SARPI, Paolo
(Pietro). – Pietro Sarpi nacque a Venezia il 14 agosto 1552 da Francesco, mercante, originario di San Vito in Friuli, e dalla veneziana Isabella Morelli.
Morto precocemente il padre, fu accolto insieme alla madre e a una sorella minore nella casa dello zio Ambrogio Morelli, primo prete della parrocchia di S. Marcuola, che lo istruì nelle lettere e lo affidò quindi a un frate del vicino convento di S. Maria dei servi, Giovanni Maria Capella. La biografia di Fulgenzio Micanzio – unica fonte sulla famiglia e i primi anni – riferisce che Capella gli impartì lezioni di logica e filosofia, iniziandolo anche alla teologia. Fu probabilmente l’influenza del frate servita, cultore di Giovanni Duns Scoto e autorevole esponente dell’osservanza nell’Ordine, a orientare il ragazzo verso l’ingresso nel noviziato di S. Maria dei servi, avvenuto nel novembre del 1565, con la scelta del nome Paolo.
Da Venezia Sarpi passò in data imprecisata nel convento di Mantova, appartenente, come quello veneziano, alla Congregazione osservante, soppressa nel 1570. A Mantova, nell’ambiente culturale gravitante intorno alla corte dei Gonzaga, approfondì la conoscenza dell’ebraico, e tenne con successo pubbliche discussioni di tesi di filosofia e teologia. Nel 1572, probabilmente a Cremona, pronunciò i voti e fu ordinato sacerdote; due anni dopo ottenne il baccellierato. Non ha lasciato tracce documentarie un soggiorno a Milano presso l’arcivescovo Carlo Borromeo, ricordato da Micanzio (Pin, 2011-2012, p. 512). Nel 1575 Sarpi era comunque già rientrato nel convento di Venezia, per insegnarvi filosofia; nel 1578 conseguì il magistero in teologia all’Università di Padova e fu nominato reggente di studio in S. Maria dei servi. Nello stesso anno iniziò a redigere gli appunti su argomenti scientifici e filosofici noti come Pensieri.
La carriera proseguì rapida: nel triennio 1579-82 fu priore provinciale della provincia veneziana e, in tale veste, fece parte della commissione che elaborò le nuove costituzioni dei servi; nel 1585 venne eletto procuratore generale presso la Sede apostolica, la seconda carica dell’Ordine dopo quella di priore generale, grazie alla quale fu nominato nel 1587 consultore dell’Indice, anche se non risulta aver poi partecipato a riunioni della Congregazione (Frajese, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, pp. 154-158).
A Roma ebbe inizialmente la stima del cardinale protettore dei serviti Giulio Antonio Santori e dello stesso papa Sisto V, ma si legò anche a figure eccentriche rispetto agli indirizzi del pontificato sistino, come i gesuiti Nicolás de Bobadilla e Roberto Bellarmino e il cardinale Giovan Battista Castagna, futuro papa Urbano VII, continuando a coltivare interessi matematici e speculativi. Durante un viaggio a Napoli incontrò il filosofo Giambattista Della Porta. Possibili, ma non documentati, i rapporti con il matematico del Collegio romano Cristoforo Clavio, così come la partecipazione al dibattito allora in corso sul trasporto dell’obelisco vaticano (L. Cozzi, in P. Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici, a cura di L. Cozzi - L. Sosio, 1996, pp. XL-XLI).
Concluso il mandato di procuratore generale nel 1588, la sua ascesa si arrestò definitivamente. Il contatto con la Curia romana, in una fase di decisivo rafforzamento istituzionale della Chiesa della Controriforma e di centralizzazione del governo degli Ordini regolari, venne in seguito ricordato da Sarpi in termini molto negativi. Il ritorno a Venezia fu segnato da un rinnovato impegno negli studi e da rapporti più intensi con le cerchie politico-culturali della capitale e della vicina Padova: Sarpi partecipò agli incontri che si tenevano nel ‘ridotto’ di Andrea e Nicolò Morosini – cui si affacciò nel 1592 anche Giordano Bruno –, e nella casa-biblioteca padovana di Gianvincenzo Pinelli, punto di riferimento per patrizi veneziani, docenti universitari ed ecclesiastici dagli interessi sia classico-umanistici sia scientifici. Qui dovette conoscere, oltre al matematico raguseo Marino Ghetaldi, anche Galileo Galilei (L. Cozzi, in P. Sarpi, Pensieri naturali..., cit., p. XLVIII).
All’interno della rete dei suoi contatti vi furono medici e anatomisti: da Girolamo Fabrici d’Acquapendente e Santorio Santori, entrambi professori a Padova, a Pierre Asselineau, francese, calvinista e probabile tramite con gli ambasciatori di Francia André de Maisse e Philippe Canaye de Fresnes. Grazie a Canaye Sarpi entrò in contatto epistolare con Isaac Casaubon e Jacques-Auguste De Thou. Alla fine degli anni Ottanta aveva cominciato a frequentare regolarmente anche la bottega di mercerie all’insegna della Nave d’oro, gestita da riformati olandesi, ritrovo di mercanti e viaggiatori stranieri e crocevia di notizie provenienti da varie parti del mondo.
Mentre le sue relazioni s’infittivano, andava deteriorandosi la sua posizione nell’Ordine, diviso in fazioni dai pesanti interventi del cardinale protettore Santori (Barzazi, 2011-2012, pp. 461-473). Isolato, preso di mira da un confratello veneziano legato a quest’ultimo, Sarpi cercò di sottrarsi al clima di scontro sollecitando per due volte, nel 1600 e nel 1601, il sostegno del governo per ottenere la nomina a un vescovato veneto minore. In entrambi i casi la richiesta fu respinta dal papa. Il nunzio pontificio a Venezia Offredo Offredi manifestò dubbi sul credo religioso di Sarpi, riferendo voci secondo cui «egli con alcuni altri faccino una scoletta piena d’errori» (Branchesi, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, pp. 67-68).
Una testimonianza fondamentale sul definirsi della fisionomia intellettuale di Sarpi è costituita dai Pensieri naturali, metafisici e matematici, un cospicuo corpus di 655 annotazioni edite (1996) integralmente, insieme agli altri scritti superstiti di argomento scientifico e filosofico.
Si tratta di una sorta di diario intellettuale scritto in gran parte tra il 1578 e il 1597 e proseguito con minore assiduità nei primi due decenni del Seicento. Nei Pensieri stesi tra la laurea in teologia e gli anni del provincialato, Sarpi si misurò soprattutto con problemi attinenti all’ottica – i meccanismi della visione, la rifrazione, gli effetti della luce sui corpi celesti –; stese quindi note di acustica, sulla propagazione del calore e sul moto locale. Vi accompagnò una riflessione costante sui processi della conoscenza, nella quale riprese gli argomenti della critica nominalista ai canoni della scienza aristotelica innestandovi teorie corpuscolari attinte a Lucrezio, a Diogene Laerzio, a Erone d’Alessandria. Tale approccio si precisò in seguito nelle annotazioni dedicate alla materia e alle sue ‘trasmutazioni’, poste all’origine di ogni cosa, mentre nei Pensieri dei primi anni Ottanta filtravano echi di sperimentazioni chimiche e di osservazioni e dissezioni su animali volte ad approfondire il sistema circolatorio e la struttura dell’occhio (Pensieri naturali..., cit., pp. 18-20, 25-27). Durante il triennio romano Sarpi, a contatto tra l’altro con le discussioni sulla riforma del calendario promossa da papa Gregorio XIII, accantonò la stretta associazione tra ottica e astronomia e cominciò ad affrontare i problemi cosmologici con argomentazioni meccaniche e quantitative, anche sulla base delle teorie eliocentriche. Comparvero allora nelle sue annotazioni i grandi temi – moto dei proietti, accelerazione e caduta dei gravi, movimento delle maree – oggetto del dialogo con Galilei, avviato poco dopo l’arrivo di questi a Padova, nel 1592, e proseguito fino al 1609, con la collaborazione nella messa a punto del cannocchiale (Bucciantini - Camerota - Giudice, 2012, pp. 24-43).
Gli studi recenti hanno evidenziato analogie di percorsi e punti di contatto, ma l’apporto di Sarpi alle idee e alle invenzioni galileiane – così come a scoperte avvenute in svariati campi, dalla circolazione venosa al magnetismo – non appare puntualmente documentabile ed è stato a volte sopravvalutato, sulla scia di affermazioni di Micanzio. Del resto Sarpi colse l’importanza della spiegazione matematica dei fenomeni fisici, ma non riuscì mai ad abbandonare la visione qualitativa della dinamica e la strumentazione concettuale tardoscolastica (Sosio, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006). Continuò inoltre a disperdere la sua speculazione in una quantità di ambiti diversi: dall’ottica – nella quale raggiunse i livelli più alti di competenza – agli stati della materia, dalle strutture anatomiche umane alla biologia e al metabolismo degli animali. Le sue letture scientifiche rimasero comunque estese e aggiornate: nel 1602 commentò tempestivamente il De magnete (1600) di William Gilbert; nel 1615 ricevette da un corrispondente due scritti postumi di François Viète; redasse commenti ed estratti da varie opere di Johannes Kepler, tra cui la seconda edizione del Mysterium cosmographicum, del 1621 (Pensieri naturali..., cit., pp. LXXIII s., 509 s., 732 s.).
La critica sarpiana alle categorie aristoteliche della conoscenza rimase ancorata al nominalismo, in particolare a Guglielmo di Occam, ma accordò spazio crescente alla filosofia meccanicistica epicurea. Lo studio dei fenomeni sensoriali e percettivi si allargò gradualmente a temi etici: la felicità, concepita come stato di quiete rispetto al moto delle passioni, secondo una visione stoica corretta da riferimenti a dottrine dei cinici; la legge, definita in maniera relativistica come assunzione a norma dell’abitudine dei più. La meditazione sul mondo morale e politico-religioso raggiunse esiti corrosivi in una decina di pensieri scritti dopo il rientro da Roma, tra il 1588 e il 1591, dove Sarpi sviluppò in maniera originale idee sull’uso politico della religione già presenti nelle opere dei trattatisti della ragion di Stato e diffuse nella cultura delle élites. Il punto di partenza era l’impossibilità di raggiungere la tranquillità d’animo e di vivere «in anarchia», che spingeva gli uomini a cercare l’aiuto di due «naturali medicine» della loro debolezza: la «repubblica», ovvero l’organizzazione politica, e la «torà», la religione, designata con un termine ebraico che sottolinea la familiarità di Sarpi con la tradizione della legge mosaica (Pensieri naturali..., cit., pp. 306 s.). Istituzione umana, soggetta a mutamento e degrado, la «torà» era «proprietà» della «repubblica» (p. 307), che se ne serviva per consolidare il vincolo politico, ma non era – affermava Sarpi – necessaria alla solidità degli Stati e alla compattezza della società. Costituiva solo uno dei diversi strumenti che generavano timore e sottomissione negli uomini e risultavano più o meno efficaci a seconda dei momenti e dei luoghi. E infatti, concludeva, «a mezzodì e levante fa più effetto la torà, l’onore più nel settentrione, l’ambizione ne’ paesi medi» (p. 316). Influenze di autori antichi e moderni – da Lucrezio a Niccolò Machiavelli, da Pietro Pomponazzi a Jean Bodin, fino a Michel de Montaigne – si componevano in una visione libertina che privava la religione della sua più tradizionale funzione e separava culti religiosi e civiltà sulla base di considerazioni antropologiche e climatiche, contemplando la possibilità di una società di atei (Wootton, 1983; Tuck, 1993, pp. 98-99; Frajese, 1994).
Sarpi approfondì le indagini condotte in forma frammentaria nei Pensieri naturali, metafisici e matematici in tre brevi saggi, stesi verosimilmente sul finire del Cinquecento, ma fatti trascrivere a partire dal 1609 (per la datazione, accertata da Corrado Pin, cfr. Frajese, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, pp. 159-163).
Nel primo, noto con il titolo Arte di ben pensare apposto a una copia settecentesca, tornò sul tema a lui congeniale dei limiti della conoscenza umana, catalogando errori di elaborazione dei dati ricavati dalla percezione sensibile e «false opinioni» attinte all’esperienza – tra queste anche l’idea dell’immortalità dell’anima (p. 175) – e indicando la sospensione scettica del giudizio come passaggio obbligato in vista di una graduale educazione dell’intelletto, costretto a procedere per tentativi.
L’esigenza così manifestata di un metodico addestramento delle facoltà umane suggerì agli apologeti del Settecento un infondato accostamento di Sarpi a John Locke (Tuck, 1993, p. 98; P. Sarpi, Pensieri naturali..., cit., pp. 561 s.). Nel secondo trattatello – Pensieri medico-morali, un titolo pure non originale – discusse i temi correlati della felicità e della cura delle passioni seguendo lo schema espositivo del consiglio terapeutico proprio della letteratura medica ippocratico-galenica. Attraverso un intarsio di citazioni di autori classici – Epitteto, Plutarco, Seneca – filtrati dalla lettura di Montaigne e di Pierre Charron, ma riecheggiando forse anche testi di Mosè Maimonide (Frajese, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006), veniva qui indicata all’uomo saggio la via di una misurata composizione di piaceri e dolori, d’impegno e distacco, da conservarsi anche nelle opposte scelte dell’estraniazione e della partecipazione alla vita politica. Nel terzo scritto, Pensieri sulla religione, pervenuto in una copia da lui rivista, Sarpi tornò ad affrontare il fenomeno religioso, considerato non più dal punto di vista astrattamente sociale e politico delle annotazioni del 1588-91, ma in una prospettiva genetica e storica, sostanziata da argomentazioni del De la sagesse di Charron e dal riferimento a passaggi del De rerum natura di Lucrezio (Frajese, 1990).
In uno stile ellittico e aforistico ripercorse l’origine delle religioni – nate dall’amplificazione da parte dell’uomo dell’idea di se stesso di fronte al timore e all’ignoranza delle cause dei fenomeni naturali – e le distinse con riferimento alle componenti «operative» e «speculative», alle differenti posizioni relative di dio e dell’uomo, alla capacità di adattamento a cervelli «rozzi» e più «sottili» (Pensieri naturali..., cit., pp. 649 s.), nonché alle esigenze dell’autorità politica. Su queste basi indicò il tipo ideale di culto: quello in grado d’innalzare dio in una sfera altissima e distante dall’uomo, suscitando reverenza, ma non timore, scoraggiando la proliferazione di riti e definizioni dogmatiche. Un modello – ricordava – cui era stato in origine vicino anche il cristianesimo, guastato poi dal moltiplicarsi degli articoli di fede e dall’aspirazione della Chiesa a un ruolo politico concorrente con quello dell’autorità civile. La visione di stampo libertino esposta nei Pensieri naturali, apparentemente indifferente alla varietà delle religioni storiche, veniva qui superata da una classificazione dei culti sulla base di un principio di funzionalità e utilità sociopolitica. Ed emergeva per frammenti una ricostruzione della vicenda plurisecolare del cristianesimo che sarebbe stata in seguito sviluppata nelle opere storiche e nei consulti.
Quando completava e faceva copiare questi testi, Sarpi aveva ormai compiuto il passo che, a cinquantatré anni, trasformò la sua esistenza: il 28 gennaio 1606 era stato infatti nominato alla carica di consultore ‘teologo e canonista’ della Repubblica. Lo stesso giorno il Senato aveva approntato una prima risposta negativa all’istanza pontificia di revoca di alcune leggi veneziane che limitavano la proprietà ecclesiastica. Dopo la proclamazione dell’Interdetto contro la Serenissima, nell’aprile del 1606, Sarpi s’impose presto all’interno di un gruppo piuttosto ampio di consulenti giuridici e divenne figura chiave nella resistenza veneziana alle censure di Paolo V. Oltre al ‘protesto’, con cui il 6 maggio la Repubblica dichiarava ufficialmente nullo e invalido l’Interdetto e ordinava al clero veneto di continuare regolarmente le cerimonie religiose, scrisse numerosi consulti per il Senato e pubblicò testi a stampa destinati a larga circolazione in Italia e in Europa. Dalla metà di luglio ebbe un collaboratore assiduo nel confratello Fulgenzio Micanzio.
Entrato nella vita pubblica con l’occasione di una controversia clamorosa, Sarpi si trovò ad affrontare questioni fino ad allora estranee alla sua riflessione e a sperimentare registri di scrittura mirati alla comunicazione politica.
Nel più organico dei testi da lui redatti nel 1606 – le Considerazioni sopra le censure [...] di papa Paulo V contra la Serenissima Republica di Venezia – presentò al pubblico le ragioni veneziane, argomentando la profonda fedeltà della Repubblica al cattolicesimo. Emanando leggi in materia di proprietà ecclesiastica e punendo dei chierici criminali, Venezia aveva esercitato – affermò – il fondamentale diritto-dovere conferito da Dio alle autorità secolari di tutelare i propri sudditi e di prendersi cura dell’autentica pietà religiosa. Denunciò inoltre come pretestuosa l’accusa lanciata dal papa di violazione della «libertà ecclesiastica», un’espressione riferita ai soli privilegi patrimoniali e personali acquisiti dal clero, che tradiva il significato della «libertà cristiana» rivendicata da s. Paolo e praticata nella Chiesa dei primi secoli (P. Sarpi, Opere, a cura di G. Cozzi - L. Cozzi, 1969, p. 161). Anche nei consulti le allegazioni giuridiche si alternavano a riferimenti ai Vangeli, ai testi patristici, agli antichi concili (P. Sarpi, Consulti, a cura di C. Pin, I, 1, 2001). Il dissacrante analista dei culti religiosi si misurava ora apertamente sul terreno della polemica teologica.
La composizione diplomatica della controversia dell’Interdetto, avvenuta nell’aprile del 1607 grazie alla mediazione francese, lo lasciò in una posizione difficile. Nell’ottobre di quell’anno restò ferito in un attentato ricondotto ad ambienti vicini alla Curia. La scomunica nei suoi confronti rimaneva in vigore; emissari della corte romana, poi lo stesso generale dell’Ordine Filippo Ferrari, suo vecchio amico, cercarono inutilmente di convincerlo a fare atto di sottomissione al papa (Barzazi, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, pp. 492-497). Deluso dal clima di smobilitazione promosso dai settori più moderati del ceto dirigente, vide il suo ruolo di consultore eclissarsi: nei due anni successivi all’Interdetto venne interpellato dal governo raramente e su argomenti di rilievo secondario. Si ritrovò così ai margini della politica veneziana, malgrado il costante sostegno di membri di spicco del patriziato, dal doge Leonardo Donà a Nicolò Contarini, al più giovane Domenico Molin, con il quale manterrà sempre un rapporto strettissimo. Fu invece, nello stesso periodo, al centro dell’interesse degli ambienti politico-religiosi europei che miravano a fare della Venezia uscita dall’Interdetto la base – nell’Italia dominata dal Papato e dalla Spagna – di un vasto schieramento comprendente i Paesi del Nord-Europa e la Francia di Enrico IV.
Sarpi cercò di assecondare tali disegni, di concerto con i patrizi a lui vicini, ma pure prendendo iniziative autonome. Insieme a Micanzio entrò in contatto con il cappellano dell’ambasciata d’Inghilterra a Venezia, William Bedell. Stabilì regolari scambi epistolari con personalità di spicco del mondo gallicano – in particolare Jacques Leschassier e Jacques Gillot – e con riformati francesi, svizzeri e tedeschi come Jerôme Groslot de l’Isle, Philippe Du Plessis de Mornay, Jean Diodati, Christoph e Achatius von Dohna. A questi – ai protestanti soprattutto – manifestava liberamente la sua avversione per la Sede apostolica e l’auspicio che la smania di dominio del Papato, insieme all’incombente presenza della Spagna, venissero travolte dall’urto dei principi d’Oltralpe (P. Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, I-II, 1931; Lettere ai gallicani, a cura di B. Ulianich, 1961). Non è chiaro se queste trame clandestine mirassero semplicemente all’inserimento della Repubblica nella sfera d’influenza politica ed economica delle potenze del Nord o anche a quel distacco della Chiesa veneziana da Roma che troviamo spesso evocato nelle lettere. Quando, nell’estate del 1609, giunsero a Venezia agenti dell’Unione evangelica di Halle e delle Province Unite d’Olanda era ormai diffusa tra i corrispondenti la delusione per l’eccessiva cautela di Sarpi nel passare all’azione, in seguito deplorata dallo stesso Micanzio. L’attesa di un grande rivolgimento politico-religioso si esaurì definitivamente con l’assassinio di Enrico IV nel maggio del 1610. La corrispondenza con gallicani e protestanti rimase comunque fitta sino al 1612; si diradò in seguito, per estinguersi nel 1616-17. Tra il 1612 e il 1615 Sarpi tenne anche, parallelamente a Micanzio, un carteggio con Dudley Carleton, ambasciatore inglese a Venezia e quindi in Olanda (Opere, cit., pp. 635-719).
Nel critico triennio 1607-10 intensificò gli studi di storia ecclesiastica sotto lo stimolo dello scambio con i gallicani, che gli permise di avvicinarsi alla cultura storico-giuridica francese e agli istituti della Chiesa di Francia, legata al potere regio e autonoma da Roma (Pin, 2015a). Dai corrispondenti francesi, oltre che dal doge Donà e da Molin, fu sollecitato a ripercorrere le recenti vicende politico-diplomatiche nella sua prima vera e propria prova da storico, l’Istoria dell’Interdetto, ultimata nella primavera del 1610, ma pubblicata a stampa solo nel 1624, l’anno dopo la sua morte.
Nella lettera a Gillot dell’8 dicembre 1609 formulò con nettezza l’idea della totale alterità tra autorità civile ed ecclesiastica, la prima investita dell’esercizio della sovranità politica e della potestà di coercizione, la seconda operante in una sfera meramente spirituale (Lettere ai gallicani, cit., pp. 138-143). Di fronte ai contrasti interni alle Chiese protestanti Sarpi parteggiò comunque per il calvinismo più intransigente, apprezzandone il ruolo propulsivo nella politica europea, la convergenza tra istituzioni ecclesiastiche e civili, ma forse anche l’affermazione della distanza incolmabile tra uomo e Dio, che lo avvicinava al modello teologico valorizzato nei Pensieri sulla religione. Nel 1618 approvò, coerentemente, la condanna degli arminiani da parte del sinodo di Dordrecht (Cozzi, 1956, pp. 562 s., 608-611; Ulianich, 1956). Dai carteggi con gallicani e protestanti emergono anche altre componenti della sua visione etico-politica, riproposte in seguito nell’attività di consultore e di storico: la polemica contro i gesuiti, indicati come colonne del Papato; l’indignazione per il proliferare delle devozioni esteriori e delle cerimonie religiose e per l’ipocrisia imposta dal cattolicesimo romano agli italiani, costretti a «portare la maschera» (Lettere ai gallicani, cit., p. 133).
L’intenso confronto con i modelli antichi e moderni di organizzazione ecclesiastica sfociò nel Trattato delle materie beneficiarie, la cui stesura era avanzata all’inizio del 1610. Pervenuto in una copia originale con diversi interventi di Micanzio, circolato in numerose trascrizioni a penna sei-settecentesche, il Trattato illustrava, con grande impegno problematico e sforzo di sintesi, la parabola degenerativa percorsa dall’istituzione ecclesiastica lungo l’arco di un millennio. Sarpi mostrava come la povertà e l’organizzazione comunitaria della Chiesa delle origini fossero state progressivamente abbandonate, a causa delle trasformazioni dell’episcopato e del monachesimo – arricchiti da lasciti e donazioni –, dell’affermarsi del centralismo pontificio e del sistema dei benefici (G. Cozzi, in P. Sarpi, Opere, cit., pp. 240-242, 1301-1306).
Gli intenti sistematici di un Sarpi teologo si ritrovano anche nel Della potestà de’ principi, abbozzo di un’opera solo in parte sviluppata. Menzionato dal biografo, ma solo recentemente rinvenuto in una copia manoscritta seicentesca, tale testo fu concepito come una risposta al De potestate Summi pontificis in rebus temporalibus di Bellarmino, pubblicato nel 1610. La derivazione divina della sovranità del principe, l’obbligo di quest’ultimo di prescrivere leggi in materia ecclesiastica erano qui riaffermati combinando tesi di Bodin, di William Barclay e di Giacomo I Stuart, e mettevano capo a un’esaltazione della maestà senza limiti dei governanti laici di tono assolutistico e quasi hobbesiano.
A questa data Sarpi stava tuttavia abbandonando le ambizioni teoriche: tra il 1609 e il 1610 la sua attività di consultore al servizio del governo venne infatti intensificandosi e assunse un segno diverso. L’impegno ideologico del post-Interdetto lo aveva spinto a suggerire riforme radicali della materia beneficiaria e progetti autonomistici per la Chiesa veneta, improponibili al patriziato più devoto al papa e inserito nelle cariche ecclesiastiche (C. Pin, in P. Sarpi, Consulti, cit., I, 2, 2001, pp. 915-925). La sua prospettiva ora cambiava. Messi da parte progetti velleitari e dichiarazioni di principio, smorzati i toni antiromani più aggressivi, Sarpi adattò stile e approccio dei suoi interventi a sensibilità e interessi di un ceto dirigente dalle diverse anime, ancorando le sue proposte alla prassi giuridica tradizionale di Venezia e concentrandosi su una difesa più concreta e quotidiana della sovranità dello Stato, contro l’invadenza della Chiesa della Controriforma (Pin, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, pp. 390-392). La ricerca e lo studio dei documenti conservati negli archivi veneziani divenne così componente centrale del suo lavoro di consultore, mentre il consulto assumeva la struttura caratteristica di trattazione sintetica, volta a coniugare ricostruzione storica, analisi giuridica e attenta valutazione politica. Sarpi rivendicò in più occasioni la peculiarità dei metodi del consultore, distinti da quelli dei giuristi professionali (P. Sarpi, Opere, cit., pp. 464-467; Povolo, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006).
La gamma delle questioni sottoposte al suo vaglio si ampliò all’intera sfera ecclesiastica e giurisdizionale, con le controversie beneficiarie e sull’immunità del clero, i problemi degli Ordini regolari, i rapporti con le comunità greca ed ebraica, i conflitti con l’Inquisizione, le vertenze intorno a stampa e censura dei libri, di fronte alle quali Sarpi sollecitò costantemente il governo veneziano a far valere l’autonoma facoltà dello Stato di vigilare e proibire. Il campo della sua consulenza si estese anche a materie di più diretta rilevanza politica e dalle forti implicazioni internazionali: la disciplina dei feudi laici ed ecclesiastici – con i casi spinosi delle terre patriarcali aquileiesi o del vescovato di Ceneda –, i contrasti di confine, il dominio della Repubblica sul mare Adriatico, aspetto di un tema caldo nel dibattito europeo.
Alcuni consulti si allargarono alla dimensione di brevi trattati, in cui la legislazione veneziana attinente a determinati ambiti veniva condensata e reinterpretata nella chiave di una regolazione restrittiva della giurisdizione ecclesiastica e del pieno esercizio delle prerogative statali nell’ambito del sacro. Così nello scritto, alternativamente designato come trattato o discorso, Sopra l’officio dell’Inquisizione (1613), dove il recupero documentario delle norme introdotte dalla Repubblica avvalorava il dovere dello Stato di reprimere l’eresia evitando un controllo indiscriminato sui sudditi da parte della Chiesa (Pin, 2015b). Così ancora in Su le immunità delle Chiese, del 1620 (G. Gambarin, in P. Sarpi, Scritti giurisdizionalistici, a cura di G. Gambarin, 1958, pp. 259-301), o nelle Giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli (1621), in cui Sarpi stigmatizzava le responsabilità del governo veneziano nell’annosa questione feudale di Aquileia.
Il nuovo corso della sua attività pubblica impose compromessi e mediazioni e andò incontro ad alti e bassi. Tra la vigilia e lo scoppio della guerra dei Trent’anni la sua sintonia con il patriziato risentì gli effetti del confronto tra i sostenitori della linea antiasburgica e antipontificia e una dominante tendenza pacifista e moderata. Il ritmo della sua collaborazione rimase comunque alto, attestandosi negli ultimi quattro anni di attività a due consulti a settimana (Pin, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, p. 357). L’ufficio di consultore si era collocato stabilmente nell’organigramma del governo e aveva assunto la fisionomia destinata a mantenersi fino alla caduta della Repubblica (Barzazi, 1986, pp. 180-182).
La consuetudine con l’indagine storico-documentaria dovette incoraggiare Sarpi a tradurre in un vero e proprio progetto storiografico un interesse per il Concilio di Trento esplicitamente manifestato fin dal 1608 a Gillot (Lettere ai gallicani, cit., pp. 127 s.; Ulianich, 1999). Forse cominciata già nel 1611 (Pin, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006, p. 393), l’Istoria del Concilio tridentino fu redatta in gran parte tra il 1614 e l’inizio del 1616, conclusa infine nel 1617, sotto lo sguardo attento dell’ambasciatore d’Inghilterra Carleton e dello stesso re Giacomo I Stuart, che invitò a più riprese il consultore veneziano a trasferirsi a Londra. A organizzare la pubblicazione fu l’arcivescovo di Canterbury George Abbot, con una cerchia di puritani moderati variamente collegati al Merton College di Oxford. Nella primavera del 1618 un fiduciario dell’arcivescovo fece trascrivere a Venezia il manoscritto e lo inviò in Inghilterra, un fascicolo dopo l’altro, attraverso la rete commerciale che faceva capo a Daniel Nijs, un mercante olandese residente a Venezia e da tempo amico di Sarpi. Nel maggio del 1619 l’opera uscì a Londra presso il tipografo John Bill con lo pseudonimo Pietro Soave Polano, anagramma del nome dell’autore (Paolo Sarpi veneto), e un lungo sottotitolo di tono antiromano aggiunto da Marcantonio De Dominis, che inserì inoltre una propria dedica a Giacomo I. In novembre l’Istoria venne messa all’Indice. Gli interventi di De Dominis, schierato allora su posizioni arminiane, lasciarono Sarpi molto irritato. Grazie ai contatti di Micanzio con Jean Diodati, poté vedere una stampa in versione francese del testo originario, impressa a Ginevra nel 1621 (Barzazi, 2015, pp. 390 s.). La prospettiva del rientro in Italia di De Dominis turbò poi gli ultimi mesi della sua vita.
In quello che è considerato il suo capolavoro, Sarpi, lasciato alle spalle il modello del Trattato delle materie beneficiarie, si concentrò sull’evento chiave del cattolicesimo a lui contemporaneo e ne ricostruì «le cause e li maneggi» servendosi di fonti di varia natura, non ancora adeguatamente messe a fuoco dalla storiografia: carteggi diplomatici, memorie private, registri e voti conciliari (C. Vivanti, in P. Sarpi, Istoria del Concilio tridentino..., a cura di C. Vivanti, I, 1974, pp. LXXVIII-LXXXI). Il Concilio tridentino emergeva dalle sue pagine come il punto d’arrivo di un processo in corso da secoli, volto alla separazione del clero dalla società dei laici e alla concentrazione del potere nelle mani del papa, a scapito dei vescovi. Non una risposta alle aspettative di riforma della Chiesa, dunque, ma un’inaudita deformazione, che aveva segnato il trionfo della monarchia papale. Una vicenda tutta politica, inoltre, di lotta per il potere, rappresentata con acribia e forza polemica, guardando al metodo di Francesco Guicciardini (C. Vivanti, in P. Sarpi, Istoria del Concilio tridentino..., cit., I, 1974, pp. XXIX-XXXI; Asor Rosa, 1993). L’opera – di cui manca un’edizione critica – avrebbe consacrato Sarpi come il maggiore storico italiano del Seicento e insieme come il più agguerrito avversario della Controriforma in Italia.
Altri lavori storici gli furono affidati dal governo veneziano, in occasione della sfortunata guerra condotta nel 1615-16 contro gli arciduchi d’Austria e delle successive trattative diplomatiche. Scrisse così l’Aggionta e il Supplemento all’Historia degli Uscocchi di Minuccio Minucci (1617-1618) e l’incompiuto Trattato di pace et accomodamento, accostato all’Istoria del Concilio tridentino per lucidità d’analisi e forza polemica (P. Sarpi, La Repubblica di Venezia..., a cura di G. Cozzi - L. Cozzi, 1965; G. Cozzi, in P. Sarpi, Opere, cit., p. 1022).
Morì il 15 gennaio 1623 nel convento veneziano di S. Maria dei servi, dopo alcuni mesi di progressivo indebolimento e di crescente inappetenza.
Il Senato ordinò a Micanzio di redigere una relazione ufficiale sulla sua fine, che il confratello e fedele collaboratore, destinato a succedergli nella carica di consultore, rappresentò come avvenuta in serenità e con il conforto dei sacramenti. Seguirono solenni esequie pubbliche, celebrate con la partecipazione degli Ordini mendicanti cittadini, ma il proposito della Serenissima di erigergli un monumento fu affossato dalle vibrate proteste del nunzio pontificio e da un drastico intervento dell’Inquisizione romana, che proibì l’iscrizione sepolcrale (Infelise, in Paolo Sarpi. Politique et religion..., 2010, p. 351). Mentre lo scontro intorno alla sua persona iniziato con l’Interdetto veniva rilanciato dalla morte, la diffusione Oltralpe di copie dei suoi scritti s’intensificava, sotto il vigile controllo di Micanzio e Molin, alimentando una tradizione editoriale svoltasi per buona parte in Paesi protestanti e lungo circuiti clandestini (Infelise, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006; van Heck, in Paolo Sarpi. Politique et religion..., 2010; Barzazi, 2015).
Aspre polemiche si riversarono in seguito sulla memoria del frate, bollato dalla Curia come eretico e campione d’ipocrisia e difeso da Venezia come integerrimo servitore della patria e sincero cattolico, con l’avallo di qualificati settori dell’Ordine dei servi (Barzazi 2004; Ead., in Ripensando Paolo Sarpi, 2006). Tra accesi contrasti con Roma si svolsero sia il recupero dei suoi testi da parte dei giurisdizionalisti e dei riformatori illuministi nel Settecento sia le riletture in chiave laica e anticlericale nei decenni del consolidamento dello Stato unitario italiano (Infelise, 2008; Frajese, 1994). Sarpi è rimasto figura controversa e di difficile interpretazione anche dopo il decollo, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, di un nuovo ciclo storiografico, culminato nell’edizione delle Opere (1969) curata da Gaetano e Luisa Cozzi. A mano a mano che nuove ricerche facevano luce sulle sue relazioni, sui contesti della sua azione, sul quadro variegato della sua produzione, del servita venivano proposte immagini divergenti – calvinista, interprete di una radicata tradizione cattolica veneziana, seguace del conciliarismo, riformatore della Chiesa d’ispirazione latitudinaria e irenica –, sulla scorta delle molteplici e talvolta contrastanti posizioni da lui formulate nelle lettere, negli scritti di governo, nelle opere storiche (Trebbi, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006). La successiva laboriosa ricezione dei pensieri e degli altri scritti ‘privati’ non ha solo imposto all’attenzione una personalità capace di appropriarsi in maniera originale di spunti libertini e scettici circolanti nell’Europa dei conflitti confessionali, ma ha spinto anche a mettere da parte la periodizzazione convenzionale della vita di Sarpi scandita dalla cesura del 1606, che separava le fasi della meditazione filosofica e dell’impegno al servizio dello Stato, in realtà coerentemente collegabili (Frajese, in Ripensando Paolo Sarpi, 2006). Su questo sfondo, poco convincente e marcatamente apologetico risulta l’ultimo libro dedicato al servita, ritratto di un Sarpi ‘fideista’ e appassionatamente religioso, capace di servire insieme «God and State», grazie alla sua profonda volontà di «riforma» (Kainulainen, 2014).
Opere. Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, I-II, Bari 1931; Scritti giurisdizionalistici, a cura di G. Gambarin, Bari 1958; Lettere ai gallicani, edizione critica, saggio introduttivo e note a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961; La Repubblica di Venezia, la casa d’Austria e gli Uscocchi, a cura di G. Cozzi - L. Cozzi, Bari 1965; Opere, a cura di G. Cozzi - L. Cozzi, Milano-Napoli 1969 (ristampa con aggiornamento bibliografico a cura di C. Pin, Milano-Napoli 1997); Istoria del Concilio tridentino, seguita dalla “Vita del padre Paolo” di Fulgenzio Micanzio, a cura di C. Vivanti, I-II, Torino 1974; Venezia, il patriarcato di Aquileia e le “Giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli” (1420-1620). Trattato inedito di fra Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Udine 1985; Pensieri naturali, metafisici e matematici [e altri scritti], edizione critica integrale a cura di L. Cozzi - L. Sosio, Milano-Napoli 1996; Consulti, I, 1606-1609, a cura di C. Pin, 2 tt., Pisa-Roma 2001; Della potestà de’ prencipi, a cura di N. Cannizzaro (con un saggio di C. Pin), Venezia 2006; Istoria dell’Interdetto, a cura di C. Pin, Padova 2006.
Fonti e Bibl.: G. Cozzi, Fra P. S., l’anglicanesimo e la “Historia del concilio tridentino”, in Rivista storica italiana, LXVIII (1956), pp. 559-619; B. Ulianich, Sarpiana. La lettera del S. allo Heinsius, ibid., pp. 425-446; Id., Il principe Christian von Anhalt e P. S.: dalla missione veneziana del Dohna alla relazione Diodati (1608), in Annuarium historiae conciliorum, VIII (1976), pp. 429-506; G. Cozzi, P. S. tra Venezia e l’Europa, Torino 1979; D. Wootton, P. S. Between Renaissance and Enlightenment, Cambridge 1983; A. Barzazi, I consultori «in iure», in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi - M. Pastore Stocchi, 5, II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 179-199; Fra P. S. dei Servi di Maria. Atti del Convegno... 1983, a cura di P. Branchesi - C. Pin, Venezia 1986; V. Frajese, S. interprete del “De la Sagesse di Pierre Charron”: i “Pensieri sulla religione”, in Studi veneziani, n. s., XX (1990), pp. 59-85; A. Asor Rosa, “Istoria del Concilio tridentino” di P. S., in Letteratura italiana. Le Opere, II, Dal Cinquecento al Settecento, Torino 1993, pp. 799-866; R. Tuck, Philosophy and government 1572-1651, Cambridge 1993, pp. 96-101; V. Frajese, S. scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna 1994; B. Ulianich, Christoph von Dohna, Christian von Anhalt e la “Istoria del Concilio Tridentino” di P. S., in Annuarium historiae conciliorum, XXXI (1999), pp. 367-426; M. Bucciantini, Galileo e Keplero: filosofia, cosmologia e teologia nell’età della Controriforma, Torino 2000, ad ind.; A. Barzazi, Gli affanni dell’erudizione. Studi e organizzazione culturale degli ordini religiosi a Venezia tra Sei e Settecento, Venezia 2004, pp. 333-385; Ripensando P. S. Atti del Convegno nel 450° della nascita [...], a cura di C. Pin, Venezia 2006 (in partic. P.M. Branchesi, P. S. prima della vita pubblica, pp. 45-72; V. Frajese, Maimonide, il desiderio di immortalità e l’immagine di Dio. Problemi dell’insegnamento esoterico di S., pp. 153-181; L. Sosio, P. S., un frate nella rivoluzione scientifica, pp. 183-236; C. Pin, Qui si vive con esempi non con ragione: P. S. e la committenza di Stato nel dopo-Interdetto, pp. 343-394; C. Povolo, Un rapporto difficile e controverso: P. S. e il diritto veneto, pp. 395-416; A. Barzazi, Immagini, memoria, mito: l’ordine dei serviti e S. nel Seicento, pp. 489-518; M. Infelise, Ricerche sulla fortuna editoriale di P. S., 1619-1799, pp. 519-546; G. Trebbi, P. S. in alcune recenti interpretazioni, pp. 651-688); M. Infelise, Il S. di Francesco Griselini. Una rilettura illuministica?, in Dall’origine dei Lumi alla Rivoluzione. Studi in onore di L. Guerci e G. Ricuperati, a cura di D. Balani - D. Carpanetto - M. Roggero, Roma 2008, pp. 245-265; G. Trebbi, recensione a P. Sarpi, Della potestà de’ prencipi (2006), in Studi veneziani, n. s., LVI (2008); P. S. Politique et religion en Europe, a cura di M. Viallon, Paris 2010 (in partic. C. Vivanti, I due governi del mondo negli scritti di S., pp. 29-54; C. Pin, P. S. senza maschera: l’avvio della lotta politica dopo l’Interdetto del 1606, pp. 55-103; R. Descendre, “Un’altra sorte di guerra”: P. S. penseur de la guerre, après l’Interdit, pp. 309-331; M. Infelise, Che di lui non si parli. Inquisizione e memoria di S. a metà ’600, pp. 349-367; P. van Heck, La fortuna di P. S. in Olanda, pp. 369-405); P. Guaragnella, Il servita melanconico. P. S. e l’“arte dello scrittore”, Milano 2011; A. Barzazi, I servi di Maria dal Cinque al Seicento: tra antiche autonomie e centralizzazione romana, in I Servi di Santa Maria nell’epoca delle riforme (1431-1623). Atti del Convegno, Roma, 7-9 ottobre 2010, in Studi storici dell’ordine dei servi di Maria, LXI-LXII (2011-2012), t. 2, pp. 453-488; O.J. Dias, La documentazione dell’archivio generale OSM su P. S. frate tra il 1565 e il 1606, ibid., pp. 541-582; C. Pin, Fra P. S. e l’ordine dei servi di Maria, ieri e oggi, ibid., pp. 489-539; M. Bucciantini - M. Camerota - F. Giudice, Il telescopio di Galileo, Torino 2012, ad ind.; F. De Vivo, Patrizi, informatori, barbieri. Politica e comunicazione a Venezia nella prima età moderna, Milano 2012, ad ind.; C. Pin, S., P., in Enciclopedia Italiana. Ottava appendice: Il contributo italiano alla storia del pensiero. Filosofia, Roma 2012, pp. 258-267; J. Kainulainen, P. S.: a servant of God and State, Leiden-Boston 2014; A. Barzazi, «Si quid e Gallia afferatur, avide lego». Reti intellettuali, libri e politica tra Venezia e la Francia nella prima metà del Seicento, in Hétérodoxies croisées. Catholicismes pluriels entre France et Italie, XVIe-XVIIe siècles, a cura di G. Fragnito - A. Tallon, Roma 2015, pp. 374-410 (http://www.openedition.org/ 6540); M. Infelise, Fra P. S., in Oxford Bibliographies Online, 2015 (http://www.oxfordbibliographies.com/view/document/obo-97801953993 01/obo-9780195399301-0297. xml?rskey=lDmo 1k&result=1&q=paolo+sarpi#firstMatch, 22 settembre 2017); C. Pin, P. S. a colloquio con i gallicani, in Hétérodoxies croisées, a cura di G. Fragnito - A. Tallon, Roma 2015a, pp. 344-357; Id., «La plus belle pièce qu’il ait faite». Ripensando genesi e finalità del trattato “Sopra l’officio dell’Inquisizione” di P. S., in La polemica europea sull’Inquisizione, a cura di U. Baldini, Roma 2015b, pp. 3-98.