PAOLO VI, papa, santo
PAOLO VI, papa, santo. – Nacque a Concesio, piccolo paese a otto chilometri a nord di Brescia, il 26 settembre 1897, secondogenito di Giorgio Montini e di Giuditta Alghisi. Il 30 successivo fu battezzato con i nomi di Giovanni Battista, Enrico, Antonio, Maria.
Il padre, laureato in legge a Padova e dal 1881 al 1911 direttore del quotidiano dei cattolici Il Cittadino di Brescia, nel 1895 sposò Giuditta Alghisi. Dal 1897 l’avvocato Montini divenne la guida riconosciuta del movimento cattolico bresciano e si dedicò sempre più alla vita pubblica: tra i fondatori a Brescia del Partito popolare italiano, nel 1919 fu eletto alla Camera dei deputati finché nel 1926, per l’appartenenza al gruppo secessionista dell’Aventino opposto al fascismo, fu dichiarato decaduto dal mandato parlamentare. Oltre a Battista, dal matrimonio nacquero due figli: il primogenito Lodovico, avvocato, membro dell’Assemblea costituente, poi deputato e senatore, e il terzogenito Francesco, medico.
Tra il 1903 e il 1915 Battista frequentò come esterno, con interruzioni dovute alla salute precaria, le scuole elementari, il ginnasio e parte del liceo nel collegio Cesare Arici, tenuto a Brescia dai gesuiti, e partecipò ai gruppi giovanili animati dagli oratoriani di Santa Maria della Pace, uno dei luoghi socialmente più avanzati e dal punto di vista religioso più aperti del cattolicesimo bresciano. Tra i preti oratoriani incontrati alla Pace, incisero nella vita di Battista soprattutto Giulio Bevilacqua e Paolo Caresana, che fu suo direttore di coscienza e confessore dal 1913. Proprio in quell’anno prese a frequentare a Chiari una comunità di monaci benedettini lì trasferitisi dalla Francia e fu allora che iniziò a maturare in lui l’idea di prepararsi al sacerdozio.
Dall’autunno del 1916 Battista seguì le lezioni del Seminario di Brescia come uditore esterno e il 29 maggio 1920 nella cattedrale di Brescia fu ordinato sacerdote dal vescovo Giacinto Gaggia.
Il 10 novembre 1920 entrò nel Seminario Lombardo di Roma, iscrivendosi alla facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana e, con permesso speciale del vescovo, in quella di lettere dell’Università di Roma. Dopo un incontro con il sostituto della segreteria di Stato, Giuseppe Pizzardo, avvenuto il 26 ottobre 1921, fu destinato al servizio diplomatico e il 20 novembre entrò nella Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici. Interrotti con dispiacere gli studi di lettere, seguì quelli di diritto, laureandosi poi in sedi diverse, tra il 1922 e il 1924, in filosofia, diritto canonico e diritto civile. Tra il giugno e l’inizio d’ottobre del 1923 venne mandato in Polonia come addetto alla nunziatura apostolica di Varsavia per un periodo di prova, dal quale fu richiamato a Roma. Verso la fine di novembre fu nominato assistente ecclesiastico del Circolo universitario cattolico romano, inserito nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), e per circa un anno si dedicò quasi esclusivamente a un incarico poi combinato con il servizio diretto della Santa Sede. Il 24 ottobre 1924 entrò infatti in segreteria di Stato e nell’aprile 1925 vi fu promosso minutante. Nell’ottobre fu nominato assistente ecclesiastico nazionale della FUCI.
L’incarico con gli universitari lo portò a moltiplicare viaggi faticosi per tutta l’Italia, in una situazione per più d’un motivo complessa e difficile. La FUCI viveva un momento critico e l’assistente Montini e il presidente Igino Righetti dovettero lentamente conquistarsi la fiducia dei fucini. La riorganizzazione della FUCI passò anche attraverso lo sviluppo della stampa: la rivista Studium e i nuovi periodici La Sapienza (dal 1926) e Azione Fucina (dal 1928) dove l’assistente ecclesiastico pubblicò quasi duecento scritti. Alcuni furono raccolti nel volumetto Coscienza universitaria (1930) dalla Società editrice Studium, che stampò poi tre suoi libri: La via di Cristo, sui «precetti della morale cattolica» (1931), Introduzione allo studio di Cristo (1934) e Introduzione al dogma cattolico (1935), frutto quest’ultimo di un corso tenuto nell’anno accademico 1934-1935 alla facoltà giuridica del Pontificio Istituto Utriusque Iuris della Pontificia Università Lateranense. Nella stessa facoltà già nel 1931 aveva assunto l’insegnamento di storia della diplomazia pontificia, che mantenne fino al 1937. Nell’attività di formazione vanno inquadrate anche le versioni di due opere francesi che pubblicò con sue introduzioni presso l’editrice Morcelliana di Brescia: nel 1928 i Tre riformatori: Lutero Cartesio Rousseau di Jacques Maritain (al quale restò sempre legato) e nel 1934 La religione personale del gesuita Léonce de Grandmaison; entrambe le opere sono significative nel porre il problema della fede all’interno della modernità e delle sue contraddizioni.
Il clima politico e culturale imposto dal fascismo s’era intanto fatto asfissiante per la FUCI e per altre organizzazioni cattoliche. Già nel corso del 1925 si ebbero ripetute e gravi violenze contro i cattolici in diverse città, e le ostilità si moltiplicarono fino alla crisi del 1931, quando il 29 maggio Benito Mussolini diede ordine ai prefetti di sciogliere in tutta Italia le associazioni giovanili cattoliche. La reazione di Pio XI fu molto energica e arrivò il 29 giugno alla pubblicazione dell’enciclica Non abbiamo bisogno, fortemente polemica contro la decisione governativa: nei giorni immediatamente precedenti, nel timore che ne fosse impedita la pubblicazione in Italia, Montini ebbe l’incarico di portarne in incognito il testo alle Nunziature di Monaco e di Berna (cfr. Lettere ai familiari 1919-1943, a cura di N. Vian, premessa di C. Manziana, Brescia 1986, pp. 690-691 n. 2). Verso la fine di luglio comunque l’avvio da parte vaticana di una trattativa con il governo italiano iniziò a placare la polemica. Antifascista per formazione familiare e per convinzione, Montini aveva espresso già nel 1926, in una lettera scritta ai familiari il 4 novembre, un duro giudizio sul regime che aveva propiziato eccessi e violenze. Il cammino della FUCI fu reso ancor più difficile da alcuni ambienti ecclesiastici in un contesto cattolico italiano diviso non solo sul giudizio a proposito del regime fascista ma anche su indirizzi e scelte d’ordine culturale e spirituale. Già nel maggio 1925 Montini dovette difendersi con il cardinale vicario di Roma Basilio Pompili dall’accusa, proveniente dal vicecamerlengo Ugo Boncompagni Ludovisi, che il circolo universitario fosse asservito alla linea del Partito popolare. L’accusa si sommava all’ostilità dei gesuiti, che dirigevano alcune opere rivolte al mondo studentesco romano con metodi educativi tradizionalistici dai quali la FUCI si distingueva nettamente per una linea formativa molto più aperta. La situazione si aggravò quando nel 1931 a Pompili succedette il cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani, deciso fautore dei gesuiti: al nuovo vicario di Roma Montini fu denunciato nel maggio 1932 e all’inizio del 1933 fu lo stesso cardinale vicario ad accusarlo presso i suoi superiori della segreteria di Stato. Fattasi insostenibile la situazione, in febbraio Montini – al quale tuttavia Pio XI attestò la sua stima – con amarezza presentò le dimissioni, che in marzo furono accettate e pubblicate. Agli inizi di febbraio del 1930 era stato nominato segretario di Stato il cardinale Eugenio Pacelli in sostituzione del cardinale Gasparri, che aveva lasciato l’incarico, assunto nel 1914, per divergenze personali con Pio XI. E di Pacelli monsignor Montini, che dal 1932 si trasferì nella Città del Vaticano assumendone anche la cittadinanza, divenne progressivamente uno dei più stretti collaboratori, finché il 16 dicembre 1937 fu pubblicata la sua nomina a sostituto della segreteria di Stato e segretario della Cifra. La candidatura, che lo poneva ai vertici della Santa Sede, fu sostenuta da Pacelli, prevalendo su quella del segretario personale del papa, Carlo Confalonieri, che Pio XI avrebbe preferito; Montini succedeva a Domenico Tardini, nominato lo stesso giorno segretario della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. Nei mesi successivi Montini fu inoltre nominato consultore delle congregazioni del S. Uffizio e Concistoriale e protonotario apostolico, e nel settembre 1939 avvenne il suo trasloco in un appartamento del palazzo apostolico, spettante alla sua carica, ma nello stesso tempo espressivo della crescita del suo ruolo personale. Nel maggio del 1938 accompagnò a Budapest il segretario di Stato, legato pontificio al trentaquattresimo congresso eucaristico internazionale, e all’alba del 10 febbraio 1939 fu il primo a essere chiamato al capezzale di Pio XI morente.
Eletto papa Pacelli, Montini restò sostituto anche con il nuovo cardinale segretario di Stato Luigi Maglione e continuò a godere della fiducia e dell’amicizia del suo antico superiore; la sua importanza s’accrebbe dopo l’agosto del 1944 quando, morto Maglione, il papa decise di governare direttamente la segreteria di Stato attraverso i suoi due più stretti collaboratori, e cioè Montini e Tardini, che il 29 novembre 1952 vennero nominati prosegretari di Stato (rispettivamente per gli Affari ordinari e per gli Affari straordinari). La promozione avrebbe dovuto essere seguita, secondo la prassi, dalla creazione cardinalizia dei due ecclesiastici (e dall’eventuale scelta di uno dei due come segretario di Stato), ma questi non vennero compresi tra i cardinali creati nel concistoro del gennaio 1953. La decisione papale fu tanto inconsueta che Pio XII volle giustificarla, affermando nell’allocuzione concistoriale che erano stati i suoi due vicinissimi collaboratori a declinare l’offerta del cappello cardinalizio, ma con ogni probabilità il gesto del papa era stato solo un atto formale di fronte al quale Pio XII si aspettava appunto una rinuncia, non avendo intenzione di creare cardinali i due responsabili della segreteria di Stato; questi mantennero così le loro cariche.
La lunga permanenza di Montini ai vertici della segreteria di Stato – quindici anni da sostituto e altri due come prosegretario di Stato per gli Affari ordinari, preceduti da tredici anni come minutante – è il periodo meno conosciuto della sua vita.
Alla vigilia del conflitto mondiale fu lui a preparare nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1939 l’abbozzo dell’estremo ma inutile appello di pace che Pio XII lanciò per radio il 24: «Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra» (Anni e opere, p. 34). Fino all’immediato dopoguerra l’opera del sostituto fu in buona parte assorbita dall’azione umanitaria svolta dalla Santa Sede e da quella di ricerca e diffusione di notizie su militari e civili travolti dalle vicende belliche: a questo scopo venne organizzato un apposito Ufficio informazioni e dal 1940 al 1946 la Radio Vaticana trasmise un milione e duecentomila messaggi. Legato da antica amicizia con Alcide De Gasperi, Montini ne appoggiò con discrezione ed efficacia la linea politica e l’azione, in un contesto curiale ed ecclesiastico non univoco nemmeno da questo punto di vista – discussa era anche l’opportunità di riunire i cattolici italiani in un unico partito – e anzi in genere piuttosto diffidente nei confronti dell’apertura, pur nella lealtà al papa, dimostrata da Montini in diversi ambiti e questioni. Costante fu il suo appoggio alla guida di De Gasperi della Democrazia cristiana, e cauta simpatia espresse per l’esperimento francese dei preti operai e nei confronti degli esponenti laici più responsabili e aperti dell’Azione cattolica, anch’essi osteggiati da settori curiali.
Parallele all’importanza di monsignor Montini (che nell’agosto 1951 compì un viaggio in America Settentrionale), crebbero così in Curia l’ostilità e l’opposizione alla sua linea e alla sua persona, non attenuate dalla promozione a prosegretario di Stato, ma comunque tenute a freno dalla fiducia personale di Pio XII. La benevolenza e la stima personale del papa non furono però sufficienti a impedire che il 1° novembre del 1954 s’arrivasse all’inattesa nomina di Montini ad arcivescovo di Milano, vissuta dall’interessato e generalmente interpretata come una rimozione dal suo ufficio di vicinissimo collaboratore del papa. La decisione poneva tuttavia il prelato cinquantasettenne alla testa della più importante diocesi del mondo per numero di preti, parrocchie e istituzioni, anche se la nomina non venne accompagnata dal cappello cardinalizio, tradizionalmente assegnato agli arcivescovi di Milano. Il nuovo arcivescovo fu consacrato il 12 dicembre a S. Pietro dal cardinale decano Eugène Tisserant (durante il rito fu trasmesso per via radiofonica un saluto del papa che, malato, non aveva potuto ordinarlo).
Il 6 gennaio 1955 l’arcivescovo Montini fece il suo ingresso nella diocesi di Milano. Così, dopo aver percorso tutta la carriera curiale fino al vertice, il prelato bresciano si trovava di colpo proiettato ad affrontare i complessi problemi della città che dal punto di vista economico, sociale e religioso più rappresentava la ricostruzione e la crescita tumultuosa del Paese.
Fin dal discorso per l’ingresso in diocesi l’arcivescovo affermò la necessità di «un cristianesimo vero, adeguato al tempo moderno» in una città che gli apparve subito presentare in modo unico ricchezza di tradizione religiosa e modernità. Dopo una preparazione di quasi due anni, dal 5 al 24 novembre 1957 si tenne una capillare «missione di Milano», proposta dai parroci della città e definita da Montini uno «sforzo pastorale per richiamare alla vita religiosa, sincera, autentica, una intera città». Per l’occasione l’arcivescovo scrisse un «invito ai lontani». Dall’inizio dell’episcopato una speciale attenzione fu riservata al mondo del lavoro e il presule venne presto definito «l’arcivescovo dei lavoratori»; già negli anni Quaranta Montini aveva avuto parte nella fondazione delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani).
Accanto all’impegno in diocesi, frequenti furono le manifestazioni o celebrazioni a cui l’arcivescovo partecipò in Lombardia e nel resto d’Italia, in Svizzera, Francia e Irlanda, mentre progressivamente la sua figura assunse i contorni di papabile nonostante la difficoltà, teoricamente non insormontabile, ma di fatto decisiva, costituita dal non essere rivestito della porpora cardinalizia. Il 9 ottobre 1958 morì Pio XII, alla cui salma Montini rese omaggio lo stesso giorno a Castelgandolfo e che commemorò in una celebrazione tenutasi il 12 in duomo a Milano. Il nome di Montini risuonò più volte nei preparativi del conclave, e durante le votazioni ebbe alcuni voti dimostrativi.
Il nuovo papa Giovanni XXIII, eletto il 28 ottobre, non esitò a promuovere subito Montini, che conosceva fin dagli anni Venti, e già il 4 novembre gli comunicò la sua intenzione di crearlo cardinale insieme a Tardini, suo segretario di Stato. Papa Roncalli collocò anzi l’arcivescovo di Milano, con il titolo presbiterale dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, al primo posto della lista dei cardinali creati nel suo primo concistoro il 15 dicembre, testimoniandogli poi in molteplici modi quella che lo stesso Montini definì, ormai divenuto papa, «l’affezione, che egli sempre ci dimostrò» (Insegnamenti, XI, p. 565). Di questo rapporto privilegiato il cardinale Montini non abusò, dimostrando discrezione e riservatezza. Il 25 gennaio 1959, a sorpresa, Giovanni XXIII annunciò l’intenzione di convocare un concilio ecumenico e il giorno seguente Montini sottolineò con un messaggio alla diocesi l’importanza dell’evento; l’8 maggio 1960 espresse poi in una lettera al segretario di Stato Tardini i suoi pareri e auspici sul concilio, insistendo tra l’altro sulla necessità di promuovere il dialogo ecumenico per ricomporre l’unità tra i cristiani, primo di una serie di interventi che si moltiplicarono soprattutto in seno alla Commissione centrale preparatoria, della quale il cardinale di Milano fu nominato membro il 6 novembre 1961. Dal 3 al 16 giugno 1960 fu di nuovo negli Stati Uniti e poi in Brasile, e dal 19 luglio al 20 agosto 1962 in sei Paesi africani.
L’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il Concilio ecumenico Vaticano II, alla cui prima confusa e difficile fase il cardinale Montini partecipò assiduamente, sostenendo con cautela, ma anche con decisione, la linea della maggioranza riformatrice che andava formandosi: intervenne in aula il 22 ottobre a sostegno della necessità di una riforma liturgica e soprattutto il 5 dicembre appoggiando l’intervento pronunciato il giorno prima dal cardinale arcivescovo di Malines-Bruxelles Leo Jozef Suenens, uno degli esponenti più autorevoli della maggioranza conciliare; con questa Montini apparve quindi apertamente schierato. In primavera andò aggravandosi la malattia del papa, che morì la sera del 3 giugno 1963. L’agonia e la morte di Giovanni XXIII segnarono la sua apoteosi e rivelarono i consensi senza precedenti che la sua figura aveva suscitato in tutto il mondo, ben al di là dei fedeli cattolici. Celebrando il 7 nel duomo di Milano per la morte del papa, Montini affermò chiaramente la necessità di proseguire la linea del suo pontificato identificata con alcuni punti qualificanti, e cioè lo sviluppo dell’«internazionalizzazione della Chiesa», la convocazione del concilio, la partecipazione dei vescovi «non certo all’esercizio (che resterà personale ed unitario), ma alla responsabilità del governo della Chiesa», l’ecumenismo e la predicazione della pace: «Potremo noi mai lasciare strade così magistralmente tracciate, anche per l’avvenire, da Papa Giovanni? È da credere che no!». Il conclave, che cominciò la sera del 19 e in cui entrarono ottanta cardinali (un numero senza precedenti), durante la preparazione fu dominato dalla questione del concilio e alla fine Montini apparve il candidato in grado di assicurare la continuità con Roncalli e di sostenere la maggioranza conciliare non soltanto agli elettori a questa vicini. Nonostante i consensi più larghi della sua base elettorale, il cardinale arcivescovo di Milano dovette superare con ogni probabilità antiche e tenaci opposizioni, riuscendo alla fine eletto papa al quinto scrutinio il 21 giugno 1963. L’annuncio dell’elezione fu seguito da quello del nome scelto dal nuovo papa, che aveva deciso di chiamarsi Paolo VI ispirandosi all’apostolo che era stato il più grande annunciatore di Cristo.
Nei primi atti del pontificato Paolo VI volle sottolineare la continuità con il suo predecessore: nello stesso giorno della sua elezione confermò come segretario di Stato il cardinale Amleto Giovanni Cicognani e nelle rispettive cariche gli altri cardinali di Curia, ma soprattutto il 27 giugno stabilì per il 29 settembre successivo la ripresa del concilio, sospeso alla morte del papa; il 30 giugno ebbe luogo sul sagrato di piazza S. Pietro la solenne cerimonia dell’incoronazione. Il 5 agosto a Castelgandolfo Montini scrisse alcune riflessioni sul suo nuovo ruolo: «Bisogna che mi renda conto della posizione e della funzione, che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, alla Chiesa, all’umanità. La posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. [...] La lucerna sopra il candelabro arde e si consuma da sola. Ma ha una funzione, quella di illuminare gli altri; tutti, se può. Posizione unica e solitaria; funzione pubblica e comunitaria. Nessun ufficio è pari al mio impegnato nella comunione con gli altri» (Meditazioni inedite, Brescia-Roma 1993, pp. 28-29, poi in Scritti spirituali, a cura di A. Maffeis, Roma 2014, pp. 90-91). L’acuta coscienza della responsabilità e dell’unicità del ruolo papale s’accompagnò in Paolo VI a quella dell’importanza della continuità con Giovanni XXIII, nella situazione delicatissima costituita dalla celebrazione del concilio che con tutta evidenza esigeva da parte del papa un atteggiamento più attivo, come già aveva avvertito Roncalli alla fine del primo periodo dei lavori conciliari. La questione si complicò a causa della crescente contrapposizione che in alcuni ambiti progressisti radicali si volle stabilire tra Roncalli e Montini. In questo contesto maturò in ambienti conciliari l’inconsueta proposta di canonizzare Giovanni XXIII al di fuori delle procedure ordinarie, iniziativa i cui prodromi si delinearono fin dall’autunno del 1963 e che venne da più parti interpretata come un’implicita contrapposizione alla figura e al pontificato di Pio XII, proprio mentre quest’ultimo era divenuto obiettivo di crescenti critiche per la sua azione durante la guerra. Paolo VI reagì annunciando il 18 novembre 1965 in concilio l’avvio secondo le norme delle cause di entrambi i suoi predecessori: «Sarà così […] evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri» (Insegnamenti, III, p. 638). Da parte sua Montini, fin da quando era arcivescovo di Milano, difese sempre la memoria di Pio XII – disponendo anche la pubblicazione degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (I-XI, Città del Vaticano 1965-81) – e rievocando Giovanni XXIII contrastò sistematicamente la contrapposizione tra i due predecessori, non trascurando mai di evidenziare complessità e limiti di figure alle quali si sentì legato anche se non del tutto affine, come mostrò la scelta di non assumere né il nome di Pio né quello di Giovanni.
In una contingenza storica preparata da decenni di movimenti culturali, religiosi e sociali che all’inizio del Novecento avevano attraversato la crisi modernista, il concilio rappresentò la prima e più urgente preoccupazione del papa che subito dopo essere stato eletto l’aveva riconvocato. Paolo VI fece così suo il Vaticano II, anche se con ogni probabilità non avrebbe mai preso l’iniziativa di convocare un concilio, essendo ben consapevole dei problemi che ne sarebbero sorti e per le opposizioni che da varie parti avrebbe suscitato. Per questo papa Montini avvertì tutta la responsabilità di condurre la maggiore assemblea episcopale mai riunita nella storia verso un rinnovamento profondo del cattolicesimo e ne guidò i lavori con pazienti mediazioni e talvolta con decisioni personali alla ricerca comunque del maggior consenso possibile, attentissimo e sensibile agli orientamenti conciliari di cui fu scrupolosamente rispettoso, ma anche fermo nell’avocare alla competenza e all’autorità papale alcune questioni cruciali. Così il 21 settembre 1963, poco prima della ripresa dei lavori dell’assemblea, egli affrontò il nodo fondamentale della Curia romana in un discorso ai suoi membri in cui si dichiarò sicuro del loro consenso e annunciò l’intenzione di riformarla, giocando d’anticipo su eventuali iniziative del concilio in proposito e offrendo un inequivocabile segnale di disponibilità nei confronti delle critiche che da più parti erano state rivolte agli organismi curiali durante la preparazione e l’avvio del Vaticano II. Aprendo il 29 settembre i lavori del secondo periodo, il papa espose in un discorso, che presentò come un’anticipazione della sua enciclica programmatica, gli obiettivi del concilio: l’approfondimento della nozione di Chiesa, il rinnovamento del cattolicesimo, l’unità tra i cristiani e il dialogo con gli uomini contemporanei. Da sempre sensibile al dialogo ecumenico, a proposito della divisione tra i cristiani Montini ebbe accenti del tutto nuovi: «Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo perdono anche ai fratelli che si sentissero da noi offesi». Il 10 novembre Paolo VI fece l’ingresso nella sua cattedrale di S. Giovanni in Laterano e il 4 dicembre chiuse il secondo periodo conciliare: durante la sessione conclusiva di questa fase dei lavori venne tra l’altro approvata quasi all’unanimità e promulgata la costituzione Sacrosanctum concilium, che avviò la riforma liturgica, e il papa annunciò a sorpresa un suo imminente viaggio in Palestina, dove nessun successore di Pietro era mai tornato, mentre da un secolo e mezzo nessun papa aveva più lasciato l’Italia. Il viaggio, che ebbe un’ampia risonanza internazionale, fu brevissimo, dal 4 al 6 gennaio 1964: Paolo VI arrivò ad Amman, in Giordania, e in Israele toccò i principali luoghi santi (Gerusalemme, Nazaret e la Galilea, Betlemme), ripartendo ancora da Amman. A Gerusalemme incontrò diversi esponenti cristiani e per due volte la massima autorità ortodossa, il patriarca di Costantinopoli Atenagora, accentuando così l’intenzione di dialogo ecumenico a cui più volte negli anni precedenti s’era dimostrato molto sensibile. Durante l’incontro di congedo con il presidente israeliano, papa Montini riservò alcune parole alla difesa della memoria di Pio XII, di nuovo attaccato per la sua azione durante la guerra.
Al complesso procedere conciliare s’intrecciarono nuove iniziative papali. Seguendo il modello dell’organismo conciliare voluto nel 1960 da Giovanni XXIII per favorire l’unione dei cristiani, il 19 maggio 1964 Paolo VI costituì un Segretariato per i non cristiani (preannunciato in una lettera del 12 settembre 1963 al cardinale Tisserant) al fine di favorire relazioni amichevoli con i seguaci delle altre religioni. La scelta del dialogo venne confermata nel 1964 dalla prima enciclica del papa: il testo – scritto in italiano e terminato nell’originale interamente autografo l’11 luglio – venne intitolato Ecclesiam suam e datato 6 agosto, festa liturgica della Trasfigurazione del Signore. Con l’intenzione d’incoraggiare l’opera del concilio sul dovere e la necessità per la Chiesa di «approfondire la coscienza di se stessa», di riflettere sul suo necessario rinnovamento e di dialogare con il mondo moderno, il papa delineò nel manifesto programmatico del pontificato l’apertura della Chiesa cattolica nei confronti di tre cerchi concentrici intorno a essa, il primo costituito da «tutto ciò ch’è umano», compresi quanti si professano atei, il secondo dai credenti delle religioni non cristiane, e il terzo dagli altri cristiani, nella convinzione profonda del suo ruolo: «La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate». Aperto il 14 settembre 1964 il terzo periodo dei lavori conciliari a cui venne ammesso per la prima volta un gruppo di uditrici sia religiose sia laiche, durante una liturgia in rito bizantino celebrata a S. Pietro il 13 novembre Paolo VI depose sull’altare la sua tiara, simbolo dei poteri papali, offrendola per i poveri. La tiara, regalo dei milanesi al loro antico arcivescovo, fu poi donata ai cattolici statunitensi e collocata nel santuario dell’Immacolata Concezione di Washington, mentre da allora il papa non fece più uso di nessun’altra tiara.
Il concilio conobbe proprio dopo la metà di novembre, a ridosso della conclusione del terzo periodo, uno dei suoi momenti più critici, percorso da tensioni fortissime a proposito dei nodi cruciali ormai sul tappeto: la libertà religiosa, le relazioni con gli ebrei, l’ecumenismo e la collegialità episcopale. Quest’ultima, sostenuta da una forte maggioranza, bilanciava la definizione dogmatica dell’infallibilità papale decisa nel concilio Vaticano I, e in proposito Paolo VI fece aggiungere un testo interpretativo (Nota explicativa praevia) al terzo capitolo del documento sulla Chiesa nell’imminenza dell’approvazione. Senza intervenire sul testo conciliare, l’iniziativa attenuò la resistenza della minoranza ostile alla collegialità con un’interpretazione in parte limitativa e spianò così la strada all’approvazione quasi unanime di uno dei documenti più importanti del Vaticano II, la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, promulgata insieme al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio il 21 novembre, ultimo giorno del terzo periodo. Nel discorso di chiusura il papa volle poi dichiarare Maria «madre della Chiesa», suscitando consensi ma anche critiche. Dal 2 al 5 dicembre compì il secondo viaggio internazionale del suo pontificato, recandosi a Bombay, con scalo a Beirut, per partecipare al trentottesimo congresso eucaristico internazionale.
Il 4 gennaio 1965 Paolo VI stabilì, insieme alla data d’inizio del quarto periodo dei lavori conciliari, che questo avrebbe dovuto anche concluderli; il 24, poi, annunciò il suo primo concistoro per la creazione di 27 cardinali, tenutosi il 22 febbraio: tra loro, l’arcivescovo di Lione Jean Villot (dal 30 aprile 1969 suo segretario di Stato). In questi mesi fu disposta e avviata la restituzione ad alcune Chiese ortodosse di venerande reliquie trasportate in passato in Occidente e il 5 marzo venne riconsegnato alla Turchia uno dei vessilli conquistati dalla flotta cristiana nella battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Il 7 aprile il papa completò, con l’istituzione del Segretariato per i non credenti, il trittico degli organismi curiali deputati al dialogo, secondo la prospettiva disegnata nell’enciclica programmatica Ecclesiam suam. Il 29 aprile venne pubblicata la seconda enciclica del pontificato, Mense maio, per la pace nel mondo, seguita il 3 settembre dalla terza, Mysterium fidei, sull’eucarestia. Il 14 settembre s’aprì il quarto e ultimo periodo del Vaticano II e il giorno seguente il papa promulgò, alla riapertura dei lavori conciliari, il motuproprio Apostolica sollicitudo con cui venne istituito il sinodo dei vescovi, un’assemblea rappresentativa dell’episcopato mondiale: ideato con funzione consultiva in applicazione del principio di collegialità stabilito dal concilio, il nuovo organismo tenne durante il pontificato di Paolo VI quattro assemblee ordinarie e una straordinaria. Mentre l’accelerazione dei lavori conciliari s’accentuava, il papa ebbe il 24 settembre un inconsueto colloquio con il giornalista Alberto Cavallari che fu pubblicato sul Corriere della sera del 3 ottobre. Lo stesso giorno partì per New York, dove visitò l’assemblea generale dell’ONU accompagnato da otto cardinali rappresentanti i cinque continenti, rivolgendo a nome del concilio un discorso dai toni semplici e solenni: «Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno» (Insegnamenti, III, p. 517).
Seguì l’ultima intensissima fase del Vaticano II durante la quale vennero tra gli altri approvati e promulgati, a larghissima maggioranza, i seguenti testi: il 28 ottobre la dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con le religioni non cristiane (incluso l’ebraismo, a proposito del quale il concilio deplorò «gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque»), il 18 novembre la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, e il 7 dicembre, vigilia della chiusura, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae e la costituzione pastorale sulla Chiesa contemporanea Gaudium et spes, dall’inizio inequivocabile: «La gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Proprio dal punto di vista ecumenico la sessione del 7 dicembre segnò l’apice del concilio con l’eliminazione dalla memoria della Chiesa di Roma e di quella di Costantinopoli delle scomuniche intercorse nel 1054: l’avvenimento, senza precedenti, fu sancito nello stesso tempo dal breve pontificio Ambulate in dilectione e da un thòmos patriarcale letti a Roma e a Costantinopoli e diede inizio a un’epoca nuova in cui le due Chiese tornarono a riconoscersi «sorelle».
Nell’omelia del 7 dicembre la visione montiniana dell’incontro tra la Chiesa e il mondo si dispiegò in tutta la sua ampiezza: «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. [...] Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» (ibid., p. 729).
Lo stesso giorno fu anche pubblicato il motuproprio Integrae servandae con il quale Paolo VI riformò il S. Uffizio che diveniva congregazione per la Dottrina della fede nella convinzione che «alla difesa della fede ora si provvede meglio col promuovere la dottrina». Il gesto papale intese così venire incontro, proprio alla vigilia della chiusura del Vaticano II, ai sentimenti della maggioranza conciliare dalla quale erano più volte venute critiche alla Curia e in particolare ai metodi, considerati non più sostenibili, del S. Uffizio e la decisione rappresentò un’anticipazione della riforma della Curia che Paolo VI fin dal 1963 aveva riservato alla competenza del papa. L’8 dicembre 1965, a quasi sette anni dal suo annuncio e a poco più di tre dal suo inizio, si concludeva il concilio ecumenico Vaticano II con una liturgia solenne celebrata in piazza S. Pietro e presieduta dal papa.
Concluso il Vaticano II, il pontificato di Paolo VI si trovò di fronte al compito d’applicare un insieme di documenti ampio e ricco quanto nessun’altra assemblea conciliare, se non forse quella di Trento quattro secoli prima, aveva prodotto e alla necessità d’avviare e governare le conseguenti riforme, destinate a incidere complessivamente sulla Chiesa cattolica (e in certa misura anche sulle altre confessioni cristiane) e a mutarne in profondità il volto per adeguarlo, come già aveva indicato Giovanni XXIII, al mondo moderno. Sin dalla preparazione del concilio la parola chiave fu dunque l’«aggiornamento» e la responsabilità di governarlo venne avvertita da Montini come il compito principale del suo pontificato. Già durante i dibattiti conciliari Paolo VI per la sua volontà di allargare il consenso alla linea riformatrice della maggioranza era apparso ai suoi esponenti più radicali troppo remissivo nei confronti delle richieste di una minoranza spesso accesamente aggressiva, mentre quest’ultima restava molto critica nei confronti d’un papa che avvertiva lontanissimo dalle proprie aspirazioni. Negli anni successivi al Vaticano II, questa duplice opposta insoddisfazione s’acuì e il papa si trovò tra due fuochi, esposto al confronto ricorrente con le figure, sempre più presentate come contrapposte, dei suoi due predecessori e a una conseguente impopolarità nell’immagine pubblica, dovuta in parte ai suoi tratti fini e riservati, ma anche e soprattutto creata da interessate semplificazioni degli organi d’informazione. Concluso il concilio, il cattolicesimo posto nei diversi Paesi di fronte alla sua applicazione, necessariamente lunga e laboriosa, accolse positivamente i suoi esiti, anche se vi furono divisioni tra conservatori e progressisti radicali, posizioni entrambe estranee alla linea riformatrice del Vaticano II. Si manifestarono poi larghe defezioni nel clero regolare e secolare, mentre la massa dei fedeli si trovò di fronte a un processo di secolarizzazione sempre più imponente e al fenomeno generale della contestazione, con la conseguente crisi d’autorità, che presto s’estese alla Chiesa e alla stessa figura del papa. La critica a Paolo VI divenne anzi aspra da destra e da sinistra, con accentuazioni molto polemiche e addirittura ignobilmente denigratorie.
L’accelerazione impressa al dialogo ecumenico tra le confessioni cristiane dal concilio e dalle iniziative di Paolo VI fu confermata già nel marzo 1966, quando ricevette il primate anglicano Michael Ramsey, sottoscrivendo una dichiarazione comune: questa inaugurò un dialogo teologico bilaterale, che nell’aprile del 1977 portò alla firma a Roma di un nuovo testo comune.
Fra le iniziative rinnovatrici, dopo la riforma del S. Uffizio una notificazione della Congregazione per la Dottrina della fede stabilì il 14 giugno 1966 che l’Indice dei libri proibiti non aveva più valore di legge ecclesiastica e nel 1967 i provvedimenti papali coinvolsero progressivamente gli organismi curiali: il 6 gennaio vennero istituiti il Consiglio dei laici – con il quale per la prima volta due laici (uno dei quali era donna), nominati sottosegretari, entrarono nella Curia romana con mansioni direttive – e la Pontificia commissione Iustitia et pax; il 6 agosto con il motuproprio Pro comperto sane fu decisa l’immissione nelle congregazioni romane di vescovi diocesani come membri di pieno diritto, e infine il 15 agosto, quattro anni dopo l’annuncio nel discorso del 21 settembre 1963, la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae riformò la Curia, introducendo i criteri dell’internazionalizzazione, dell’avvicendamento delle cariche, del collegamento con i vescovi e con le conferenze episcopali dei diversi Paesi, integrandovi gli organismi più recenti e istituendone altri nuovi, in un riordinamento complessivo che soprattutto riservò un ruolo centrale alla segreteria di Stato.
La riforma della Curia – portata avanti soprattutto dall’arcivescovo Giovanni Benelli (dal 1967 al 1977 sostituto della segreteria di Stato) – fu seguita il 28 marzo 1968 dall’abolizione della Corte pontificia e il 14 settembre 1970, alla vigilia del centenario della presa di Porta Pia, dallo scioglimento dei corpi armati pontifici, con eccezione della Guardia svizzera. Infine, il 21 novembre 1970 Paolo VI, con il motuproprio Ingravescentem aetatem, anticipò la misura più rivoluzionaria della riforma dell’elezione papale, poi completata dalla costituzione apostolica Romano pontifici eligendo del 1° ottobre 1975, escludendo dall’elettorato attivo in conclave (e da ogni carica curiale) i cardinali ultraottantenni. La decisione era legata, sulla base di raccomandazioni del concilio, all’introduzione del limite di 75 anni per il governo di diocesi e parrocchie con il motuproprio Ecclesiae sanctae (6 agosto 1966) e poi di limiti analoghi per gli uffici curiali, ma fu presa per evitare tra gli elettori inconvenienti connessi con il crescere dell’età, ed ebbe il chiaro effetto di ridurre considerevolmente il peso elettorale dei cardinali italiani di Curia. Il provvedimento senza precedenti del papa fu elemento importante di una politica che rimodellò il collegio cardinalizio con la creazione di un totale di 144 nuovi cardinali, in grande maggioranza non italiani, in sei concistori (compreso quello del 22 febbraio 1965) tenuti il 26 giugno 1967 (fu creato cardinale tra gli altri l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyła, che divenne Giovanni Paolo II), il 28 aprile 1969, il 5 marzo 1973 (aprì la lista dei nuovi cardinali il patriarca di Venezia Albino Luciani, suo successore con il nome di Giovanni Paolo I), il 24 maggio 1976 e il 27 giugno 1977 (tra gli altri ricevette la porpora l’arcivescovo di Monaco e Frisinga Joseph Ratzinger, poi divenuto Benedetto XVI).
Nei tre anni successivi alla conclusione del Vaticano II si concentrarono le ultime encicliche: Christi matri per la pace nel mondo (15 settembre 1966), Populorum progressio sullo sviluppo dei popoli (26 marzo 1967), che ebbe un’enorme risonanza per l’aperto sostegno alla necessità di un forte riequilibrio delle ricchezze e delle risorse mondiali a beneficio dei Paesi più poveri, Sacerdotalis caelibatus in favore del mantenimento del celibato ecclesiastico nella Chiesa latina (24 giugno 1967), preceduta di pochi giorni dal motuproprio Sacrum diaconatus ordinem del 18 giugno con cui fu ripristinato, nella Chiesa latina, il diaconato permanente, aperto anche a uomini sposati, e infine Humanae vitae per il controllo naturale delle nascite (25 luglio 1968). Il problema della pianificazione demografica aveva indotto già Giovanni XXIII a istituire nel marzo 1963 un’apposita commissione, allargata poi da Paolo VI; nel 1966 l’organismo pontificio concluse a maggioranza in favore della liceità della contraccezione anche non naturale nel quadro di una «paternità responsabile», ma il papa non accettò queste conclusioni e tra il 1967 e il 1968 fu elaborato il testo dell’enciclica: in linea con il magistero pontificio, ma coerente con le novità conciliari sul concetto di matrimonio, il documento papale si dichiarò contrario alla pratica della contraccezione se non con metodi naturali, in opposizione all’edonismo e alle politiche di pianificazione familiare, queste ultime spesso imposte ai Paesi poveri da quelli più ricchi. L’Humanae vitae sollevò tuttavia una tale bufera di critiche e di attacchi personali al papa anche in moltissimi ambienti cattolici che Paolo VI non utilizzò più il genere dell’enciclica nei suoi documenti successivi. Infatti l’enciclica era stata pubblicata mentre in tutto l’Occidente s’accentuavano il fenomeno della contestazione e la crisi generale dell’autorità, e le reazioni fortemente negative, per la prima volta in misura rilevante anche tra il clero e persino nell’episcopato, si sommarono alle critiche che nei confronti del papa si moltiplicavano ormai da sinistra come da destra. L’accoglienza dell’enciclica fu diversa nei Paesi più poveri, dove il suo appello a una maggiore giustizia nella distribuzione delle ricchezze fu letto come logica continuazione della Populorum progressio, tanto che nella conferenza mondiale della popolazione tenutasi nel 1974 a Bucarest la Santa Sede si schierò sulle posizioni dei Paesi comunisti e di quelli non allineati. Poco prima della pubblicazione dell’Humanae vitae il papa recitò il 30 giugno 1968 il Credo del popolo di Dio, professione di fede composta sulla base di testi tratti da concili anteriori, ma interpretata negli ambienti più progressisti come un arretramento rispetto al Vaticano II. Il 30 novembre fu pubblicata una dichiarazione della commissione cardinalizia incaricata nel 1967 di esaminare il «nuovo catechismo» (De nieuwe katechismus) olandese per gli adulti, pubblicato nel 1966 e sostanzialmente approvato dalla Santa Sede, ma al quale furono imposte chiarificazioni e aggiunte. In seguito a questa vicenda i rapporti tra Roma e la Chiesa olandese, già tesi per le posizioni radicalmente innovatrici di quest’ultima, s’inasprirono e più tardi si aggravarono ancora per le divergenze sul celibato ecclesiastico. Il caso olandese fu solo l’aspetto più clamoroso di un fenomeno diffusosi largamente nei diversi Paesi cattolici nella seconda metà degli anni Sessanta e che in più occasioni pose Roma di fronte a episodi di dissenso e contestazione. S’iniziò così a parlare di una svolta di Paolo VI nell’abbandonare la linea sostenuta negli anni del concilio. L’interpretazione, passata anche nella storiografia, ha il merito di sottolineare il ruolo del papa nell’affrontare gli eventi, ma non tiene sufficiente conto della crisi emersa nel cattolicesimo dopo il concilio e della polarizzazione delle tendenze affrontatesi già durante il Vaticano II, nei confronti delle quali Paolo VI espresse sempre una coscienza lucida e preoccupata. Questa tesi, inoltre, trascura o minimizza la continuità sostanziale nell’applicazione delle riforme conciliari, su una linea di costante apertura. Tra il 1967 e il 1970 infatti iniziarono a trovare attuazione i cambiamenti annunciati e disegnati negli anni precedenti. Si ebbero così le prime due assemblee, ordinaria e straordinaria, del sinodo dei vescovi, un iniziale rinnovamento della Curia e la soppressione dell’antica Corte pontificia, con un ricambio esteso di uomini avviato nel 1968 (accelerato dall’entrata in vigore all’inizio del 1971 dell’Ingravescentem aetatem), e infine la lunga e difficile applicazione della riforma liturgica, probabilmente quella di maggiore impatto sui fedeli e certo quella che più opposizioni suscitò: furono pubblicati tra il 1968 e il 1973 tutti i nuovi libri liturgici, tra cui nel 1970 il messale che sostituì quello di Pio V, pubblicato nel 1570 e più volte rivisto. Con una decisione senza precedenti poi il papa, che per la prima volta aveva introdotto delle donne come uditrici al concilio e in posti di responsabilità della Curia romana, proclamò nel 1970 due donne dottori della Chiesa, il 27 settembre santa Teresa d’Ávila e il 4 ottobre santa Caterina da Siena.
Tra il 1967 e il 1970 Paolo VI completò anche il disegno simbolico dei nove viaggi internazionali che portarono un papa, per la prima volta nella storia, nei cinque continenti. Dopo essersi recato durante il concilio in Terrasanta, a Bombay e a New York, il 13 maggio 1967 visitò in forma privata il santuario portoghese di Fatima nel cinquantenario della prima delle apparizioni mariane, a cui riservò solo un breve cenno nell’omelia quasi interamente dedicata alla pace. L’intento ecumenico fu prevalente nel viaggio in Turchia, dove il 25 luglio successivo incontrò a Istanbul il patriarca Atenagora (che aveva già incontrato a Gerusalemme e il quale dal 26 al 28 ottobre 1967 ricambiò la visita, ospite in Vaticano), recandosi il giorno seguente a Smirne ed Efeso. Meta del sesto viaggio fu la Colombia, per il trentanovesimo congresso eucaristico internazionale e la seconda conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, riunito a Medellín, e dal 22 al 25 agosto 1968 il papa si recò a Bogotá. Il 10 giugno 1969 a Ginevra visitò, nel cinquantesimo di fondazione, l’Organizzazione internazionale del lavoro, e quindi il Consiglio ecumenico delle Chiese; presentandosi all’organismo rappresentante la maggioranza delle confessioni cristiane (esclusa quella cattolica), il papa esordì con un’affermazione che andava direttamente al cuore del problema: «Il nostro nome è Pietro» (Insegnamenti, VIII, p. 399). Dal 31 luglio al 2 agosto fu la volta dell’Uganda, dove pregò davanti ai luoghi consacrati alla memoria dei martiri, cattolici (da lui stesso proclamati santi nella sua prima canonizzazione, il 18 ottobre 1964) e anglicani. Nell’ultimo viaggio internazionale, dal 26 novembre al 5 dicembre 1970, il papa toccò otto Paesi: Iran, Pakistan orientale, Filippine (a Manila, dove appena arrivato subì un attentato da parte di un fanatico boliviano, che lo ferì con un’arma da taglio, e dove poi volle visitare Tondo, uno dei quartieri più diseredati), Samoa orientali, Australia (a Sydney, dove consacrò il primo vescovo indigeno), Indonesia, Hong Kong (da dove rivolse un accenno alla Cina, che già nella sua visita all’ONU aveva auspicato venisse ammessa nell’Organizzazione) e Ceylon. Ai nove viaggi compiuti si aggiunsero due mete che al papa fu impossibile raggiungere per l’insormontabile opposizione dei rispettivi governi: nel 1966 la Polonia e nel 1968 la Spagna, dove il papa non poté recarsi per il rifiuto di Francisco Franco a rinunciare al diritto di presentazione dei vescovi che permetteva il controllo governativo sulle nomine episcopali. Dieci furono poi i viaggi del papa in Italia e frequenti le visite a parrocchie della sua diocesi. Tra i primi, significativi appaiono quelli compiuti per celebrare la messa nella notte di Natale: nel 1966 nella cattedrale di Firenze devastata dall’alluvione del 4 novembre, nel 1968 tra i lavoratori del centro siderurgico di Taranto e nel 1972 tra i minatori di un cantiere sul monte Soratte nei pressi di Roma. Il 24 ottobre 1964 fu a Montecassino per consacrare la chiesa ricostruita dell’abbazia e nell’occasione proclamò san Benedetto patrono principale d’Europa. Il 17 settembre 1977 compì l’ultimo viaggio recandosi a Pescara per il diciannovesimo congresso eucaristico nazionale italiano.
Durante il pontificato l’attività diplomatica e la politica internazionale della Santa Sede ebbero uno sviluppo considerevole: il numero di Stati con cui furono stabilite relazioni diplomatiche passò da 49 a 89, mentre si moltiplicarono i rapporti con le organizzazioni internazionali governative, a partire dalla missione con rango di osservatore permanente istituita presso l’ONU fin dal 1964. Tra le costanti di una politica multiforme e complessa vi furono la promozione della pace e la difesa dei diritti umani, in primo luogo della libertà religiosa. Dal 1968 Paolo VI fece celebrare il primo giorno dell’anno in tutta la Chiesa cattolica una «giornata della pace» e ripetuti furono i suoi interventi in favore di soluzioni negoziali dei conflitti, come avvenne soprattutto per la guerra in Vietnam, anche in contrasto con il governo statunitense. Altrettanto difficili furono i rapporti con diversi regimi dittatoriali o autoritari, spesso sedicenti cattolici, per gli appelli papali in favore di una maggiore giustizia sociale e del rispetto dei diritti umani soprattutto in America Latina ma anche in Europa, come mostrò il caso della Spagna franchista. Questa non perdonò mai al papa un suo intervento umanitario quando ancora era cardinale e i rapporti tra i governi spagnoli (nei quali figurarono anche ministri membri dell’Opus Dei) e la Santa Sede furono sempre molto difficili, culminando nel settembre 1975 con il rifiuto di Franco di concedere la grazia, richiesta da Paolo VI, a cinque condannati a morte. Il papa decise anche di proseguire, nonostante dubbi personali, la politica di apertura e di dialogo con i governi comunisti dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, che ebbe il fine principale d’ottenere condizioni minime di sopravvivenza per le comunità cattoliche. Avviata da Giovanni XXIII negli ultimi mesi del suo pontificato, questa linea – condotta con pazienti trattative soprattutto dall’arcivescovo Agostino Casaroli – fu assunta, fatta propria e difesa da Paolo VI, con decisioni drammatiche come nel 1974 la rimozione dalla sede di Esztergom del cardinale primate ungherese József Mindszenty e anche di fronte a critiche che arrivarono ad accusarlo di filocomunismo e di tradimento nei confronti delle «Chiese del silenzio». S’arrivò così a una serie di accordi, a iniziare dalla prima parziale intesa (15 settembre 1964) con l’Ungheria, e a numerosi incontri del papa con diversi esponenti dei regimi comunisti, compreso quello sovietico.
Notevole importanza assunse la lettera apostolica Octogesima adveniens (14 maggio 1971), indirizzata per l’ottantesimo anniversario della Rerum novarum al cardinale Maurice Roy, con la quale vennero aperte le porte al pluralismo politico e sociale dei cattolici. Sensibile alla politica per una formazione e una storia personali vicine alla tradizione politica dei cattolici più aperti, Montini fu il papa che più contribuì a distanziare la Chiesa cattolica, e in particolare la Santa Sede, dalla politica diretta. Questa tendenza si riscontrò soprattutto in Italia, nel rispetto dell’ambito di responsabilità proprio dei laici cattolici impegnati e con la fine della contiguità tra l’Azione cattolica e la Democrazia cristiana, anche se Paolo VI intervenne e sollecitò l’intervento dei vescovi (e della Conferenza episcopale italiana, di cui promosse la crescita e una certa autonomia) ogni volta che gli apparve necessario, come nel caso dell’introduzione del divorzio nella legislazione civile e del successivo referendum abrogativo.
Le riforme auspicate dal Vaticano II ricevettero ulteriore impulso negli anni Settanta da tre esortazioni apostoliche: l’Evangelica testificatio (29 giugno 1971) sulla vita di religiose e religiosi (ma nel 1974 Paolo VI si oppose a modifiche dello speciale voto d’obbedienza al papa dei gesuiti); la Marialis cultus (2 febbraio 1974) sul culto mariano; l’Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), ampia e innovatrice trattazione dei molteplici problemi dell’evangelizzazione dopo la terza assemblea generale del sinodo dei vescovi che nel 1974 aveva affrontato il tema. Il 9 maggio 1973 il papa annunciò l’anno santo del 1975 e lo indisse poi nella linea conciliare, mettendo al suo centro la riconciliazione (tema dell’esortazione apostolica Paterna cum benevolentia dell’8 dicembre 1974) e facendo precedere, per la prima volta nella storia, le celebrazioni romane del 1975 da quelle tenute nel 1974 in tutto il mondo. Poco dopo l’annuncio del giubileo, Paolo VI inaugurò il 23 giugno 1973 la nuova collezione d’arte religiosa moderna dei Musei Vaticani. Nel corso dell’anno santo del 1975 fu pubblicata il 9 maggio l’esortazione apostolica Gaudete in Domino, unico documento pontificio sulla gioia cristiana, e verso la sua chiusura, il 14 dicembre, Paolo VI compì nella Cappella Sistina un gesto simbolico senza precedenti ed espressivo del primato romano, baciando i piedi del metropolita ortodosso Melitone, capo della delegazione del patriarcato di Costantinopoli presente alla messa papale per il decimo anniversario della cancellazione delle scomuniche tra le due Chiese. Il 26 luglio 1976, per l’opposizione tenace e irriducibile al Vaticano II, sospese a divinis l’arcivescovo francese Marcel Lefebvre, uno degli esponenti più duri della minoranza conciliare.
Drammatica fu la reazione del papa all’oscuro sequestro e all’assassinio di Aldo Moro, per il quale il 21 aprile 1978 indirizzò un appello autografo agli «uomini delle Brigate Rosse» in favore della sua liberazione, presiedendo il 13 maggio in S. Giovanni in Laterano una messa in suo suffragio dopo la quale pronunciò una preghiera da lui composta: «Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro [...] ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale» (Insegnamenti, XVI, p. 362). Il 29 giugno Paolo VI celebrò a S. Pietro per il quindicesimo anniversario del pontificato e nell’omelia, quando «il corso naturale della nostra vita volge al tramonto», ne tracciò un bilancio dichiarando di aver operato a «tutela della fede» e «a difesa della vita umana» (ibid., pp. 519-525). Morì alla sera del 6 agosto 1978, nella residenza pontificia di Castelgandolfo, dopo un giorno di permanenza a letto. L’11 fu reso pubblico il suo testamento (scritto il 30 giugno 1965, con due brevi aggiunte): «Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara [...] Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? [...] E sento che la Chiesa mi circonda [...] ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore» (ibid., pp. 590-592). Dopo il funerale celebrato il 12 agosto in piazza S. Pietro, Paolo VI fu sepolto nella basilica vaticana.
L’11 maggio 1993 venne avviata nella diocesi di Roma la causa di canonizzazione. Il 19 ottobre 2014 Paolo VI è stato proclamato beato e il 14 ottobre 2018 santo da papa Francesco.
Fonti e Bibl.: Oltre i documenti negli archivi vaticani, le carte e la biblioteca personali sono conservati all’Istituto Paolo VI (Concesio, Brescia, www.istitutopaolovi.it), che pubblica un Notiziario (dal 1980), fonti (tra cui il Carteggio, dal 2012) e studi (tra questi, una biografia di autori diversi, 2014); i testi dell’episcopato sono in G.B. Montini, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), I-IV, Brescia 1997-98; quelli del pontificato, accessibili sul sito della Santa Sede (www.vatican.va), sono negli Insegnamenti di P. VI, I-XVI, Città del Vaticano 1964-79 (più un volume con le encicliche e uno di indici) e negli ufficiali Acta Apostolicae Sedis, 55-70, 1963-78; una fonte importante è in J. Guitton, Dialogues avec Paul VI, Paris 1967 (trad. it. Milano 1967); una ricostruzione biografica, con fonti e bibliografia, è in Anni e opere di P. VI, a cura di N. Vian, introduzione di A.C. Jemolo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1978; abbondante bibliografia (anche sul concilio), è in Paulus PP. VI. 1963-1978. Elenchus bibliographicus, a cura di P. Arató - P. Vian, Brescia 1981 (con aggiornamenti annuali in Archivum historiae pontificiae); approfondisce fonti e bibliografia G.M. Vian, P. VI, in Enciclopedia dei Papi, III, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000, pp. 657-674; infine, una testimonianza, con inediti, è in P. Macchi, P. VI nella sua parola, presentazione di C.M. Martini, Brescia 2001, 20142.