SAVIN, Paolo
. – Non si conoscono il luogo e la data di nascita dello scultore, del quale sono noti solo il nome del padre, Matteo, e alcune parrocchie di residenza nella città di Venezia: Santa Giustina, San Lio e San Giuliano (Markham Schulz, 2011, pp. 166 s., n. 506). Il suo nome è stato associato alla Zecca, ma erroneamente, dal momento che non compare nei registri di pagamento delle maestranze (Salvadori, 1997, p. 95).
La prima attestazione documentaria è datata 31 luglio 1506, quando i procuratori di S. Marco de citra stipularono con lui e con Giambattista Bregno un contratto per proseguire la decorazione della cappella Zen, lasciata incompiuta da Antonio Lombardo, allora in partenza per Ferrara (Jestaz, 1986, p. 195, doc. 45).
Nel 1501 il cardinale Giovanni Battista Zen aveva affidato alla Repubblica 5000 ducati per la costruzione del proprio monumento funebre: una cappella con imponente ciborio sovrastante alcune statue in bronzo, da situarsi nell’angolo sud-ovest della basilica di S. Marco. L’incarico era stato inizialmente assegnato ad Antonio Lombardo, ad Alessandro Leopardi e al fonditore Giovanni Alberghetti, quest’ultimo poi sostituito da Pietro di Giovanni Campanato.
Dopo aver consegnato i modelli per la statua della Madonna e il rilievo con il Dio Padre per il soffitto del ciborio, Lombardo, al momento di lasciare Venezia, nominò Savin come proprio sostituto (Avery, 2011, pp. 117-121).
Lo scultore, definito nel documento «incisor lignaminum», fu inizialmente incaricato della creazione di un cataletto funebre con gisant e sei figure femminili a fare da contorno alla cassa, da realizzarsi in collaborazione con Bregno, con il quale avrebbe dovuto dividere anche le spese per la cera e per la creta. Nell’aprile del 1507 Savin ricevette il pagamento per i modelli delle Virtù: con ogni probabilità le tre figure femminili del lato lungo verso l’interno della basilica, omogenee per stile e forma, spigolose nelle pose e coperte da panneggi realizzati mediante fitte pieghe parallele. Al contrario, le Virtù del lato lungo verso la piazza, differenti dalle prime e diverse tra loro, sono state attribuite a Bregno, a suo fratello Lorenzo e a un terzo scultore che lavorò su probabile modello di Antonio Lombardo. Le figure furono gettate in bronzo solo alla fine del 1507 da Piero Campanato (Markham Schulz, 1991, pp. 40 e 182-185). Entro la fine dello stesso anno, Savin consegnò anche i modelli del gisant e della cassa, richiesti dai procuratori in forme simili al monumento per Orsato Giustinian allora nella chiesa di S. Andrea della Certosa.
L’imponente figura del cardinale, dal volto scavato, sicuramente realizzato a partire dalla maschera mortuaria, è pesantemente adagiata su un cataletto retto da zampe leonine e sormontato da tre grandi cuscini con nappe angolari. Il sarcofago è composto, sui lati lunghi, da pannelli con decorazioni vegetali, animali e sirene, sui lati corti con l’epitaffio funebre e con lo scudo della famiglia Zen retto da putti. La figura del defunto, ritratto in abiti cardinalizi, tradisce l’attività di intagliatore di Savin: i ricami della veste mostrano un debito nei confronti dell’intaglio ligneo, apparendo rigidi e taglienti.
Nel settembre del 1510 furono registrati i pagamenti a Savin per il resto dei modelli consegnati al fonditore: il paliotto per l’altare, il trono per la Madonna, le statue raffiguranti il Battista e s. Pietro, diversi fregi e, infine, per aver aggiustato la Madonna di Antonio Lombardo, che si era danneggiata (Jestaz, 1986, pp. 201 s., doc. 66-67). Nell’ottobre del 1515 i procuratori chiusero ogni sospeso con Savin, retribuendo le ultime cifre richieste per la struttura architettonica, ovvero le colonne con relative basi, le paraste della parete di fondo, i fregi del timpano, le rose, le stelle e le teste di cherubini per la decorazione del cielo del ciborio. Un ultimo saldo fu compensato nel 1519 e, nel 1521, i lavori furono ufficialmente conclusi con l’inumazione del corpo del cardinale (M. Sanudo, Diarii, XXX, 1891).
Il progetto della cappella Zen è da ascriversi interamente ad Antonio Lombardo, regista della Sacra conversazione intimamente connessa con le composizioni delle pale belliniane e con la giorgionesca Madonna in trono di Castelfranco Veneto. A Savin spettano i modelli per le figure di s. Pietro e del Battista ai lati del trono della Vergine.
Il primo, avvolto in un ampio panneggio che lascia appena intravvedere la forma delle gambe, è una figura imponente e compatta, il cui unico movimento è rappresentato dalla torsione del collo verso la Madonna. Il Battista, più slanciato e asciutto, è invece immortalato nell’atto d’incedere e, contemporaneamente, di muovere entrambe le mani, restituendo l’impressione del moto anche nella parte superiore del corpo. Il collo è ancora una volta rivolto verso il centro della scena, catturato nel momento di massima tensione, con il tendine mandibolare teso che scende rigido fino alla stoffa del mantello. Il vello di cammello è accuratamente descritto nei particolari: i ciuffi di pelo scendono a lunghezze irregolari, e una cintura, terminante con gli zoccoli dell’animale, cinge la vita del santo. Alcuni particolari come le ciocche dei capelli, avviluppate su loro stesse e terminanti in riccioli rotondi, alternano solchi profondi e incisioni più leggere.
Il paliotto con la Resurrezione venne realizzato in un’unica lastra bronzea, entro la quale Savin articolò diversi livelli di rilievo, dal paesaggio naturalistico in stiacciato, con particolari incisi in fase di rinettatura, a parti più aggettanti come la mano o la gamba sinistra di Cristo. Nella composizione, comprendente anche sei soldati in pose differenti, lo scultore dimostrò un’attenzione per il dato scenografico, con l’espediente di poggiare i piedi del Redentore, così come le gambe di un soldato, direttamente sulla base aggettante del paliotto, nell’intento di identificare l’altare stesso come sepolcro di Cristo.
Anche l’apparato decorativo del monumento è da ascriversi a Savin, che in alcuni particolari elaborati, come la trama ornamentale del trono della Vergine, dimostrò notevole padronanza del basso rilievo e straordinaria originalità nell’invenzione di figure come i capri alati con la coda da sirena. I modelli delle paraste laterali e dell’arco sopra le statue, parzialmente dorati da Alvise e Piero Nigro (Jestaz, 1986, p. 209, doc. 96), dimostrano la loro dipendenza dal trono centrale, per raffinatezza del rilievo e temi riprodotti. La decorazione naturalistica delle colonne, nelle quali si alternano nespole, datteri, melagrane, fichi e grappoli d’uva, risulta invece più ruvida e meno raffinata, ma denota comunque notevole abilità nella disposizione degli elementi sul supporto cilindrico del fusto.
Al periodo dell’incarico per la cappella Zen risale anche un documento che attesta l’attività di Savin come intagliatore d’avorio. Il 19 aprile 1516 Bernardino Prosperi, emissario a Venezia di Isabella d’Este, rispondeva alla duchessa in merito alla sua richiesta di un Crocifisso in avorio dello scultore Michael Linder (Markham Schulz, 2011, p. 167). Prosperi proponeva, data la morte del tedesco, i lavori di un «maestro Paolo intagliatore, che dice di essere come fratello de maestro Antonio Lombardo», indicando un lavoro in avorio ed ebano dello scultore, disponibile per la cifra di 20 ducati. L’intagliatore fu identificato già dalla fine del XIX secolo in Savin, fidato collaboratore di Lombardo, anche se non sono note opere in avorio a lui attribuibili (Bertolotti, 1885, pp. 110 s., e Pizzati, 2008, pp. 90 s.).
L’affermazione di Savin nel campo dell’intaglio ligneo fu sancita dalla richiesta rivoltagli nel settembre del 1524 da Luca Minio, procuratore del complesso benedettino di S. Matteo nell’isola di Mazzorbo, di valutare un lavoro dello scultore Paolo Campsa. L’altare in legno, comprendente una Madonna e altre figure di santi, policromate e dorate, fu stimato da Savin, in collaborazione con l’intagliatore Pietro di Giovanni, per una cifra attorno ai 240 ducati (Markham Schulz, 2011, pp. 161 s., n. 495).
Sulla base dei documentati lavori per la cappella Zen, il catalogo di Savin ha subito notevoli accrescimenti, soprattutto grazie agli studi di Leo Planiscig del 1921. Lo studioso avvicinò ai modi di Savin, raccogliendo il consenso della critica anche più recente (Markham Schulz, 1983; Ead., 1994, p. 584; Avery, 2011), i due giganti bronzei dotati di anima meccanizzata che battono le ore sulla campana della torre dell’orologio affacciata su piazza S. Marco (Planiscig, 1921, p. 287 s.). Commissionata dal Senato sotto il dogado di Agostino Barbarigo, la costruzione della torre iniziò nel giugno del 1496, e già nel dicembre del 1497 Sanudo ricordava l’installazione dei giganti all’ultimo piano della costruzione (M. Sanudo, cit., I, 1879). Il nome di Savin non compare direttamente nei documenti, nei quali la fusione delle statue è associata a tale maestro Ambrogio dalle Ancore, probabilmente con la collaborazione di Sismondo Alberghetti, fusore a capo del settore dell’Arsenale dove furono gettate le statue (Avery, 2011, pp. 93-96).
I due giganti, presto definiti ‘mori’ a causa del colore scuro del bronzo, hanno le fattezze di un uomo giovane, dal volto liscio e imberbe, e di un uomo più anziano, con il volto segnato dalle rughe e da folti baffi. Hanno il corpo nudo, coperto solo da un vello di animale, scolpito in forme molto simili a quello che copre le membra del Battista Zen, al quale sono stati associati per l’attribuzione. Anche il modo di rendere le ciocche dei capelli, gonfie e rotonde, o i baffi, attorcigliati attorno a profondi solchi, tipici di una mano abituata a lavorare il legno, avallano l’inserimento nel catalogo di Savin.
Allo scultore furono poi avvicinati alcuni bronzetti, attribuiti sulla base della somiglianza con le Virtù del sarcofago Zen: una prima danzatrice conservata presso il Museo del Louvre, una seconda del Museo di Cluny sempre a Parigi e una figura femminile, forse una Fama, del Bode-Museum a Berlino (Planiscig, 1921, pp. 291-293). Negli anni Ottanta al catalogo si è aggiunta una Venere con Cupido del Getty Museum di Los Angeles (The J. Paul Getty Museum Journal, 1986, p. 261, n. 245). Le ricerche più recenti sullo scultore tendono a escludere completamente questa produzione di bronzetti in piccolo formato, incompatibile con i modi rigidi e poco aggraziati dimostrati nei bronzi documentati (Avery, 2011).
Ultima annessione al catalogo di Savin, mai condivisa dalla critica, è quella delle placche bronzee facenti parte del monumento dei dogi Marco e Agostino Barbarigo, commissionate nel 1515 da Vincenzo Grimani per la chiesa di Santa Maria della Carità e ancora prive di attribuzione. Fu John Pope-Hennessy a legare allo scultore i rilievi ora nella galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, sulla scorta della somiglianza con le fattezze di certi rilievi di Antonio Lombardo (Pope-Hennessy, 1968, pp. 180 s.).
Nulla è noto sulla data di morte dello scultore, che scompare dai documenti nel settembre del 1524.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Senato Terra, 13, cc. 157v-159r; Procuratori di S. Marco de citra, b. 242, f. Z.XXV.4, cc. 38d, 51r-52, 56d; b. 249A, f. VIII.b, nn. 6, 8, 13, 17, 28; b. 243, f. Z.XXV.15, cc. 7, 10, 11; S. Matteo di Mazzorbo, b. 3, f. 114, c. 1r. N. Erizzo, Relazione storico-critica della Torre dell’Orologio di S. Marco in Venezia: corredata di documenti autentici ed inediti, Venezia 1860; B. Cecchetti, Documenti per la storia dell’augusta ducale basilica di Venezia dal nono secolo sino alla fine del decimo ottavo, Venezia 1886, pp. 17-26, docc. 122-153; M. Sanudo, Diarii, I, Venezia 1879, col. 386; XXX, 1891, col. 168.
T. Temanza, Vite dei più celebri architetti e scultori veneziani che fiorirono nel secolo decimosesto, Venezia 1778, p. 89; L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, IV, Venezia 1823, pp. 342 s.; P. Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia: dal Medioevo sino ai nostri giorni, Venezia 1847, pp. 190 s.; A. Bertolotti, Artisti in relazione coi Gonzaga signori di Mantova: ricerche e studi negli archivi mantovani, Modena 1885, pp. 110 s.; P. Paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia. Ricerche storico-artistiche, I, 2, Venezia 1893, pp. 244-247; L. Planiscig, Venezianische Bildhauer der Renaissance, Wien 1921, pp. 220-222, 282-297; U. Thieme - F. Becker, Künsterlexikon, XXIX, Leipzig 1935, pp. 508 s.; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, X, 1, La scultura del Cinquecento, parte prima, Milano 1935, pp. 405-408; J. Pope-Hennessy, Essays on Italian sculpture, London 1968, pp. 180 s.; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Lo splendore, Trieste 1973, pp. 74, 139 nota 3, 141; A. Markham Schulz, Antonio Rizzo: sculptor and architect, Princeton 1983, p. 116 nota 18; B. Jestaz, La chapelle Zen à Saint-Marc de Venise: d’Antonio à Tullio Lombardo, Stuttgart 1986, pp. 195 doc. 25, 201 s. docc. 66-67, 209 doc. 96; The J. Paul Getty Museum Journal, XIV (1986), p. 261, n. 245; A. Markham Schulz, Giambattista and Lorenzo Bregno: Venetian sculpture in the high Renaissance, Cambridge 1991, pp. 11, 40, 182-185; Ead., La scultura, in Storia di Venezia. Temi. L’arte, a cura di R. Pallucchini, I, Venezia 1994, pp. 545-600; R. Salvadori, Venezia: guida alla scultura dalle origini al Novecento, Venezia 1997, pp. 95-97; A. Pizzati, Documenti, in Tullio Lombardo: documenti e testimonianze, a cura di A. Pizzati - M. Ceriana, Verona 2008, pp. 90 s.; V. Avery, Vulcan’s forge in Venus’ city: the story of bronze in Venice, 1350-1650, Oxford 2011, pp. 93-96, 117-124; A. Markham Schulz, Woodcarving and woodrcarvers in Venice, 1350-1550, Firenze 2011, pp. 161 s. n. 495, 166 s. n. 506; V. Avery, I bronzi Zen, in Quaderni della Procuratoria, 2012, pp. 72-83.