33 s.; G. Ferlio, Celebriores doctorum theoricae, Romae 1840, pp. 85 s.; B. G. Moscheni, Sulla tradiz. che P. di C. e Giovanni da Imola avessero parte nella compilazione degli Statuti lucchesi, in Atti della R. Accademia lucchese di scienze, lettere ed arti, X (1840), pp. 19-53; F. C. von Savigny, Storia del diritto romano nel MedioEvo, Torino 1857, II, pp. 671 nota i, 675, 695-699; III, pp. 527-531; V. Curi, L'Universitàdegli studi di Fermo, Ancona 1880, p. 28; E. de Teule, Chronologie des docteurs en droit civil del'Université d'Avignon (1303-1791), Paris 1887, p. 17; L. Zdekauer, Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894, p. 38; G. Salvioli, Trattato di storia del diritto italiano...,Torino 1908, p. 571; E. Besta, Le Fonti, in Storia deldiritto italiano, a cura di P. Del Giudice, I, 2, Milano 1925, pp. 859 s.; F. Pardi, L'interessenella sua storia, Lucca 1937, p. 51; E. Bussi, Laformaz. dei dogmi nel diritto comune..., Padova 1939, pp. 25 s., 81, 103, 106, 110, 134, 207, 282; N. Del Re, Sei consigli ined. di P. di C. nei codiciVat. lat. 8068, 8069, 11605 e Urbin. lat. 1132, Roma 1945; F. Calasso, Medio Evo del diritto, I, Le Fonti, Milano 1954, pp. 369, 490, 581 s., 592; E. Stendardi, Memorie storiche della distruttacittà di Castro, Viterbo 1959, pp. 19, 35; L. Martines, Lawyers and Statecraft in RenaissanceFlorence, Princeton 1962, pp. 87, 186, 499 s.; D. Maffei, La donaz. di Costantino nei giuristimedievali, Milano 1964, pp. 288-290; H. Lange, Die Rechtsquellenlehre in den Consilien P. di C., in Aktuelle Fragen aus modernen Recht und Rechtsgeschichte. Gedächtnisschriftfür R. Schmidt, Berlin 1966, pp. 421-440; T. Diplovataccio, De clarisiuris consultis, a cura di F. Schultz-H. Kantorowicz-G. Rabotti, in Studia Gratiana, X (1968), pp. 356-358; N. Del Re, P. di C., dottore dellaverità, in Studi senesi, s. 3, XIX (1970), pp. 194-236; J. Kirshner, P. di C. on Cives ex privilegio: A Controversy over the Legal Qualifications forPublic Office in early Fifteenth-Century Florence, in Renaissance Studies in Honour of H. Baron, Firenze 1971, pp. 229-264; G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis1600, Frankfurt am M. 1972, ad Indicem;L. Hain, Repertorium bibliographicum...,II, nn. 4598-4646; W. A. Copinger, Supplementum...,nn. 4617-4644; Indice gen. degli incunaboli delleBiblioteche d'Italia, IV, nn. 7271-7304.