Paolo Sarpi: Opere – Nota introduttiva
Fra Paolo Sarpi era nato a Venezia, il 24 agosto 1552. Suo padre, Francesco, era un friulano, di San Vito al Tagliamento, che aveva esercitato la mercatura a Venezia e altrove, perfino in Sorìa; sua madre, Isabella Morelli, era veneziana, di buona famiglia borghese, o cittadinesca, come allora si diceva. «Uomo feroce, più dedito alle armi che alla mercatura», il primo, e mercante fallito, per giunta, ridottosi dopo vari insuccessi a «basso stato»: e lo descrivevano «di statura picciolo, di color bruno, di aspetto terribile» dai modi e dall'aria di un «bravo». Mentre la madre era «di statura grande, di color bianco, d'aspetto umile e mite al possibile», dedita alle devozioni, al punto che dopo la morte del marito aveva vestito abito di religiosa ed era «venuta in fama di singolar santità». Era un'unione da destar scalpore nella cerchia di famigliari e conoscenti, per quell'estremo contrasto di condizioni, di temperamenti, di modi e gusti di vita, ed il biografo del Sarpi, fra Fulgenzio Micanzio, suo allievo e collaboratore ed amico, lo sottolinea, ad apertura della sua operetta, quasi a farne la premessa necessaria per la comprensione della personalità sarpiana.[1]
Il Sarpi aveva trascorso la sua infanzia accanto alla madre ed alla famiglia di lei, ricevendo la prima istruzione da uno zio materno, Ambrogio Morelli, prete titolato della chiesa di San Marcuola a Venezia, il quale teneva anche una scuola di umanità. Gli studi successivi li aveva compiuti sotto la guida di un amico dello zio, il padre Giammaria Capella, dell'ordine dei servi di Maria, apprendendo filosofia e matematica, greco ed ebraico. Quanto alla filosofia, il Capella, appassionato cultore di Duns Scoto, doveva lasciare un'impronta profonda nel pensiero del discepolo, che resterà sempre legato ai nominalisti del Medio Evo, e all' Occam in particolare; altrettanta importanza aveva avuto sul piano religioso, aprendolo alla conoscenza e alla simpatia verso il suo ordine.[2] Il Sarpi appariva allora ai suoi compagni un ragazzo pacato, silenzioso, raccolto in se stesso e nel pensiero dei suoi studi: «Tutti noi a bagatellare» narrava uno di essi «e fra Paolo ai libri». E già fermo e sicuro nella scelta della sua strada: nel 1566, contro il volere della madre e dello zio che l'avrebbero voluto prete secolare, entrava nel monastero veneziano dci servi di Maria.[3]
Nell'ordine, dove continuava con la stessa alacrità gli studi, aveva subito modo di imporsi all'attenzione dei confratelli e dei superiori. Nel 1567 e nel 1570 aveva sostenuto a Mantova, in occasione di riunioni del capitolo dell'ordine, delle dispute pubbliche, su materie teologiche e canonistiche.[4] Nel 1567 a Bologna, in occasione analoga, disputava di teologia e di diritto canonico in presenza dello stesso vescovo della città, il celebre cardinale Gabriele Paleotti, uno degli esponenti superstiti di quel movimento di riforma cattolica che aveva avviato e sostenuto e ravvivato il concilio tridentino, e stava provvedendo ad applicarne le disposizioni secondo la sua peculiare sensibilità ecclesiologica. Il cardinale, pur elogiando calorosamente il giovane disputante, l'aveva invitato a dedicarsi a temi più gravi e proficui: il Sarpi gli aveva pertanto mandato delle tesi intorno alla predestinazione e alla riprovazione ricevendone lodi calorose, ma insieme l'ammonimento a conservare, accanto al suo eccezionale ingegno, probità di vita e onestà di costumi e umiltà: in tal caso, concludeva il Paleotti, «non dubito quin veram laudem apud omnes consequaris»[5].
Quei successi non avevano mancato di dar dei frutti. I superiori gli avevano fatto avere un piccolo appannaggio, in modo che potesse acquistar libri e studiare con profitto ancor maggiore. A Mantova, poi, il duca Guglielmo Gonzaga aveva voluto averlo presso di sé quale teologo, e il vescovo della città, Gregorio Boldrino, gli aveva affidato una cattedra di teologia positiva, con l'incarico di leggere in duomo «li casi di conscienzia». Compito delicatissimo, e di estremo impegno per un giovane che solo nel 1572 faceva la professione solenne nell'ordine. Vi aveva fatto sfoggio di originalità e di intenzione di andare a fondo delle cose. Svolgeva il suo compito, scriverà infatti il Micanzio, «con modo non usato, che era più tosto lettura delli canoni che de casi, e li veniva spesso a taglio entrar nel concilio tridentino allora molto recente»[6].
Il soggiorno mantovano stava riserbando al Sarpi, a questo proposito, un'esperienza di importanza fondamentale: l'incontro con Camillo Olivo, già segretario a Trento del cardinale Ercole Gonzaga, che nel 1561-1562 era stato al concilio quale legato di Pio IV. Il cardinale Gonzaga era stato impegnato alla sinodo in una delle dispute più aspre, quella sulla residenza dei vescovi nella loro rispettiva diocesi, la cui obbligatorietà egli, insieme ai vescovi francesi e spagnoli, voleva fosse definita come de iure divino, contro il parere dello stesso papa e dei prelati italiani, che la ritenevano di diritto pontificio. L'Olivo, accusato di aver riferito male allegato le istruzioni pontificie, era stato coinvolto nella sua disgrazia, e alla morte del Gonzaga, quando il concilio ormai era chiuso, era stato sottoposto al tribunale dell'inquisizione ed imprigionato. «Uomo versatissimo», lo definiva il Micanzio. E amaro, e polemico. Lo stesso Micanzio annotava che quando il giovane servita gli si rivolgeva per aver informazioni, Camillo Olivo «diceva delle cose del concilio come: Voi credete che sia un Evangelo, che se sapeste etc.». E il biografo proseguiva a narrare che, «fattisi strettissimamente famigliari, gli raccontava etc., li mostrava cose di sua mano osservate, lettere etc. Questo» concludeva «l'eccitò a cercare», d'allora in poi, tutto quello che concerneva la sinodo, «le cose stampate, dispute, voti, tutti li libri di quelli che si erano trovati».[7]
I suoi successi e i suoi atteggiamenti non potevano, d'altro canto, non provocare reazioni ostili. Un suo confratello, mosso, secondo il Micanzio, da rivalità, presentava allora contro di lui una denunzia al Sant'Offizio - la prima delle tre che dovrà subire -, accusandolo di aver sostenuto «che dal primo capitolo della Sacra Genesi non si poteva cavare l'articolo della SS. Trinità». Il Sarpi era stato costretto ad appellarsi a Roma, dove l'episodio si concludeva bene, col riconoscimento della sua innocenza. Era però il primo urto con i suoi confratelli, superato rapidamente, allora, ma il cui ricordo amaro, di una sopraffazione cui il tribunale ecclesiastico aveva prestato il suo concorso, non resterà senza traccia.[8]
Una personalità come quella di fra Paolo Sarpi non poteva passare inosservata al cardinale Carlo Borromeo, capo della diocesi ambrosiana, amico del Paleotti, uomo di punta pur lui della riforma cattolica. Il Borromeo stava affrontando con una coscienza altissima del suo dovere e della sua dignità episcopale, e, conforme ad essa, delle esigenze della Chiesa, i problemi più ardui del suo ministero, della scelta e della formazione del clero, dell'organizzazione parrocchiale e diocesana, dell'educazione della classe dirigente civile, dei rapporti tra potere ecclesiastico e potere civile: sentiva l'urgenza di organismi solidi ed operosi, condotti da uomini preparati, basati su norme e criteri adeguati ai tempi, ma fedeli alla memoria e allo spirito della Chiesa primitiva.[9] Egli seguiva attentamente l'affacciarsi, negli ordini religiosi, di giovani personalità che promettessero di corrispondere alle sue esigenze, e amava circondarsene e valersene nella cura della sua diocesi, per prediche, confessioni, istruzione religiosa al clero e alle popolazioni, per la lotta contro il protestantesimo che serpeggiava ai confini alpini del suo territorio, per quell'esempio di convinzioni e di intenti che avrebbero saputo diffondere intorno a loro.[10]
Ammirava moltissimo la compagnia di Gesù, tra cui già contava collaboratori come il padre Benedetto Palmio. Era riuscito ad avere il padre Achille Gagliardi, carattere passionale ed involuto, uno dei maestri, comunque, della mistica cattolica tra Cinquecento e Seicento:[11] non gli era stato mandato, invece, con suo gran disappunto, il padre Roberto Bellarmino.[12] Non aveva esitato, d'altro canto, a tenere presso di sé un transfuga della stessa compagnia, il padre Giovanni Botero, uomo di ingegno vivacissimo e di vasti interessi culturali.[13] Un secco rifiuto aveva ricevuto dal fondatore della congregazione dell'Oratorio, Filippo Neri, quando gli aveva chiesto il padre Cesare Baroni.[14] Positiva era stata, infine, la risposta dei servi di Maria, quando aveva pregato che gli mandassero il Sarpi. Si era nel1574, poco dopo che il giovane frate aveva conseguito, a Mantova, il grado di bacelliere, il primo nella gerarchia dell'ordine. Lo stare accanto al cardinale Borromeo, in quel momento cruciale della sua attività pastorale, doveva aver dunque costituito un'esperienza profonda, sul piano religioso ed umano. Ma a parte l'ammirazione suscitata dal fervore fattivo del cardinale, doveva esserci nell'ambiente milanese qualcosa che il Sarpi non trovava congeniale e che gli riusciva inaccettabile: probabilmente, l'imperniarsi di tutto intorno alla prepotente personalità del cardinale, il suo autoritarismo, che rendeva spesso difficili i suoi rapporti col clero, nonché con le autorità secolari - sono rivelatori, a tal proposito, gli appunti, di austerità e rigore eccessivi, di poca «clemenzia e lenitade», che il Paleotti rivolgeva al Borromeo.[15] Nella Vita del Sarpi, il Micanzio, parlando del soggiorno milanese, rievoca bensì elogiativamente i frequenti inviti del cardinale a membri del clero, e allo stesso fra Paolo, a partecipare alla propria mensa, secondo quanto facevano gli «antichi pastori, Ambrogio ed altri»[16]. Negli scritti del Sarpi non si trova però una sola espressione ammirativa nei confronti del Borromeo: anzi, nella !storia del concilio tridentino lo si addita implicitamente come uno degli strumenti usati dalla Sede Apostolica per imporre il proprio «giogo», all'Italia e per chiudere al più in fretta il concilio in ottemperanza agli interessi di quella; in lettere inviate durante e dopo il processo di canonizzazione del cardinale, gli si riserbano apprezzamenti sarcasticamente malevoli.[17] E all'indomani della stessa canonizzazione, un amico del Sarpi, riferendosi - mi par indubitabile- a confidenze di questi, narrava che il Borromeo era «du vivant de ceulx qui l'ont cogneu fort mondain et ambitieux», aggiungendo poi che «si on pouvoit recueillir au vrai sa vie, afin de l'opposer à sa legende ..., ce ne seroit ... sans fruict signalé»[18]. La permanenza del Sarpi a Milano durava infatti poco: nel 1575 era di ritorno a Venezia, ad iniziare nel suo vecchio monastero l'insegnamento della filosofia.
Tre anni, proficui, come vedremo, anche per i suoi studi, durava questa attività didattica, dal 1575 al 1578. Nello stesso 1578 era nominato reggente del suo monastero veneziano; nell'aprile del 1579 diveniva priore della provincia veneta, e, in tale qualità, era inviato al capitolo generale del suo ordine, che in quell'anno si teneva a Parma.[19] Quel capitolo parmense doveva restare, nelle memorie dell'ordine, quale simbolo di un suo momento felice: «Comitia» , si scriveva «tam laeta, tam abundantia, tam rerum et literatorum ubertate copiosa»[20] .Vi facevano spicco, strette intorno al priore generale allora in carica Giacomo Tavanti,[21] le forze più nuove e più vive dell'ordine, quelle che miravano a rinnovarlo, sul piano morale ed istituzionale, applicando le norme del concilio tridentino, conforme, soprattutto, allo spirito della riforma cattolica. Era presente il cardinale Alessandro Farnese, il quale era protettore sia dei servi di Maria che della compagnia di Gesù e voleva vedere in entrambi lo stesso slancio di azione religiosa; né poteva mancare suo fratello Ottavio, duca di Parma, pur lui devoto sostenitore della compagnia di Gesù . Per merito loro era stato possibile ottenere dal papa, Gregorio XIII, una deroga alle regole dell'ordine, vietanti la rielezione immediata del generale, e di mantenere così in carica il Tavanti, contro l'opposizione della parte conservatrice, diffidente delle innovazioni che si volevano apportare alle strutture tradizionali.[22]
Condizione indispensabile per realizzare l'opera di riforma era, per il Tavanti, predisporre nuove costituzioni. A tal fine il capitolo aveva eletto tre uomini, «i quali» scriveva lo stesso Tavanti «per ingegno, per sapienza, per dottrina fossero in grado non solo di modificare le norme esistenti, ma di emanarne anche di nuove» . Iprescelti erano il padre Cirillo Franco, il padre Alessandro Giani, prediletto dal Tavanti, ed infine il provinciale veneto, Paolo Sarpi: a quest'ultimo veniva affidata in particolare la stesura delle norme riguardanti la materia giudiziaria.[23] A conclusione del capitolo, toccava allo stesso Sarpi il compito di tenere una discettazione- «sustinere cathedram» , scrivono gli Annales dell'ordine- davanti allo stesso cardinale e al duca.[24] Il Sarpi, affermatosi ormai come uno dei maggiori esponenti della corrente dci riformatori, sembrava avviato verso la più brillante delle carriere. «Lasciò la provincia» commenta il suo biografo «con ordini et usi, i quali se fossero stati servati, l'avrebbero preservata da molti mali che l'hanno turbata poi ... Ne' giudizi diede saggio di una rettitudine inflessibile, e quello che poi per tutta la sua vita ha rigorosamente osservato, di mai ricevere donativo, per minimo che fosse, di mai ammettere altro uffizio in materia di giustizia se non d'accelerazione e di spedizione».[25] A riconoscimento di tali benemerenze il capitolo generale dell'ordine, riunitosi a Bologna, lo eleggeva, 18 giugno 1585, al posto di procuratore generale dell'ordine, il più alto, dopo quello di priore generale.[26]
L'insegnamento, le responsabilità di governo affidategli dall'ordine, i doveri di religioso, non assorbivano completamente l'attività e i pensieri del Sarpi. Nel decennio tra 1575 e 1585 assistiamo all'aprirsi della sua mente verso il mondo della scienza, nonché all'iniziarsi di contatti umani che incideranno profondamente sul suo destino. Era diventato «intrinsichissimo», per dirla col Micanzio, di Arnaud du Ferrier, ambasciatore di Francia a Venezia dal 1563 al 1567 e dal 1570 al 1582.[27] Nel corso della prima ambasceria, il du Ferrier era stato inviato a Trento, ad assistere, in rappresentanza del suo re, alle ultime fasi del concilio, e si era imposto come il polemista più vigoroso nei confronti della Sede Apostolica e del modo con cui conduceva e improntava ai propri interessi Io svolgersi della sinodo. «N'aveva gran memorie e lettere, che sono» scriveva sempre il Micanzio «il fondamento più sicuro e reale dell'isteria» E il Sarpi, interessatissimo alle vicende di quel concilio, ne aveva approfittato, o facendosele donare, o traendone copia: così come doveva aver fatto anni prima con Camillo Olivo.[28] Uomo dalla vita religiosa tormentata, il du Ferrier: cattolico, ufficialmente, ma nel suo animo sempre più incline al calvinismo. Michel de Montaigne, che si recherà a visitarlo durante il suo breve soggiorno veneziano nel 1551, resterà profondamente colpito da questo atteggiamento involuto, e ne fisserà il ricordo sia in una sua nota manoscritta al Journal de voyage, sia in un'aggiunta che apporterà nel 1588 ad uno dei più bei capitoli dei suoi Essais, quello Des prières.[29] L'ambasciatore era stato molto amico di Michel de l’Hospital, il celebre cancelliere di Francia: entrambi avevano studiato diritto a Padova, entrambi erano stati membri del parlamento di Parigi; e affine era l'evoluzione del loro sentire religioso, sempre più ostile a Roma e favorevole al calvinismo.[30] Michel de l'Hospital era stato al centro del movimento di pensiero politico-giuridico che esploderà in Francia quasi in concomitanza con l'inizio delle guerre di religione.[31] Neppure il du Ferrier ne resterà estraneo, comunque: era stato maestro, all'università di Tolosa, di Giacomo Cuiacio, capo della cosiddetta «scuola culta» ; come giurista riceverà un elogio calorosissimo da Jean Bodin, nella lettera dedicatoria della Methodus ad facilem historiarum cognitionem.[32]
Il frequentare Arnaud du Ferrier era, dunque, un affacciarsi sul cuore della vita francese, sul tormento della sua crisi politica e religiosa così come sul soffio di cultura nuova che l'animava, dal fervore degli studi giuridici alla reviviscenza del pensiero stoico, particolarmente forti nel mondo di giuristi e di uomini di toga cui anche il du Ferrier apparteneva.[33] Ancor più importante, forse il più solido e duraturo che il Sarpi abbia avuto nella sua esistenza, era il legame che nasceva in quegli stessi anni tra il servita e un medico francese, Pierre Asselineau. Era un calvinista, di Orléans, mandato ancor giovane a Venezia dal padre «per sottrarlo a' pericoli delle guerre civili», e rimastovi poi definitivamente per amore della città, «patria pia e benigna a tutti», ad esercitarvi la propria arte. Calvinista convinto: e come tale egli collaborerà col Sarpi, nella sua attività clandestina dopo l'Interdetto. Ma il loro legame era sorto, a quanto par di capire dal Micanzio, dalla comunanza di interessi per la scienza medica. «Oh! quante cose mi ha imparato il padre Paolo nell'anatomia, ne' minerali e ne' semplici» soleva esclamare il medico francese: che pure, a detta dello stesso biografo del Sarpi, «nelle fisiche e nelle anatomiche» era secondo a pochi, e «a tutti primo nelle cognizioni de' semplici e minerali e virtù loro et usi per i corpi umani».[34] L'iniziazione alla medicina il Sarpi l'aveva probabilmente avuta a Padova. In quello Studio egli si era addottorato bensì in teologia, precisamente il 15 maggio 1578.[35] Ma i soggiorni patavini gli avevan permesso di interessarsi anche di altre discipline e di mettersi in contatto con maestri di gran nome. Come Fabrizio d'Acquapendente, ad esempio. Si trattava di un biologo di grandissimo valore, particolarmente versato nell'anatomia comparata. Il Sarpi lo seguiva: «In questo tempo,» narra il Micanzio «e molto più anco negl'anni seguenti, s'essercitò nell'anatomia di tutte le sorti d'animali per il più de' vivi che gli capitavano per le mani e gli tagliava esso medesimo».[36] L'Acquapendente era impegnatissimo, allora, in ricerche sull'anatomia dell'occhio. Il Sarpi gli si era associato: e in modo così intenso e fruttuoso, che lo stesso Acquapendente, nel suo trattato De oculo visus organo, testimoniava che il Sarpi gli aveva permesso di comprendere il fenomeno del dilatarsi e restringersi della pupilla che egli aveva osservato nel gatto, ma di cui gli era sfuggita la causa: «Re igitur cum amico quodam nostro communicata,» scriveva l’Acquapendente «id observavit, scilicet non modo in cato, sed in homine et quocumque animali, foramen uveae in maiori luce contrahi, in minori dilatari. Quod arcanum observatum est, et mihi significatum a reverendo patre magistro Paulo veneto, ordinis ut appellant servorum, theologo, philosophoque insignì, sed mathematicarum disciplinarum, praecipueque optices maxime studioso, quem hoc loco honoris gratia nomino». Ma, se ci si deve attenere alla testimonianza del Micanzio, non era questo l'unico contributo. Il maggiore, anzi, quello di cui il Sarpi e gli amici andavano più fieri , era la scoperta delle valvole venose e del sistema della circolazione del sangue, compiuta, sembra, nel corso delle sue esperienze anatomiche. Il Sarpi ne avrebbe fatto parola all'Acquapendente: questi, constatata l'esattezza delle osservazioni, le avrebbe accolte nel suo lavoro De ostiolis sanguinis, senza, comunque - fosse o ingratitudine o valutazione dei limiti dell'intuizione del frate - farne alcuna menzione.[37]
Sono pure di questo periodo i primi pensieri filosofici e scientifici a noi giunti. Sono appunti, brevi riflessioni che si raggruppano intorno a vari temi, dalla logica alla fisica, all'astronomia, dalla matematica a problemi specifici di fisica meccanica, acustica e ottica, dove viene utilizzata qualche cognizione di geometria piana; è continua l'alternanza tra riflessioni di carattere filosofico e osservazioni sperimentali. L'ambito delle riflessioni filosofiche è prevalentemente aristotelico, così come spesso la verifica sperimentale ha come punto di partenza definizioni di Aristotele. Ma si avverte, al di là della tradizionale impostazione logica, un primo tentativo di superare o per Io meno di arricchire i risultati della fisica e della metafisica aristotelica, grazie al recupero della speculazione presocratica, dai filosofi delle scuole ionica ed eleatica ai pitagorici. Sono singolari i rilievi di analogia tra la struttura dei vegetali e quella degli animali, e di un particolare interesse le osservazioni sull'anatomia animale che testimoniano esperimenti personli di vivisezione, specialmente studiandone l'aspetto funzionale, sulla scia, come s'è detto, dell'Acquapendente: ma, oltre a questo, si avverte lo sforzo di esaminare e chiarire il meccanismo sensoriale quale strumento d ella conoscenza. A tale proposito, va notato che l'ampia varietà di motivi e di metodi , tipica di questi pensieri , adombra una profonda unità problematica: al centro dell'indagine sarpiana è la validità del processo conoscitivo, che in veste non solo le scienze esatte, ma il valore stesso di ogni esperienza umana. Tale interesse apparirà costante nelle successive speculazioni del Sarpi e anzi si amplierà e approfondirà nelle riflessioni sul linguaggio e su questioni di morale, di politica e di diritto.[38]
La carica di procuratore generale giungeva al Sarpi in un momento di profondi mutamenti, sia all'interno dell'ordine, sia all'apice stesso della Sede Apostolica. Priore generale dei servi di Maria era, dal 1582, il padre Aurelio Menochio, un avversario del Tavanti; l'avevano rieletto nel 1585, sulla base del precedente introdotto dallo stesso Tavanti, e ne erano divampate vivissime discordie tra i sostenitori dell'una e dell'altra parteforse, la nomina di Sarpi a procuratore era stato il prezzo per il raggiungimento dell'accordo.[39] Non c'era più, inoltre, il vecchio protettore dell'ordine, cardinale Farnese: l'aveva sostituito il cardinale di Santa Severina, Giulio Antoni o Santori, di altra estrazione sociale e formazione culturale, cioè non discendente, come il Farnese, da una delle grandi famiglie principesche che avevano improntato di sé la vita italiana di buona parte del secolo, né legato come lui al mondo della Chiesa rinascimentale, splendido di arte e di cultura, e percorso - a sprazzi, ma intensamente - da aneliti di riforma. Il Santori era uomo «austero, iracondo et impetuoso», e ambizioso, scaltrito conoscitore della vita di curia.[40]Uomo di tempi nuovi, di una Chiesa rinnovata: «difensore strenuo delle immunità e delle libertà ecclesiastiche» è stato definito; destinato, infatti, a diventare, dopo un'iniziale ostilità, uno dei candidati al pontificato preferiti dagli Spagnoli.[41]
Nel 1585 avveniva un fatto determinante nella storia della Chiesa cinquecentesca: nell'aprile, alla morte di Gregorio XIII, era stato eletto al papato Sisto V, un ex-frate minore, proveniente da una modestissima famiglia marchigiana, che aveva avuto il carico di inquisitore al Sant'Offizio veneziano. Era stato nominato cardinale da Pio V. E come Pio V, Sisto aveva una concezione altissima dell'autorità pontificia, ispirata a quella che un Gregorio VII o un Innocenza III avevano affermato nel mondo medievale. Ma Sisto aveva compreso anche quali trasformazioni la Chiesa doveva operare su di sé per dare realtà moderna a quella concezione e per muoversi con sicurezza in mezzo ai grandi organismi statali che, usciti dalle turbinose vicende politiche e religiose della prima metà del secolo, stavano rafforzando il controllo sulle rispettive Chiese e accentrando e rafforzando i propri organismi sotto la spinta di nuove e più complesse esigenze economiche e amministrative. La Chiesa doveva non solo adeguarsi a quella situazione, ma passare al contrattacco onde cercare di recuperare il perduto, rinsaldata pur essa nei suoi ordinamenti temporali, guidata con fermezza, compatta nella sua dottrina, sorretta da una solida finanza e capace di valersi, ai fini di una riscossa sul piano religioso, anche del prestigio e della forza che poteva dimostrare sul piano politico. Sisto V aveva pertanto riorganizzato lo Stato ecclesiastico, intensificandone lo sforzo finanziario e accentrandone il governo nelle sue mani; con altrettanta energia, dopo aver eroso della sua autorità il collegio cardinalizio, faceva sentire il peso della sua volontà e del suo potere nelle congregazioni cardinalizie, dando incremento a quelle dell'Indice e del Sant'Offizio, e favoriva la realizzazione di opere che, come gli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio, mettessero in evidenza, lungo tutto lo svolgimento storico della Chiesa, la primazia del pontefice romano; né esitava ad ingerirsi perfino nell'edizione della Vulgata, facendovi dei ritocchi che ne sconvolgevano l'impianto filologico.[42] Tra i suoi collaboratori preferiti, ed è interessante notarlo per le affinità che si possono rilevare nella loro formazione e per quasi contemporaneità della loro elevazione alle rispettive cariche, c'era il cardinale Santori: protettore dei servi di Maria, come si è testé detto; e membro di due importanti congregazioni, del Sant'Offizio e dell'Indice.[43]
Il Sarpi, nella sua qualità di procuratore generale del suo ordine, doveva tenere rapporti frequenti con il papa e con il cardinale Santori. Sembra che egli fosse riuscito a farsi apprezzare da entrambi. Il cardinale Santori gli affidava, con indubbia attestazione di fiducia, compiti importanti e difficili; altrettanto, e forse, a detta del Micanzio, con maggior slancio, faceva Sisto V, che impiegava il frate veneziano «in congregazione et altri maneggi più frequentemente del consueto»: un giorno poi, incontratolo per strada, aveva fatto arrestare la propria lettiga per intrattenersi a conversare con lui.[44]
Le persone che il Sarpi vedeva più volentieri, sottolinea il biografo, erano però altre, e non sempre gradite al papa e alla curia. Aveva allacciato amicizia con il gesuita Roberto Bellarmino, allora insegnante al collegio romano della compagnia di Gesù. Il Bellarmino era nipote di Marcello II, già cardinale Cervini, l'unico pontefice dell'età conciliare tridentina di cui il Sarpi, nella sua !storia, parli con ammirazione, riconoscendogli la volontà di «componer le differenze della religione con un concilio» , e di ritener indispensabile a tal fine che fosse preceduto da una riforma della Chiesa.[45] Nel periodo difficile che stava attraversando - sia all'interno della compagnia, sia nei confronti di Sisto V, irritato con il padre perché, nel secondo volume delle sue Controversiae, aveva negato che ai pontefici spettasse l'esercizio diretto della giurisdizione temporale -, il Bellarmino forse riandava agli intenti irrealizzati di riforma di suo zio e dei suoi collaboratori.[46] Il Sarpi porterà infatti con sé, dal suo soggiorno romano, la memoria di un Bellarmino turbato del corso che aveva invece preso la Chiesa. Durante l'Interdetto, quando egli e il gesuita si troveranno schierati su due opposti fronti, fra Paolo terrà a ricordare che, commentando con lui, in una riunione, certe esorbitanti pretese del pontefice, Bellarmino aveva detto: «Queste sono le cose che hanno fatto perdere la Germania, e metteranno un giorno l'Italia in pericolo di perdersi».[47]
Il primo anno del suo soggiorno romano il Sarpi aveva avuto modo di conoscere l'ormai vecchissimo Martin de Azpilcueta, meglio conosciuto come dottor Navarro, celebre scrittore di morale, di ascetica e di diritto canonico, uomo austero e di vivida carità; era venuto a Roma, ormai da anni, per cercar di difendere dall'accusa di eresia, con cui Pio V l'aveva colpito, Bartolomeo Carranza, arcivescovo di Toledo, fervido sostenitore, nell'ultima fase del concilio tridentino, del dovere di residenza de iure divino da parte dei vescovi. Fra Paolo, nel Trattato delle materie beneficiarie riserberà un posto di primo piano alla dottrina beneficiaria dello stesso Navarro, contrapponendola alla prassi aberrante che vigeva allora nella Chiesa.[48]
Non meno importante era stato l'incontro del Sarpi con un vecchissimo gesuita, pur lui spagnolo. «Narrava con molto gusto» riferisce il Micanzio «d'aver molte volte avuto ragionamenti con uno de' dieci compagni del padre Ignazio, ch'ancor viveva, e credo fosse il padre Bobadi glia; nel che però» precisa «non vorrei errare. Ben ci è memoria che spesso lo ritrovava a far essercizio in certi luoghi rimoti, e che gli pareva pieno d'una santa semplicità, e gli diceva liberamente non esser mai stata la mente del padre Ignazio che la sua compagnia si riducesse qual'era, e che se fusse ritornato al mondo, non l'avrebbe riconosciuta, perché era ogn'altra cosa da quello ch'ei l'aveva fatta».[49] Che si trattasse di Nicolàs Alfonso de Bobadilla è fuor di discussione: sia perché il Bobadilla, che morirà più che ottantenne nel settembre del 1590, era allora l'unico superstite dei primi compagni di Ignazio di Loyola; sia perché nei pochi connotati fomiti qui dal Micanzio ritroviamo i tratti del carattere quale emerge dai documenti biografici superstiti e che altri ha descritto più largamente, ingenuità, schiettezza, una devozione intensissima, un indulgere senza reticenze alla polemica nei confronti della compagnia e di coloro che, dopo Ignazio, ne avevano guidato le sorti. Era comprensibile che un uomo siffatto, carico delle esperienze più ampie ed avventurose, che aveva percorso nella sua inesausta opera di religioso mezza Europa, dalla Spagna alla Germania alla Penisola Balcanica, e tutta l'Italia, dalle Alpi, alla Calabria, alla punta estrema della Sicilia; che aveva conosciuto grandi protagonisti delle controversie religiose del suo tempo, un Eckius, un Ambrogio Catarino e un Pedro Soto e un Domenico Soto da parte cattolica, e un Martin Butzer e un Osiander da parte riformata, ed era stato in buoni rapporti con Paolo IV e il cardinal Pole, e aveva collaborato, durante il periodo bolognese del concilio tridentino, con il cardinale Morone; che era stato per anni a fianco di Ignazio di Loyola e che si era scontrato duramente poi con il padre Laynez e il padre Salmeran; era comprensibile, dunque, che quest'uomo interessasse profondamente il giovane frate, già curiosissimo di quel mondo, e dei suoi meandri umani ed ideologici.[50] Il Bobadilla, in quegli anni del soggiorno romano del Sarpi, non aveva dimesso i suoi spiriti polemici neppure in materia dottrinale: nel febbraio del 1587 sarà richiamato energicamente dal generale della compagnia padre Acquaviva per aver sostenuto in un suo scritto che gli infanti si salvano anche se muoiono senza aver ricevuto il battesimo - un argomento che si allacciava alle discussioni tridentine sul peccato originale, ampiamente esposte dal Sarpi nella sua Istoria.[51] E tra gli scritti del Bobadilla, inventariati da un confratello, padre Camerota, all'indomani della sua morte, ne figurano taluni che toccano, e, per quel che si può intuire, con impostazione analoga, temi su cui il Sarpi si soffermerà a lungo nell'esporre la situazione religiosa nei primordi del concilio tridentino. C'era un «trattatino» intitolato Christianum consilium reformandi nationem germanicam, in cui si sostiene, tra l'altro, «che non è buon modo di riformar la Germania con tagliar la testa ai principali della città, che ripugnavano alla religione catolica, e con forzar gli altri a tornare alla fede» e che «la riforma bisognava venisse per il concilio generale, e fra tanto si facesse alcuni ordini et editti». In altra scrittura, Canonica Germaniae reformatio iuxta veteres canones sanctorum Patrum, per Carolum V imperatorem, annota risentito il confratello, Bobadilla «si pone a dar precetti a' vescovi, e fa che l'imperador dia legge a' vescovi». Di un'altra scrittura, di cui era dubbioso se fosse opera del Bobadilla, lo stesso confratello dice, approvandola, che essa «riforma il papa, il consistoro, i prelati, i vescovi, i religiosi, le monache, i secolari; e vi sono alcune cose stravaganti», aggiunge «ma tutto il modello del governo a toto genere mi piacque assai».[52] Par piuttosto difficile che il Bobadilla abbia dato copia di tali scritture al suo interlocutore: ma crediamo invece probabile che nei loro colloqui abbiano ripreso tali argomenti, arricchendo con essi la sensibilità e la problematica e l'informazione del servita veneziano. La persona più vicina al Sarpi in quel periodo era stata, secondo il Micanzio, Giovan Battista Castagna, allora cardinale, ed eletto poi al papato col nome di Urbano VII nel settembre del 1590, alla morte di Sisto V. Anche il Castagna, che conosceva assai bene il Bobadilla, della cui attività missionaria si era valso nella sua diocesi calabrese di Rossano, apparteneva alla corrente di «riforma cattolica», che andava spegnendosi in quegli anni, e cui si sovrapponeva quell'orientamento che più propriamente si indica come «controriforma». «Prelato d'una mansuetudine più ch'umana, di vita innocentissimo e di costumi irreprensibile», scriveva di lui il Micanzio, sulla scorta dei ricordi sarpiani.[53] «Pontefice di grandissima espettazione di santità, come mostrò in quei pochi giorni del suo pontificato», annoterà, dopo la sua morte, il padre Camerota: aveva proposto infatti, il quinto giorno dalla sua elezione, che fosse creata una congregazione per la riforma della curia.[54] Ma era insieme carattere dei più prudenti; ed è stato osservato che proprio il Castagna, preoccupato che in un'opera storica sul concilio tridentino, pur scritta da un uomo come il cardinale Paleotti, fossero portati a conoscenza certi retroscena, poteva suo malgrado aver indotto il Sarpi a guardare con diffidenza la vicenda conciliare e a sentirla in eluttabilmente gravata dal peso di contrasti, di interessi personali, di varie sopraffazioni, su cui si riteneva opportuno stendere un velo di silenzio.[55]
È certo, comunque, che o a causa dei rapporti intrattenuti con uomini per varie ragioni e in varia misura delusi dall'attuale atmosfera della Chiesa, o a causa dell'esperienza diretta fatta con ambienti e sistemi di curia, e a dispetto delle soddisfazioni personali che poteva avervi riscosso, il soggiorno romano si concludeva per il Sarpi nel modo più negativo. Era un uomo ormai segnato dalla sfiducia, quando lasciava Roma, tra 1588 e 1589: ne serbano un'eco i pensieri filosofici da lui fissati in questi anni, prevalentemente di carattere morale e d'intonazione epicurea e pirroniana. A un confratello veneziano, il padre Gabriele Dardano, che gli sconsigliava il ritorno in patria date le prospettive di carriera che sembravano aprirglisi a Roma, il Sarpi avrebbe risposto, in una lettera cifrata, con queste parole, riportate crudamente nel manoscritto della biografia micanziana, e parafrasate eufemisticamente nella stampa: «E che volete ch'io speri a Roma, ove li soli ruffiani, cerreti et altri ministri di piacere e di guadagni hanno ventura?»[56]
Viene alla mente, di fronte a questo Sarpi ancor giovane, alle sue nostalgiche idealità religiose, alla sua rigida dirittura morale, e al suo indulgere su temi di un'etica pre-cristiana, e al suo orgoglio così incline al disprezzo, la raccomandazione rivoltagli, una ventina d'anni prima, dal cardinale Paleotti: e ci si domanda se il vescovo, nell'incitarlo, per la sua vita futura, ad «iactantiam evitandam et humilitatem amplectendam», non gli indicasse perspicacemente il limite più profondo della sua personalità di religioso e di cattolico.
La Repubblica di Venezia, allo schiudersi dell'ultimo decennio del secolo, sembrava aver ritrovato il suo antico splendore. Erano anni di pace, garantita dalla politica di neutralità in cui si intendeva persistere, e appena turbata da qualche screzio ai confini della terraferma con gli Spagnoli e gli Arciducali d'Austria, dal persistere della minaccia ottomana ai confini di nordest, nei territori dalmati e nel Mediterraneo orientale, dall'attività piratesca degli Uscocchi contro la navigazione veneziana nell'Adriatico. Il commercio, comunque, stava rifiorendo, e la finanza conservava la sua solidità, anche in virtù dell'afflusso di Ebrei, molti dei quali provenienti dalla Spagna, e di Fiorentini, Inglesi, Olandesi, Grigioni, Tedeschi, di qualche Francese, che portavano a Venezia il loro danaro e la loro intraprendenza di finanzieri, di commercianti, di uomini di mare. La Repubblica ritraeva dalla grande varietà di uomini e di costumi e perfino di confessioni religiose che la contraddistingueva - a Venezia, in particolare, e a Padova, per via dello Studio che continuava ad essere uno dei maggiori d'Europa - un'atmosfera del tutto peculiare; c'era un'ampia circolazione di idee e di libri, svolgentesi spesso per via clandestina, ma non per questo meno stimolante e fruttifera; e si avvertiva un tono di vita aperto e spigliato, e un senso di tolleranza veramente eccezionale in un'Europa ancora sconvolta da lotte religiose e chiusa nella salvaguardia di rigide posizioni dottrinali.[57]
«Mentre nelle altre città e regioni incombono le guerre civili, il timor dei tiranni, le acerbe esazioni o le inquisizioni più moleste agli studi,» scriveva proprio in quegli anni Jean Bodin, ambientando idealmente a Venezia una sua opera, l'Heptaplomeres, in cui celebrava la tolleranza religiosa, «questa sola città appare immune e libera da tutte queste sorte di servitù. Di modo che da ogni dove» continuava «vi affluiscono coloro che aspirano a vivere con la massima libertà e tranquillità, che intendono dedicarsi sia alla mercatura, sia alle manifatture, sia agli studi degni degli uomini liberi» .[58]
Di questo incrociarsi di voci culturali e religiose, di interessi politici ed economici, erano espressione i molti circoli, o più modestamente luoghi di ritrovo - «ridotti», per dirla alla veneziana - diffusi tra Venezia e Padova. In quest'ultima città era particolarmente noto il circolo che aveva sede in casa di Gian Vincenzo Pinelli, un gentiluomo di origine napoletana: lo frequentavano nobili veneziani e padovani, maestri dello Studio, padri gesuiti appartenenti al locale collegio e insegnanti nelle scuole che vi erano annesse, forestieri illustri di passaggio; e potevano consultare la biblioteca, ricchissima di stampe e di manoscritti, che il Pinelli continuava a raccogliere. Buona parte degli ospiti del Pinelli frequentava anche la casa di due letterati padovani, i fratelli Querengo, e quella del cardinale Federico Cornaro e di suo fratello Alvise, dove si era istituita una vera e propria accademia, quella dei «Ricovrati». Rinomanza maggiore avevano le adunanze che si tenevano a Venezia in un palazzo appartenente ai fratelli Andrea e Nicolò Morosini, il cosiddetto «ridotto Morosini». I Morosini e molti dei loro più intimi amici, come il vescovo di Belluno Alvise Lollino, che ospitava pur lui nella sua casa veneziana, eran epigoni di quel gruppo veneziano che con tanta alacrità si era adoperato, nella prima metà del secolo, per una riforma cattolica e che aveva avuto la sua più alta personalità in Gasparo Contarini. In casa Morosini, così come in quella del Lollino, si soleva parlare «de rerum natura, de mori bus, de divinis rebus»; ma altri ricordava che si poteva introdur «ragionamento di qualunque cosa più aggradisse, senza restrizioni di non passare d'un proposito nell'altro» ; cosa che in fondo era confermata da un visitatore occasionale, Giordano Bruno, il quale raccontava come si toccassero anche questioni e problemi dell'Europa di quei giorni, e massime quelli riguardanti la Francia, cui i Veneziani erano interessatissimi. C'erano poi centri di ritrovo più modesti, ad esempio quello che aveva sede in una bottega della Merceria all'insegna della Nave d'oro, di proprietà di certi merciai di origine olandese, gli Zecchini o Zecchinelli, e che era frequentato, oltre che da stranieri residenti a Venezia, da altri che vi capitavano di passaggio a causa d ei loro traffici. E si parlava infine di ritrovi clandestini, o semiclandestini, come una certa "accademia n in cui si sarebbe discusso di Machiavelli e di mortalità dell'anima.[59]
Rientrando a Venezia il Sarpi, oltre a riprendere contatto con i vecchi amici - Bernardo Sagredo, il vescovo di Belluno Giovan Battista Valier, il conte Giulio Savorgnan, e Nicolò Contarini e i fratelli Morosini con cui aveva trascorso l'infanzia - aveva trovato aperte le porte di quei ritrovi.[60] Frequentava a Padova il circolo Pinelli, dove gli era facile incontrare l'Acquapendente e dove, probabilmente, conoscerà quell'altro maestro dello Studio che tanta influenza avrà sulla sua vita culturale, Galileo Galilei. A Venezia era assiduo dei Morosini. Ma lo si doveva veder spesso in casa degli Zecchinelli, di cui doveva diventar amicissimo; lì incontrava Pierre Asselineau; e pure lì doveva aver conosciuto, verso il finire del secolo, i membri di una famiglia olandese, i Nis, che svolgeranno accanto a lui un ruolo di grande importanza nelle vicende politico-religiose posteriori all'lnterdetto.[61] Si diceva inoltre che il Sarpi frequentasse anche Ebrei, ed è plausibile, essendo il Ghetto contiguo al monastero dei servi ed avendo per di più la comunità veneziana fama di essere una delle più dotte di Europa. Non mancheranno accenni a suoi contatti con quell'accademia in cui si trattava di Machiavelli e di mortalità dell'anima, e sono pur essi credibili, dato l'attuale volgersi dei suoi interessi filosofici.[62] Ad ogni modo, vere o esagerate o tendenziose che fossero queste notizie sulla vita sociale del Sarpi, si riscontra in esse un motivo che si integra bene nel suo profilo intellettuale ed umano: la sua straordinaria volontà di conoscere, di ampliare le proprie esperienze con quelle fornitegli da altri, di partecipare alla vita del suo tempo, di farsi schiudere orizzonti che a lui forzatamente restavano preclusi. E c'era poi l'interesse politico, crescente. L'avvicinare i patrizi veneziani lo introduceva nella vita della Repubblica: le questioni interne tra gruppi fautori di rinnovamento o conservatori, gli orientamenti della politica estera, l'isolarsi nella paga neutralità o il tentare di reimmettersi nella vita europea, cosi densa di passioni, di contrasti confessionali ed ideologici, di mutamenti negli stati, di aperture verso nuovi spazi geografici.
I contatti con gli ambasciatori di Francia a Venezia erano, a tal fine, della maggior importanza. Amaud du Ferrier gli aveva aperto le porte dell'ambasciata: Sarpi continuerà dipoi a frequentare anche i suoi successori, un André Hurault de Maisse, un Philippe Canaye de Fresnes, uomini di primo piano, colti, ansiosamente solleciti delle vicende politicoreligiose del loro paese e, per riflesso, di quelle del resto d'Europa.[63] Essi dovevano alimentare quella simpatia per la Francia suscitata dal du Ferriere dall'Asselineau, e tenerlo informato degli sviluppi della situazione, e farlo partecipe dei problemi del loro paese - se fosse necessario risolvere le lotte religiose con un concilio nazionale o generale, e la compatibilità tra i decreti del concilio tridentino e le prerogative della Chiesa gallicana, e la convivenza tra riformati e cattolici, e la spietatezza astiosa e l'intrico di interessi in cui andavan degenerando le controversie religiose - o metterlo al corrente di orientamenti dell'opinione pubblica e della cultura. Non si può dire, allo stato attuale degli studi, di quali autori francesi contemporanei egli facesse allora conoscenza diretta: gli Essais di Montaigne li aveva certamente letti, anche se non si sa in quale edizione; per altri scrittori, come un Bodin, ad esempio, o un Pasquier o un Charles du Moulin o un Guillaume du Vair o un Charron, è solo probabile[64] Ma il fatto che nei pensieri filosofici o storico-giuridici del Sarpi si colgano analoghe tematiche e analoghe attitudini intellettuali e morali, se - come noi crediamo - non deriva da una lettura di quegli autori, è frutto di un'analoga reazione da parte del servita alla problematica politica e religiosa che era stata proposta, nel modo più drammatico, dalle guerre civili di Francia. Cui si aggiungeva, per quanto lo concerneva più direttamente, il progressivo accentuarsi della sua crisi religiosa, dovuto alle esperienze del soggiorno romano e alle sgradevoli vicende del proprio ordine, nelle quali suo malgrado veniva implicato.
Il Sarpi aveva cercato, dopo il suo rientro a Venezia, di ridurre la propria attività in seno all'ordine. Nel settembre del 1589 aveva bensì dovuto recarsi a Bologna, invitato dallo stesso cardinale Santori, onde ripristinare la disciplina in conventi che ne tralignavano: aveva risposto puntualmente all'attesa, colpendo con la sua ormai ben nota severità i padri colpevoli di quello stato di cose.[65] Tornato a Venezia, aveva cercato per molti anni di mantenersi libero da ogni incarico ufficiale. Nel suo monastero compiva regolarmente tutti i suoi doveri, dicendo quotidianamente la messa, intervenendo agli uffici e ai capitoli. Ma nulla di più: il resto del tempo, voleva dedicarlo alle sue meditazioni e alle sue ricerche e a quei contatti umani che si è detto, cose che richiedevano quiete e libertà di movimenti. Quiete da cui era distratto nel 1594, a causa di una contesa insorta tra due suoi confratelli per l'elezione al priorato generale dell'ordine. L'uno era il generale attualmente in carica, Lelio Baglioni, che aspirava ad essere riconfermato: l'altro era Gabriele Dardano, un frate veneziano di cui si è già fatto cenno come corrispondente del Sarpi nel periodo in cui questi era a Roma. Fra Paolo, che aveva cercato dapprima di non prendere posizione, aveva finito col dichiararsi in favore del Baglioni, che era poi rieletto. Ma il Dardano aveva voluto vendicarsi, denunciando di lì a poco il Sarpi al Sant'Offizio con una duplice accusa, di aver avuto contatti con Ebrei e di aver negato l'aiuto dello Spirito Santo; per renderla più efficace, il Dardano allegava alla denunzia quella lettera in cifra che il Sarpi gli aveva inviato da Roma spiegandogli perché non intendeva restarvi più a lungo.[66] Il Sarpi era stato prosciolto dalle due accuse. Restava la lettera: la quale non poteva di per sé fornir materia di giudizio, ma era ugualmente un documento gravissimo, che scopriva umori e opinioni; e il mondo di curia, alla cui conoscenza essi erano portati, non avrebbe dimenticato facilmente.[67]
Contro l'atmosfera gravante nell'ordine, e contro il cardinale di Santa Severina, che era stato al centro di questi torbidi e ne aveva pertanto la responsabilità, si era delineato intanto un movimento di ribellione: moveva da Firenze, ed aveva il suo animatore nel padre Angelo Montorsoli, un frate dalla devozione accesa, dalla visione angosciata dei mali del suo ordine, dalla volontà fervente e commossa di porvi rimedio con l'espiazione, con la preghiera, con l'operosità; accanto a lui era il vecchio priore generale, Giacomo Tavanti.[68]
Nel corso di quelle contese il Montorsoli aveva compilato uno scritto di spiritualità, intitolato Lectio divina, con il quale si proponeva di richiamare i confratelli ad una pietà più raccolta e di attuare, al lume di essa, l'osservanza più scrupolosa dei loro doveri, quali erano sanciti dalle costituzioni. Egli contava, per diffondere la Lectio, sulla collaborazione di padri che, a veder suo, condividessero gli scopi della sua azione riformatrice: tra essi, oltre al padre Tavanti, c'erano il padre Alessandro Giani e Paolo Sarpi, ossia gli autori superstiti delle costituzioni del 1580. «Noi dovremo esser di correzione al secolo» scriveva al padre Giani, all'inizio del 1587, accompagnando la sua operetta (la lettera, probabilmente analoga, indirizzata in quell 'occasione al Sarpi è andata perduta), «e spesso siamo di scandalo; né bastiamo ad emendar noi medesimi. Né si può non temer di peggio; quando non è chi non ritenga il corso del male; anzi, si loda pe r gentilezza e urbanità la vita licenziosa e, per contrario, gl'umili e modesti sono stimati balordi».[69] Affiora da queste parole un'allusione al protettore dell'ordine, che irrideva ai mistici tormenti del Montorsoli. L'ostilità del Santa Severina era però controbilanciata dall'appoggio dell'attuale pontefice, Clemente VIII. Un appoggio aperto e fattivo: per virtù sua il Montorsoli, nelI 597, allo scadere del secondo triennio del Baglioni, non solo era eletto priore generale, ma poteva in seguito resistere ai tentativi del Santori di opporsi alla sua opera di riforma.[70]
Per realizzare questa riforma del suo ordine il Montorsoli intendeva valersi della collaborazione dei padri della compagnia di Gesù, e nella primavera del I598 mandava presso di loro dei suoi confratelli affinché fossero introdotti all'esercizio delle loro pratiche spirituali e ne assorbissero, con la devozione, la fervida alacrità nell'agire.[71]
Poco dopo, all'inizio di gennaio del 1599, dovendo scegliere chi potesse affiancarlo nella riforma della provincia veneta, aveva pensato a fra Paolo Sarpi, e l'aveva nominato suo vicario generale e giudice nelle cause vertenti in quella zona.[72] È certo un accostamento che può apparire curioso, questo del Sarpi con i gesuiti, in una comune azione ispirata a un genuino slancio di rinnovamento spirituale, sancita dal consenso del pontefice, a pochi anni dall'insorgere della contesa dell'Interdetto: ma esso permette di valutare meglio cosa continuasse a rappresentare il Sarpi per i servi di Maria, malgrado le polemiche e le denunzie e il suo tentativo di isolarsi e rifugiarsi negli studi, e di comprendere, in tutta la sua complessità, il suo atteggiamento umano e religioso. Il 24 febbraio del 1600 il padre Montorsoli moriva, "constematissimus», si diceva negli Annales dell'ordine, che la sua opera di riforma, a causa dei continui intralci che gli si erano frapposti, «parum et nihil ... proficisceretur».[73] La scomparsa del Montorsoli - sostituito dapprima con il padre Tortelli, protetto dal pontefice, e poi, nel 1061, alla morte di questi, con il padre Dardano, per cui il cardinale Santori aveva continuato a battersi[74] - era per Sarpi gravissima: decisiva, si può dire, per il corso della sua vita futura. Egli se ne era reso subito conto, e lo prova il fatto che, a brevissima distanza dalla morte del generale, egli rivolgeva domanda alla Serenissima Signoria della Repubblica di Venezia affinché ottenesse per lui dal pontefice il vescovado di Caorle, resosi vacante in quei giorni per la morte del vescovo Girolamo Ragazzino. Caorle era vescovado dei più miseri, ed i concorrenti non erano molti: pure il Sarpi si era visto precludere la strada dal nunzio apostolico a Venezia, che riusciva a far porre a capo di quella diocesi il suo confessore.[75]
Non molto tempo dopo, nell'agosto del 1601, si rendeva vacante per la morte del suo titolare, padre Orazio Belloti, un'altra diocesi, sita in Dalmazia, ma altrettanto, se non più povera della precedente, quella di Nona. Il Sarpi si rivolgeva allora nuovamente alla Serenissima Signoria, ricordando l'insuccesso dell'anno passato, ed augurandosi che questa volta il sostegno della Repubblica sarebbe valso a fargli ottenere il vescovado. «Il che desidero» scriveva «non per altra causa che per avere tempo e comodità di attendere più riposatamente a' miei studi, e mostrarmi in tutte le occasioni che potessero nascere quel riverente e sviscerato servitore di questo Serenissimo Dominio che ho sempre fatto professione d'essere, e che mi farò conoscere finché il Signor Dio mi terrà in vita»[76] La Serenissima Signoria questa volta si impegnava alacremente in favore del servita: scriveva ripetutamente al proprio ambasciatore a Roma, vantando le qualità intellettuali e morali del Sarpi, incitando ad insrstere con Clemente VIII affinché assecondasse la richiesta.
Inaspettatamente, ci si era trovati di fronte a un intransigente rifiuto del pontefice. Clemente VIII aveva domandato al nunzio apostolico a Venezia, monsignor Offredi , informazioni sul Sarpi. E le informazioni giuntegli erano negative: le due persone cui l'Offredi si era rivolto, il padre Gabriele Dardano, dei servi di Maria, e il padre Achille Gagliardi, della compagnia di Gesù, gli avevano parlato del Sarpi come «d'uomo che possa credere qualcosa di quel che non si deve, e non credere in qualche altra parte quel che siamo obligati. Anzi» insisteva il nunzio «che ho sentito mormorare alle volte che egli con alcuni facci una scoletta piena d'errori».[77]
Viene spontaneo qualche dubbio sull'obiettività della lettera: sia per il tono, tra il subdolo e il tremebondo, con cui è scritta, sia per la personalità dei due informatori. Il Dardano è ben noto, ormai, per la vecchia inimicizia col Sarpi; quanto al Gagliardi, temperamento involuto, era legato a una parte del patriziato veneziano in contrasto con quella cui il Sarpi si appoggiava.[78] Ma non si può negare, d'altro canto, che certi aspetti della vita del Sarpi giustificassero le valutazioni del nunzio e dei due padri: il suo frequentare ambienti di riformati ''- gli Zecchinelli, l 'Asselineau -, e ora anche la casa dei Nis; la preminenza di interessi per la cultura profana, cosa che non poteva restare senza eco, e spesso di voci fantasiose e di esagerazioni. Qualche tempo dopo, il padre Dardano sferrava un nuovo attacco contro il Sarpi: in un capitolo dell'ordine, lo accusava di portare berretta e pianelle di foggia non consentita dalle norme vigenti, e di non recitare la Salve Regina al termine della messa.[79] Accuse di lievissima entità, evidentemente, le prime due; più insidiosa la terza, in quanto la recita della Salve Regina era stata ritenuta, e proprio dalle costituzioni del 158o, come una delle «riverenze» che i serviti dovevano alla Madonna.[80] Colpendo il Sarpi sul piano disciplinare, non si voleva dimostrare però soltanto la sua incoerenza, di rigido assertore dei doveri altrui e di violatore dei propri: si colpiva ciò che costituiva la sua difesa, il rigore formale, l'esercizio ineccepibile dei compiti affidatigli, in virtù dei quali egli proteggeva la propria vita privata, gli studi, le amicizie, la libertà di movimento. Fra Paolo riusciva a cavarsela anche questa volta. Il generale eletto nel 1604, padre Ferrari, legato pur lui al Montorsoli, gli esprimeva la sua stima affidandogli il giudizio in processi che dovevano celebrarsi in seno all'ordine. [81] Era chiaro, comunque, che quella posizione peculiare e delicatissima del Sarpi era ormai scossa; che, in altre parole, quell'equilibrio che egli aveva cercato a lungo di tutelare - tra la sua attività e la sua probità di religioso da un lato, e la sua vita privata dall'altro - si stava rompendo. La sua sempre più intensa attività di studioso, che non si contentava della pura speculazione, ma che si impegnava nella sperimentazione e persino nell'applicazione professionale; quello stringersi intorno a lui di patrizi, giovani, in prevalenza, e di tendenze ostili alla Sede Apostolica e alla compagnia di Gesù, i quali gli attestavano la più calorosa ammirazione e facevano sì che beneficiasse dell'appoggio della Serenissima Signoria e ne ricevesse anche inviti a prestarle qualche collaborazione - il nunzio Offredi diceva di lui che era «padrone di mezza questa città»[82] -, erano espressioni di inappagatezza nei confronti di quello che la fede o la Chiesa gli potevan dare, di un bisogno di trasferire altrove, verso altri oggetti e altri ideali, il fulcro della propria esistenza. Lo stesso Sarpi, in fondo, non si preoccupava molto di nasconderlo. Nella lettera in cui domandava alla Serenissima Signoria aiuto per ottenere un vescovato, egli indicava come suo scopo il potersi dedicare pienamente agli studi, e, qualora ne fosse richiesto (ma era un'offerta che allora suonava un po' convenzionale), di servire la Repubblica. Neppure una parola per i doveri religiosi che l'avrebbero atteso.
«Tutta la sua vita» scrive il Micanzio, nel tratteggiare l'attività del maestro al ritorno da Roma, «era in tre sole cose occupata, il servizio di Dio, i studi e le conversazioni. A quello era assiduo, non pretermettendo mai di trovarsi a' divini offizi. A' studi dopò l'orazioni private dava tutta la mattina, che cominciava sempre avanti il levare del sole; ma d'ordinario preveniva ancora l'aurora sin all'ora degl'offizi comuni. Il tempo pomeridiano era diviso ora in operazioni di sua mano, nelle trasmutazioni, sublimazioni, e cose simili, o nelle conversazioni degl'amici, ch'erano i letterati et insignì personaggi di Venezia e forestieri che vi capitassero».[83]
Tra gli studi, Sarpi non aveva smesso quelli filosofici. Continuava a soffermarsi sul problema al centro dei suoi interessi e delle sue speculazioni, quello della conoscenza, e dei suoi limiti e dei suoi strumenti, e dei rapporti tra concetto e reale, e tra unità e universale. I suoi «pensieri» su tale argomento diventano bensì via via più radi: ma egli riusciva però a rifondere i risultati delle sue meditazioni in uno scritto organico e compiuto, recante originariamente, a quanto pare, il titolo Del nascere dell'opinioni e del cessare che fanno in noi, ma più noto ora con un titolo che sembra essergli stato apposto da apologeti settecenteschi, Arte di ben pensare: apologeti che hanno voluto vedere addirittura in queste pagine un precorrimento del Saggio sull'intelletto umano di John Locke.[84]
Su questi interessi gnoseologici finiscono progressivamente perpreva lere quelli per i problemi morali. È un'evoluzione che segue strettamente le vicende della sua vita; che se ne alimenta, esprime le esigenze profonde della sua personalità, aderisce alle necessità poste dalla convivenza in seno all'ordine, con impegni e doveri che sentiva sempre meno, accanto a persone che lo soffocavano. L'etica di Sarpi è ben !ungi infatti dall'essere una speculazione meramente intellettuale: qualcosa suscitato dai libri, e destinato a fissarsi in qualche scritto. Egli tratta di passioni, e di voluttà e di dolori, dei loro nessi col moto; parla di felicità, dello stato di quiete che permette di realizzarla, e poi di «indoglienza», di «composizion dell'animo»; ed elogia lo stato di natura, diffida dell'educazione, sostiene il relativismo di vizi e virtù, e dei concetti di bello e di buono. È un'etica dai contorni difficilmente definibili, che sta tra il neo-epicureismo e il neo-stoicismo: con prevalenza del primo, ci pare; e con accentuazione sempre maggiore di motivi scettici.[85] Ma fra Fulgenzio Micanzio, che illustra la vita del maestro con vigile acume psicologico, e che ne apprezza, oltre ai convincimenti politici e religiosi, anche i suoi peculiari atteggiamenti umani, bada a presentarlo come il tipo ideale di saggio stoico. Sottolinea come mirasse alla quiete dell'animo e ad opporre alle intemperanze dei confratelli una serena, distaccata imperturbabilità; e come, anziché rallegrarsi della sua straordinaria memoria, il Sarpi se ne lamentasse, deducendone «debolezza e passibilità maggiore», in quanto «non solo l'oggetto in lui facesse moto et inferisse passione, ma anco ogni minima reliquia et immagine lo continuasse»; e come riuscisse ad imporsi la sopportazione del dolore fisico, al punto da praticarsi da solo degli interventi chirurgici. Le sue maggiori operette filosofiche, nota ancora il Micanzio, sono «elaborate alla maniera de' piccioli opuscoli di Plutarco».[86] E si vedrà come il pirronismo, che impronta ora le sue considerazioni morali, diventi in seguito un elemento determinante della sua posizione di fronte a problemi religiosi che gli saranno sottoposti e della sua storiografia: la cosiddetta «sospensione del giudizio», tanto cara anche a Montaigne e a Charron.[87] L'intonazione neo-epicurea e stoica è particolarmente forte nella prima parte dei pensieri medico-morali, quella dedicata alla «medicina dell'animo»: vi campeggiano Epicuro e Seneca, accanto ad Aristippo ed Epitteto. Un po' diversa è la seconda parte, definibile come una parenetica di saggezza pubblica e privata: più pacata e distesa, pur nel pessimismo che la pervade. Sarpi vi cita bensì molto onorificamente Plutarco, proponendo le sue vite come libro cui deve attingere chi ambisce alla prudenza. Ma il modello di saggio che egli addita è però Socrate; e il Sarpi fa l'elogio dell'ignoranza, ed incita ad appagarsi del presente e della propria situazione, ad evitare una virtù troppo rigida ed esigente, come quella catoniana.[88] Vien alla mente l'evoluzione del Montaigne, tracciata dal Villey. Un primo periodo nel quale l'autore degli Essais vi ostenta una saggezza altera ed arrogante, mutuata un po' dallo stoicismo e un po' dall'epicureismo, e in cui assume a maestro Seneca, e a modello Catone; un secondo periodo, in cui subentra un concetto di saggezza eclettico, più umano e flessibile, e Plutarco si sostituisce a Seneca, e avviene l'incontro con Sesto Empirico e, mediante lui, col relativismo di Pirrone. Nel terzo periodo la filosofia morale di Montaigne, tratta ora direttamente dalle sue esperienze personali - i viaggi, la peste, le critiche rivoltegli per la sua attività come sindaco di Bordeaux -, è, scrive il Villey, «exactement moulée sur sa nature» ; la sua preferenza va a Socrate; e elogia la semplice saggezza contadina, approva l'uso delle voluttà naturali, diffida della cultura.[89] Per Sarpi non è possibile isolare distintamente i tre periodi, e, per giunta, è da dubitare se abbia avuto un periodo corrispondente al primo di Montaigne: ma, per quel che si intravvede dai suoi scritti, esiste una chiara analogia tra lo svolgimento del suo pensiero e quello del Montaigne, nelle sue due ultime fasi. E lo conferma, in fondo, lo stesso Micanzio, quando spiega per quali ragioni, seguendo l'esempio di Socrate, Sarpi si sia infine deciso a dedicarsi esclusivamente alle questioni morali.[90]
Anche i pensieri sarpiani sulla politica sono affini a quelli del Montaigne: ispirati allo stesso naturalismo, e con la stessa esclusione di un diritto naturale e dell'origine divina degli stati e dell'autorità del principe. La repubblica e la «tora» (riteniamo che egli intenda con questo termine il complesso di norme religiose), egli scrive, sono soltanto medicina: esistono perché gli uomini sono incapaci di realizzare insieme quella «composizion dell'animo» (o dominio delle passioni), che costituirebbe la loro condizione ideale e che permetterebbe di vivere, e meglio, «in anarchia, dove ciascun si regge». Sarpi traccia un ciclo evolutivo per questi istituti che si trasformano in varie fasi e per commistione di fasi precedenti, o nei quali avviene un processo di assorbimento di elementi eterogenei per il contatto tra popoli diversi, ritornando, in alcuni casi, alla fine del ciclo, alla fase originaria: viene alla mente la tesi del Machiavelli sul reggimento delle repubbliche e sulla loro evoluzione, così come ricordano il grande fiorentino certe osservazioni sui mezzi di cui si serve «il politico» per reggere lo stato.[91] Ma per quanto riguarda la silloge di note sulla religione- probabilmente minuta o semplice traccia per quell'opuscolo sull'ateismo di cui parla il Micanzio[92] - il richiamo che vien più spontaneo è a Jean Bodin; al Bod in dell'Heptaplomeres, che applica la pirroniana sospensione del giudizio sulla verità delle religioni e riconosce che esse hanno tutte gli stessi elementi, «profezie, oracoli, sogni, e che hanno bisogno di mezzi intermedi tra Dio e l'uomo».[93] Così in Sarpi il fenomeno religioso è trattato come un fatto sociologico, scarnito nei suoi termini con la freddezza distaccata di uno scienziato.
E il Sarpi l'abito mentale dell'uomo di scienza se l'era fatto, in tanti anni di ricerche, e mediche e chimiche e naturalistiche. Si è visto, d'altronde, come anche nell'ultimo decennio del secolo impiegasse parte della sua giornata in «trasmutazioni" e «sublimazioni»,[94] Tra i suoi pensieri di questo periodo ce ne sono che riguardano sue osservazioni geologiche ed esperienze chimiche e fisiche. La sua specialità, in tal settore di studi, era il magnetismo: durante il soggiorno romano aveva colto l'occasione di un viaggio a Napoli per andare a visitare Giovan Battista della Porta, considerato il maggior cultore italiano della materia: e questi, a sua volta, era rimasto talmente colpito dalla preparazione del giovane servita da farne l'elogio più caloroso in un suo libro uscito di lì a poco.[95] Non aveva neppure abbandonato le ricerche mediche, e nemmeno la passione del sezionare. Con l'Acquapendente era rimasto in contatto: e non è improbabile che in questi anni egli l'abbia fatto partecipe delle sue riflessioni sulla circolazione venosa del sangue e sull'embriologia.[96] Ma gli interessi per la medicina venivan poi a convergere con quelli morali, dando come frutto quella medicina dell'animo di cui si è testé detto. Una novità altrettanto importante è il passaggio - avvenuto, per quel che ci sembra, verso la fine del secolo - dal semplice studio e dalla sperimentazione alla terapia. Con se stesso, anzitutto, operandosi, come si è già detto, e costruendosi un apparecchio per contenere la fuoruscita dell'ultima parte dell'intestino retto. Ma esercitava anche con altri: rimangono una lettera in cui si parla di una cura d'acque da lui prescritta e il diario di un contemporaneo nel quale il Sarpi è definito «peritissimo» nell'arte medica, «avendo in servizio di diversi senatori suoi amici fatto esperienzia ammirabile»[97]. «Se la sua maniera fosse comendabile o no restarà dubbio:» scriveva il Micanzio, in una pagina della biografia sarpiana che sarà poi esclusa dalla stampa, «conviene narrare quello ch'è: o che la gran cognizione delle cose della medicina l'avesse posto in incertezza totale di quell'arte o altra causa, egli operava così contrario all'uso comune, che pareva avere opinioni molto stravaganti. Primieramente diceva non tener conto alcuno di febre se non come sintoma d'altri mali et io l'ho veduto in esperienza con febri anco continue di molti giorni senza mutar cosa alcuna del suo vivere ordinario ... Il modo di trattare colli medici non era al solito, ma fossero o uno o più era introdurre discorso sopra la sua infermità e li medicamenti, e quando sentiva avicinarsi a quello che il suo senso e l'osservazione che faceva isquisita di tutti li più minuti accidenti, si rendeva subito et intrava nell'opinione».[98] Ma è da chiedersi se queste sue concezioni mediche fossero il risultato di una consuetudine di rapporti con un medico geniale come Santorio Santorio, come fanno pensare anche delle riflessioni sul metabolismo animale, le quali richiamano alla mente ricerche svolte dal Santorio e confluite nel suo De statica medicina; con lui sembra, tra l'altro, che il Sarpi collaborasse in ricerche sul pulsilogio.[99]
Si sa che matematica e geometria e meccanica erano state passioni intense nella giovinezza di Sarpi. Non doveva trascurarle neppur dopo, o almeno sino all'inizio della sua attività di consultore della Repubblica di Venezia, così come del resto avverrà per tutti questi studi. Si ha anzi l'impressione che egli affini la sua preparazione. Lo provano non solo i suoi pensieri, tra i quali i temi anzidetti ricorrono con grande frequenza, ma testimonianze che vengono da a mici come Galileo Galilei, oltre che dal solito fra Fulgenzio Micanzio. «Posso senza iperbole alcuna affermare» scriveva di lui il matematico pisano «che niuno l'avanza in Europa di cognizione di queste scienze [matematiche]».[100] Il problema che più li avvicinava era quello del moto. Il Galilei vi lavorava da tempo, sulla scia del suo maestro pisano Francesco Bonamico. Altrettanto faceva il Sarpi, imbrigliato dalla fisica aristotelica, di cui pur avvertiva il limite. Ma il Galilei aveva portato al Sarpi e al gruppo di giovani che gli si erano stretti intorno, tra Padova e Venezia, la fresca sensazione di una volontà e di una possibilità di rinnovamento. Il frate aveva colto la modernità scientifica del Galilei, e sentiva la sua forza stringente di analisi e ancor più di sintesi, la plasticità avvincente del suo argomentare, l'importanza dell'aiuto che per superarli avrebbe potuto avere da lui. Il Galilei, a sua volta, si giovava dell'inesauribile avidità intellettuale del servita, aperto ad ogni esperienza, pronto a comprendere l'importanza delle questioni e capace di intuizioni geniali, e insieme ragionatore cauto, paziente, metodico. Nel corso di uno scambio epistolare tra di loro il Galilei formulerà la legge sulla caduta dei gravi; in incontri comuni, e probabilmente con un rilevante apporto di conoscenza di ottica da parte del Sarpi, sarà preparato il cannocchiale astronomico e puntato verso i cieli, per la prima volta nella storia umana, dal monastero veneziano dei servi di Maria. E nessuno come il Sarpi capirà che la vera grandezza del Galilei era nello studio della meccanica, e che proprio questa ricerca era la via più sicura per svincolarsi dalla fisica aristotelica.[101]
NOTE
[1] F. MICANZIO, Vita del padre Paolo dell'ordine de' servi e teologo della Serenissima Republica di Venezia, Leida 1646, pp. 3 sgg.
[2] Ibid., p. 8; si veda sul padre Capella il giudizio caloroso del padre ARCANGELO GIANI, in Annales sacri ordinis fratrum servorum B. Mariae Virginis, 11, Lucae 1721, p. 276.
[3] F. MICANZIO, op. cit., p. 10.
[4] Ibid., pp. 13-4. Si veda anche F. GRISELINI, Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studi del sommo filosofo e giureconsulto F. Paolo Servita, Losanna 1760, pp. 9-10.
[5] P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522 - 1597), II, Roma 1967, pp. 421 sgg. Il Prodi ritiene- e fondatamente, a veder nostro- che le tesi inviate al cardinal Paleotti siano quelle sostenute in precedenza dal Sarpi a Mantova. Si veda su tali dispute A. BIANCHIGIOVINI, Biografia di fra Paolo Sarpi teologo e consultore della Republica veneta, 1, Firenze 1850, pp. 5 sgg.
[6] Il passo si trova tra gli appunti preparatori del Micanzio per la sua biografia sarpiana, in Biblioteca Querini Stampalia di Venezia, Manoscritti, Cl. IX, cod. XVI.
[7] lbid. Si veda poi la Vita citata, p. 14. Secondo il Prodi dell'«atteggiamento critico dell'Olivo» «il Sarpi colse solo- e conservò nella sua mente con il passare dei successivi decenni- l'avversione verso il mondo curiale e non invece la coscienza che l'Olivo doveva avere della validità delle posizioni assunte dal Gonzaga e da lui stesso in concilio» (op.cit., pp. 423-4).
[8] F. MICANZIO, op. cit., pp. 27-8. È da chiedersi se il Sarpi in quest'epoca non rivelasse già quel peculiare sentire religioso, fatto di insofferenza per «la superstizione et ipocrisia» e per le manifestazioni devozionali che riteneva inutili, di cui il Micanzio parla in un brano che sarà integralmente riportato più avanti, p. 34, nota 1.
[9] G. ALBERIGO, Carlo Borromeo come modello di vescovo nella Chiesa posttridentina, in «Rivista s torica italiana», LXXIX (I967), p. 1033; P. PRODI, S. Carlo Borromeo e il cardinale Paleotti: due vescovi della riforma cattolica, in «Critica storica», III (1964), fase. 11, e Il cardinale Gabriele Paleotti ecc., cit., 11, pp. 46 sgg.
[10] G. P. GIUSSANI, Vita di S. Carlo Borromeo, Roma 1679.
[11] G. P. GIUSSANI, op. cit., p. 351.
[12] X. M. LE BACHELET, Bellarmin avant son cardinalat (1542-1598), Paris 1911, pp. 88, 89 e 100: il Borromeo aveva richiesto il Bellarmino nel 1573 e nel 1575.
[13] F. CHABOD, Giovanni Botero, in Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 281 sgg.
[14] Si veda nel volume San Carlo Borromeo nel terzo centenario della canonizzazione, Milano 1908-1910.
[15] P. PRODI, S. Carlo Borromeo e il cardinale Paleotti ecc., cit., p. 138.
[16] F. MICANZIO, op. cit., p. 26.
[17] Istoria del concilio tridentino, Bari 1935, m, pp. 291 e 365. Si veda poi nelle Lettere ai protestanti, a cura di M. D. Busnelli, Bari 1931, I, la lettera a Jérome Groslot de l'Isle del 3 giugno 1610, e, 11, quella a Francesco Castrino del 23 novembre 1610.
[18] Il passo è in una lettera di Pierre Asselineau, un amico del Sarpi di cui si parlerà tra breve, a Philippe Duplessis Mornay, del 9 dicembre 1612 (nei Mémoires et correspondance del Duplessis Mornay, Paris 1825, XI, pp. 383-4).
[19] Per tali notizie si veda, oltre alla più volte citata biografia micanziana, pp. 31 sgg., le pur citate Memorie anedote di F. GRISELINI, pp. 14-5.
[20] Così scrive il padre A. GIANI, negli Annales ecc., cit., 11, p. 287, iniziando a parlare del capitolo tenutosi a Parma nel 1590 e ricordando il capitolo tenuto sotto il generalato di Tavanti nella stessa città.
[21] Sul Tavanti, si veda B. ULIANICH, Paolo Sarpi, il generale Ferrari e l'ordine dei serviti durante le controversie veneto-pontificie, in " Studi in onore di Alberto Pincherle n, Roma 1967, p. 595.
[22] Annales ecc., cit., II, pp. 262 sgg. Sui rapporti tra il cardinal Farnese e la compagnia di Gesù, si veda M. SCADUTO, Storia della compagnia di Gesù in Italia. L'epoca di Giacomo Lainez. Il governo, 1556-1565, Roma 1964, pp. 465-6.
[23] A. M. DAL PINO, Una lettera del ven. p. A. M. Montorsoli, in «Studi storici O. S. M.», VII (1955-1956), p. 66: vi si accenna, oltre alla vita del Tavanti, alla parte da lui avuta nella preparazione delle nuove costituzioni e ai suoi rapporti col Farnese. Dello stesso padre G. TAVANTI, si veda la Praefatio in Regulam et constitutiones fratrum servorum, in Regula Beati Patris Augustini et constitutiones fratrum servorum, Bononiae 1643, in cui rifà la storia del capitolo parmense e del lavoro compiuto per la stesura delle costituzioni. Si veda su questo stesso argomento lo stesso A. M. DAL PINO, Il «De reverentiis» nelle costituzioni O. S. M., in «Studi storici O. S. M.» , V (1953), p. 216. Il padre Alessandro Giani pubblicava nel 1591 a Firenze l'operetta Vera origine del sacro ordine de' servi di Santa Maria: una copia di essa, donata al Sarpi nel 1603, è conservata alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
[24] Annales ecc., cit., II, p. 263.
[25] F. MICANZIO, op. cit., pp. 32-3.
[26] F. MICANZIO, op. cit., p . 46; Annales ecc., cit., II, p. 274.
[27] F. MICANZIO, op. cit., p. 131. Sul du Ferrier, si veda E. FREMY, Un ambassadeur libéral sous Charles IX e Henri III. Les ambassades à Venise d'Arnaud du Ferrier, Paris I850, che tratta solo, e superficialmente, dell'attività politica.
[28] Della documentazione avuta dal du Ferrier il Sarpi dev'essersi valso per la narrazione dell'ultima parte della sua Istoria del concilio tridentino, in cui all'attività del du Ferrier è riconosciuta grande importanza.
[29] Journal de voyage en ltalie, Paris 1942, p. 72, nota a. Nel passo degli Essais, libro I, capitolo LVI, p. 320 dell'edizione curata da Pierre Villey, Paris 1965, il du Ferrier non è indicato nominalmente, ma quanto il Montaigne scrive corrisponde, seppure in tono più malevolo, a quanto aveva annotato nel Journal (il Villey, p. 1263, esprime solo l'ipotesi che l'anonimo personaggio sia il du Ferrier).
[30] Su Michel de l'Hospital vedi V. DE CAPRARIIS, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, Napoli 1959, pp. 167 sgg.; e si veda poi a p. 179 la citazione di una lettera in cui il de l'Hospital esprime al du Ferrier le sue speranze nel capo dei calvinisti ammiraglio de Coligny.
[31] V. PIANO MORTARI, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano 1962, pp. 95 sgg.
[32] Les oettvres philosophiques de JEAN BODIN, a cura di P. Mesnard, Paris 1951, p. 108.
[33] Sulla reviviscenza dello stoicismo in Francia, e sulla sua particolare fortuna nell'ambiente della magistratura, vedi A. LEVI, French Moralists: the Theory of the Passions 1585 to 1649, Oxford 1964, p. 54; L. ZANTA, La renaissance du stoicisme au XVI° siècle, Paris 1914; P. MAURENS, La tragédie sans tragique. Le néo-stoicisme dans l'oeuvre de Pierre Corneille, Paris 1966, p. 32. In contatto col du Ferrier (e a tal proposito rinviamo alla nota già citata del Villey, p.1263 della edizione da lui curata degli Essais), era anche Philippe Duplessis Mornay, della cui operetta L'excellent discours de la vie et de la mort, del 1576, il Maurens scrive che essa «tranche sur tous ces ouvrages par la fermeté et la continuité de l'inspiration stoicienne» (op. cit., p. 30). Il Duplessis Mornay diventerà con l'Interdetto corrispondente del Sarpi e suo incitatore all'azione religiosa per introdurre a Venezia la riforma protestante (si vedano, oltre ai Mémoires et correspondance citati, tomi X e XI, Paris 1824-1825, le pur citate Lettere ai protestanti del Sarpi, 11, pp. 205 sgg. e 227 sgg.).
[34] F. MICANZIO, op.cit., pp. 43-5. «Pour vous donner tout accès vers lui [Sarpi]» scriveva Duplessis Mornay a un olandese che stava per partire per Venezia nell'ottobre del 1609, non c'era via migliore che rivolgersi «à M. Asselineau, medecin françois, personnage de singulière pieté et prudence, auquel il se confie» (in Mémoires et correspondance citati, X, p. 393).
[35] F. GRISELINI, op.cit., p. 31.
[36] F. MICANZIO, op.cit., p. 40; F. GRISELINI, op. cit., p. 19.
[37] G. FABRIZI D'ACQUAPENDENTE, De visione, voce, auditu, Venetiis 1600, p. 93. Il MICANZIO, pur dicendo di riferirsi a quest'opera dell'Acquapendente, definisce diversamente il contributo del Sarpi (op . cit., p. 42). In realtà , egli si attiene letteralmente a un a testimonianza scritta e autografa dell'Asselineau, rimasta allegata al manoscritto d ella sua biografia sarpiana: «L'Acquapendente» scriveva il medico francese «lo nomina nel suo tratta to De visu come avendo da lui imparato il modo col quale si fa nel umore cristallino per refraczione. Nessuno senza eccettuazione alcuna ha trattato delle valvole delle vene se no dopo che l'Aquapendente ne trattò in una publica anatomia; et il detto Aquapendente non l'aveva imparato se non da lui , che col solo suo giudicio naturale non poteva capir ch'il sangue eh'è così pesoco potesse star sospeso nelle vene senza che vi fosse qualche cosa che lo retinesse a prendoci e reserrandoci. Tutto 'l tratto di Aquapendente dell 'avo» concludeva «è la maggior parte di esso» (in Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea atti diversi, B. 71, c. 63). L'Asselin eau, dunque, non sol o mette in rilievo anche l'apporto, già noto, del Sarpi agli studi dell'Acquapendente sulla circolazione venosa del sangue, confluiti nel volume De vena rum ostiolis, Venetiis 1603, ma quello, ignorato, ai suoi studi di embriologia, che vedeva n la luce nel volume De formatione ovi et pulli, Venetiis 1623: vedi, su quest'opera dell’Acquapendente, H. B. ADELMANN, The Embryological Treatises of Hieronymus Fabricius of Aquapendente, lthaca, N. Y., 1942, citato da M. BOAS, The scientific Renaissance 1450 - 1630, London 1962, p. 354: rinviamo al volume della Boas per tutta l'attività scientifica dell'Acquapendente. Il GRISELINI, op. cit., p. 31, riferisce che tra i manoscritti sarpiani conservati presso il monastero di Santa Maria dei servi di Venezia, distrutto in seguito ad incendio nel secolo XVIII, si trovavano fogli aventi, «oltre le varie figure ottiche, ... una dimostrazione de' colori dell'iride».
[38] Dei pensieri, compilati presumibilmente in questo primo periodo, pubblichiamo una esigua scelta, allo scopo semplicemente di fa riconoscere la tematica che impegnava il Sarpi in questo pe riodo e i suoi criteri di speculazione e di ricerca. Se ne conserva una copia settecentesca, in duplice redazione, presso la Biblioteca Marciana di Venezia, Manoscritti , Cl. II, 129 (4914), vol. 1: gran parte di essi sono stati riediti da R. Arnerio (P. SARPI, Scritti filosofici e teologici editi e inediti, Bari 1951: si veda no, nella Nota, p. 159, le notizie sulla cronologia dei pensieri, tratte da indicazion i che si trovano a margine del detto codice e che si presumono ricava te dall'originale. Lo stesso R. Amerio ha studiato i pensieri sarpiani nel suo saggio Il Sarpi dei pensieri filosofici inediti, Torino 1950. Si veda anche G. DA Pozzo, Per il testo dei «Pensieri» del Sarpi, in «Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano», III (1961). Per i criteri seguiti nell'edizione dei pensieri da noi scelti (basata sulle indicazioni fornite dal Da Pozzo nell'articolo cit.) rinviamo alla Nota critica ai testi.
[39] Annales ecc., cit., II, p. 274. A veder nostro, cioè, la nomina del Sarpi, amico del Tavanti, sarebbe stata un modo per compensare i sostenitori di questi per il passaggio del priorato nelle mani di un uomo non di loro gradimento.
[40] P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti ecc., cit., II, p. 459; G. CUGNONI, Autobiografia del card. G. A. Santori, in «Archivio della R. Società romana di Storia Patria», XII (1889): l'autobiografia sembra rivelare un accostamento di devozione semplice, un po' bigotta, accanto ad astuzia, avidità, ambizione. Ma sono interessanti gli apprezzamenti del Santori nei confronti di fatti e personaggi del suo tempo. Avrebbe sconsigliato Pio V dal procedere contro l'arcivescovo di Toledo Bartolomeo Carranza (p. 349). Ammirava moltissimo Carlo Borromeo : «prestantissimo cardinale per religione, per pietà, per digiuni, per astinenzia, per liberalità cristiana, per il zelo della disciplina ecclesiastica e per la santità della vita», scriveva nell'apprenderne la notizia della morte (p. 160). Giudicava negativamente, invece, il cardinale Morone, uno dei massimi esponenti della «riforma cattolica»: «orno d'eminente valore circa le cose del mondo, ma non tenuto di molta religione». Riguardo alla sua nomina a protettore dell'ordine dei servi di Maria, il Santori narra che Gregorio XIII volle che l 'accettasse «essendosi molto discorso dell'abuso e rilassazione di questa religione» (p. 366).
[41] P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti ecc., cit., II, pp. 452-3, nota 80.
[42] P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti ecc., cit., 11, passim; L. PASTOR, Storia dei papi, x, Roma I 928, passim; G. RITTER, La formazione dell'Europa moderna, Bari 1964, pp. 381-2; L. RANKE, Storia dei papi, Firenze 1965, pp. 328 sgg.; S. BERTELLI, Storiografi, eruditi, antiquari e politici, in Storia della letteratura italiana. Il Seicento, Milano 1967, pp. 342 sgg.
[43] L. PASTOR, op. cit., x, pp. 144 sgg.; parlando dei possibili candidati al papato dopo la morte di Innocenzo IX, L. RANKE, op. cit., p. 551, scrive: «ll Santorio, cardinale Sanseverina, poteva esser considerato il più rigorista. Già durante la sua giovinezza, a Napoli, aveva sostenuto lotte con i protestanti del luogo; nella sua autobiografia, che ci è rimasta manoscritta, egli chiama le nozze di sangue "il celebre giorno di S. Bartolomeo, tanto lieto per i cattolici"; aveva sempre aderito alle opinioni estreme; era il membro più influente della congregazione per gli affari francesi, e da lungo tempo era l'anima dell'inquisizione».
[44] F. MICANZIO, op. cit., pp. 47-8 e 49-50.
[45] Istoria del concilio tridentino, Bari 1935, II, p. 197.
[46] X. M. LE BACHELET, op. cit., pp. 259 e 411 sgg.; J. BRODRICK, Robert Bellarmine 1542 -1621, l, London-New York, Toronto, 1950.
[47] La frase è riportata nella Scrittura sopra la forza e validità della scomunica giusta e ingiusta, in P. SARPI, !storia dell'Interdetto e altri scritti editi e inediti, 1, Bari 1940, p. 26. Il Sarpi si limita ad indicare il suo interlocutore come «un padre di eccellentissima dottrina, che adesso è meritamente cardinale». Ma il Micanzio, nel riferire pur lui, con qualche lieve differenza, la frase, fa esplicitamente il nome del Bellarmino (op. cit., p. so).
[48] F. MICANZIO, op.cit., p. 47. Si veda, per le citazioni del Navarro nel Trattato delle materie beneficiarie, nell'ultima parte, passim (più oltre in questo volume).
[49] F. MICANZIO, op. cit., p. 74.
[50] Per tutta l'attività del Bobadilla rimane fondamentale il volume Bobadillae Monumenta. Nicolai Alphonsi de Bobadilla sacerdotis e societate Jesu gesta et scripta, Madrid 1913 (nella serie Monumenta historica societatis Jesu): vedi passim per i personaggi sopraccitati che sono, evidentemente, piccola parte del mondo di grandi personaggi conosciuto dal Bobadilla. Sul qual Bobadilla, e particolarmente sui contrasti insorti tra lui e il padre Lainez, si è soffermato a lungo M. SCADUTO, op. cit., pp. 31 sgg.
[51] Istoria del concilio tridentino, Bari 1935, I, pp. 273 sgg. (questa parte viene pubblicata anche in questo volume: si veda più oltre nei brani scelti dall'!storia). Si vedano i Bobadillae Monumenta, ora citati, p. 594.
[52] Del Christianum consilium, datato «anno 1547 mense octobri», il Camerota annotava: «La mano non è sua, ma d'alcuno todesco, come appare nella ortografia: ma lo stile, e modo di discorrere, è suo». Della seconda scrittura, il Camerota diceva esser autografa. Della terza, scriveva «Non so se sia di Bobadilla: non era sua lettera né stilo, ma è una cosa degna di esser letta». (In nota si dice che a margine era annotato: «È di Bobadilla. Recenset ipse inter opera sua»).
[53] F. MICANZIO, op. cit., p. 48.
[54] In Bobadillae Monumenta cit., p. 650. Il Castagna era stato un nemico di Sisto V, anzi «particolarmente offeso da lui " (L. RANKE, op.cit., p. 547).
[55] P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti ecc., cit., II, p. 423.
[56] Ci riferiamo al manoscritto della Vita, già citato, c. 8v., che si conserva presso l'Archivio di stato di Venezia. Nel testo a stampa, la frase suona invece così parafrasata : «Il padre ... rispose in una lettera in cifra, che tra di loro usavano, alcune parole in discredito della corte, come che in quella si venisse alle dignità con male arti, e di tenerne esso poco conto, anzi abominarla»(op.cit., pp. 51-2). Su Gabriele Dardano, o Calipsonio, com'era altrimenti chiamato, e che sarà menzionato n elle pagine seguenti proprio a causa di questa lettera, vedasi la nota biografica fornita da padre A. M. VICENTINI, l servi di Maria nei documenti e codici veneziani, parte II, vol. 1, Vicenza 1932, p. 96.
[57] Si veda il quadro della situazione veneziana offerto da uno storico contemporaneo quale NICOLÒ CONTARINI, Istorie veneziane, libro I (il brano contenente quel quadro è stato pubblicato in appendice al volume di G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano all' inizio del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 311-2), e, per i problemi dell'economia veneziana, l'opera di D. SELLA, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961.
[58] J. BODIN, Colloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis additis, Parisiis 1857 (riportiamo il passo nella traduzione fattane da C. VIVANTI nel suo volume Lotta politica e pace religiosa in Francia tra Cinque e Seicento, Torino 1963, p. 64).
[59] Ci sia permesso di rinviare per questa parte alle pagine introduttive del saggio di G. Cozzi, Galileo Galilei e la società veneziana, e alla bibliografia ivi citata (in Saggi su Galileo Galilei, Firenze 1965).
[60] Nel già citato manoscritto della Vita del Sarpi, che si conserva all'Archivio di stato di Venezia, c. 6I v. Bernardo Sagredo era il nonno di Giovan Francesco Sagredo, amico del Galilei e del Sarpi, protagonista ideale delle celebri opere galileane Dialogo sopra i due massimi sistemi e dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze.
[61] F. MICANZIO, op. cit., pp. 67 sgg. Dell'incontro coi Nis parla un certo Nicolotti, autore di una Vita di Urbano VIII, in un brano riportato da L. PASTOR, op. cit., XI, Roma 1929, p. 476, nota 1. Quanto mai indicativo della notorietà del Sarpi negli ambienti più vari è il fatto che nel 1603, dovendo ordinare un quadro a Domenico Tintoretto da collocare nella residenza del cancelliere polacco Zamoyski, ci si rivolgesse, quale intermediario, proprio al Sarpi: la lettera al Sarpi, scritta da Giovanni Ursino, pupillo del cancelliere, del I febbraio I603, è in Biblioteca Nazionale Marciana, Mss. it., Cl. XI, 176 (65I9); vedi anche S. LEMPICKI, Zamoyski a Padova, in Omaggio dell'Accademia di scienze e lettere all' Università di Padova, Cracovia 1922, pp. 111 sgg.
[62] I rapporti del Sarpi con Ebrei saranno oggetto di una denunzia di cui si parlerà a p. 24 (F. MICANZIO, op. cit., pp. 79-80). La notizia che il Sarpi partecipasse, con alcuni nobili, un segretario della Repubblica e un avvocato a un'accademia nella quale si sosteneva «l'opinione della mortalità dell'anima per via d'Aristotele», auspicando perfino che l'insegnamento filosofico padovano dovesse esser impartito in tal senso, è fornita dal padre A. POSSEVINO, Risposta di Teodoro Eugenio di Famagosta all'Aviso mandato fuori dal signore Antonio Querini senatore veneto, Bologna 1606, p. 5. Notizia che era confermata dal Nicolotti, nel brano citato nella nota precedente. A sua volta, un certo Offman- pseudonimo adottato da un difensore, rimasto ignoto, della Repubblica di Venezia e del Sarpi -,nel parlare, in risposta al Possevino, della partecipazione del Sarpi ad accademie culturali non confuta, anzi, implicitamente conferma, la voce che in una di esse «si attendesse a dispute e studi politici con la dottrina del Machiavelli» (Avvertimento et ammonizione catolica al padre Antonio Possevino giesuito. Lettera di WOLFANGO OFFMAN di Wratislavia, s. 1., 1606). Sulla posizione filosofica del Sarpi nei confronti del problema dell'immortalità dell'anima vedasi R. AMERIO, Il Sarpi dei pensieri filosofici inediti cit., pp. 17 sgg.
[63] G. Cozzi, Paolo Sarpi tra il cattolico Philippe Canaye de Fresnes e il calvinista Isaac Casaubon, in «Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano» I (1959), pp. 27 sgg. «Si quam libertatem in Italia aut retinemus aut usurpamus, totam Franciae debemus.», scriveva il Sarpi a Jacques Gillot, il 12 maggio 1609; «Vos et dominationi resistere docuistis et illius arcana patefecistis» (in P. SARPI, Lettere ai gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961, p. 131). Alla notizia della morte del de Maisse, Sarpi, scrive il Micanzio nella Vita cit., p. 171, «sentì dolore immenso, che dimostrò al signor Pietro Asselineo, col dirli: «Noi abbiamo perso il nostro monsieur di Maisse. Questa è ben grave ferita, che non ha rimedio"».
[64] Sulla conoscenza del Montaigne da parte del Sarpi vedasi G. Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca. Marco Trevisan e la sua eroica amicizia, in «Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano», II (1960), pp. 89 sgg. Si dirà più oltre delle affinità riscontra bili tra gli Essais e il De la sagesse di Pierre Charron e il Colloquium heptaplomeres di Jean Bodin da un lato e i pensieri di Sarpi dall'altro. E nell'introduzione alle scritture sarpiane su Ceneda (pp. 481-5), si accennerà alla possibile influenza di Bodin, soprattutto, e di Pasquier sulla formazione storicogiuridica del Sarpi.
[65] F. MICANZIO, op. cit., pp. 66-7.
[66] Ibid., pp. 78 sgg.
[67] A pp. 94-5 il Micanzio narra, con la consueta efficacia, le preoccupazioni del Sarpi per le possibili reazioni del cardinale di fronte alla denuncia e alla lettera, sapendo per esperienza che il Santa Severina, per asservir i frati, non riluttava dal ricattarli introducendo o appoggiando all'inquisizione contro di loro «cause di leggierissimo rilievo».
[68] P. RICASOLT, Rev.mi P. M. Angeli Mariae Montorsoli fiorentini praefecti ordinù servorum, Venetiis 1624; B. M. DOMINELLT, Epistolario del ven. p. Angelo M. Montorsoli, in «Studi storici O. S. M.», VIII (1957-1958).
[69] A. M. DAL PINO, La «Lectio divina» del recluso, in «Studi storici O. S. M.», VII (1955-1956), p. 66; dello stesso Dal Pino, vedasi anche il già citato articolo Una lettera del ven. p. A. M. Montorsoli.
[70] Annales già citati, II, p. 315.
[71] B. M. DOMINELLI, op. ci t., p. 121.
[72] Ibid., pp. 98-9. Il Micanzio, che non fa cenno di questa carica affidata dal Montarsoli al Sarpi, dice che il generale «amò et onorò il padre [Paolo] in tutte le maniere possibili» (op. cit., p. 97). Nello stesso periodo, precisamente nel 1598, iniziandosi la discussione della famosa disputa sui rapporti tra grazia divina e libero arbitrio, il servita lppolito Massarini, vescovo di Montepeloso, invitava il Sarpi a recarsi a Roma per partecipare con lui alle sedute della congregazione: stando a quel che dice il Micanzio (pp. 109-11), il Sarpi, fautore, al pari del Massarini, della dottrina agostiniana - e come si conveniva alla sua mentalità stoicizzante, osserva esattamente l'Amerio, nell'articolo citato, p. 26- rifiutò di andarvi perché «risoluto a non aprire la bocca a quei ventosi gonfiament». Aneddoto non del tutto convincente: nello stesso codice che accoglie i pensieri sulla religione e minute di qualcuno dei pensieri medico-morali che saranno pubblicati più avanti, si trovano vari fogli di appunti sulla questione della grazia e del libero arbitrio tratti da Occam, sant'Agostino, san Tommaso, Durando. Nel 1609 il Sarpi era invitato dalla Serenissima Signoria a stendere per propria informazione una Scrittura sopra lo stato della controversia «de auxiliis» (ripubblicata dall'Amerio nei citati Scritti filosofici e teologici del Sarpi, ma con una data errata, primi mesi del 1605 - la data esatta appare nel manoscritto della Scrittura conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Mss. it., Cl. XI, 176 (6519).
[73] Annales ecc., cit., II, p. 332; F. MICANZIO, op. cit., pp. 97-8.
[74] Per le elezioni dei successori del Montorsoli, vedansi gli Annales ecc., cit., II, pp. 334, 338, 341.
[75] Sulla serie dei vescovi delle diocesi di Caorle e di Nona rinviamo a P. B. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873. Monsignor Ragazzino moriva il 1 marzo 1600, pochi giorni dopo il Montorsoli. Il3 marzo 1600 il nunzio apostolico chiedeva alla Serenissima Signoria di appoggiare la successione a quel vescovado del suo padre spirituale, Lodovico de Grigis. La Signoria sul momento non si impegnava: ma in seguito non deve aver ostacolato la proposta del nunzio: il de Grigis otteneva la nomina il 24 gennaio 1601. Il fatto che nei documenti non si trovi traccia di una candidatura ufficiale del Sarpi, induce a pensare che essa sia stata piuttosto ventilata che proposta (di essa non parla il Micanzio: ne accennano, invece, con sicurezza, il GRISELINI, op.cit., p. 64 e il BIANCHI-GIOVINI, op.cit., 1, p. 123, entrambi solitamente bene informati).
[76] P. PIRRI, Come Paolo Sarpi non fu vescovo di Nona, in «Civiltà cattolica», IV (1936), p. 196.
[77] lbid., p. 198.
[78] G. Cozzi, Gesuiti e politica sul finire del '500. Una mediazione di pace tra Enrico IV, Filippo II e la Sede Apostolica proposta dal p. Achille Gagliardi alla Repubblica di Venezia, in «Rivista storica ita liana», LXXV (1963), passim e Galileo Galilei ecc., cit., p. 12.
[79] F. MICANZIO, op. cit., pp. 112-4.
[80] A. M. DAL PINO, Il «De reverentiis» nelle costituzioni O. S . M ., in «Studi storici O. S. M.» v (1953), p. 226.
[81] B. ULIANICH, Paolo Sarpi, il generale Ferrari ecc., cit., pp. 584-5.
[82] G. BENZONI ritiene, e fondatamente, a veder nostro, che il nunzio apostolico a Venezia, monsignor Offredi, alludesse al Sarpi in una sua lettera alla segreteria di Stato del 7 giugno 1603, in cui diceva che c'eran a Venezia dei «religiosi di così poca coscienza» da sostenere apertamente che non erano da temere le scomuniche minacciate dal pontefice a chi si opponesse ai diritti vantati dalla Sede Apostolica nella questione di Ceneda (Contrasti veneto-pontifici alla vigilia dell'Interdetto 1600-1605, tesi di laurea discussa all'Università di Padova, Facoltà di lettere, nell'anno accademico 1958-1959, p. 145). Piuttosto curioso, per ragioni che si possono comprendere dall'introduzione alle scritture sarpiane su Ceneda (vedi pp. 472-3 in questo volume), è che nel 1598 il patrizio Leonardo Mocenigo, frequentatore pur lui, anche se solo sporadicamente, del ridotto Morosini, dovendo succedere nell'episcopato cenetense al fratello Marc'Antonio, il quale era stato praticamente costretto dalla Repubblica ad abbandonarlo a causa dell'atteggiamento da lui assunto riguardo la controversia sulla sovranità sul contado di Ceneda, incaricasse proprio il Sarpi di fargli da «istruttore nella professione canonica, et in quello, ch'oltre la litteratura che possedeva, era conveniente al suo nuovo stato episcopale», e si facesse poi accompagnare da lui a Ferrara per esservi esaminato e consacrato da Clemente VIII (F. MICANZIO, op. cit., p. 109). Ma è probabile che la scelta di Sarpi fosse, da parte del Mocenigo, un modo per far tacere gli scrupoli della Repubblica e convincerla che egli intendeva procedere con spiriti ed intenti diversi da quelli del fratello. Il Possevino, nella citata Risposta, accusava il Sarpi di aver «castrato», «libri di sana teologia», «per instinto di chi lo sa, e mandato fuora colle parti mutilate acciò che si togliesse la luce della verità e della dovuta ubidienza alla Chiesa di Dio» (pp. 56-7). Il Possevino si riferiva al fatto che al momento della rottura tra la Repubblica e la Sede Apostolica i librai veneziani avevano chiesto alla Serenissima Signoria il permesso di pubblicare il De censuris di Francisco Suarez e che ne avevano avuto il consenso a condizione che dall'edizione fossero omessi passi che riguardavano le immunità ecclesiastiche violate dalla Repubblica. Il De Censuris appariva mutilato: la congregazione dell'Indice ne vietava la diffusione finché non fossero ristabiliti i passi omessi (R. DE SCORRAILLE, François Suarez, II, Paris 1911, p. 121).
[83] F. MICANZIO, op.cit., p. 73.
[84] Si veda nella nota storica dell'Amerio all'edizione da lui curata degli Scritti filosofici e teologici del Sarpi, già citata, pp. 162 sgg.
[85] Sull'etica sarpiana vedasi R. AMERIO, Il Sarpi dei pensieri filosofici inediti, cit., pp. 29 sgg.
[86] F. MICANZIO, op. cit., pp. 29, 58-9, 106, ecc. Lo stesso Micanzio narra che passando per Venezia dopo l'Interdetto Gasparo Scioppio, che aveva pubblicato nel 1606 i suoi Elementa philosophiae stoicae moralis, ultima parte del Satyricon dato alle stampe nel 1603, si era intrattenuto a parlare col Sarpi «della dottrina degl'antichi stoici» (ibid., pp. 149- 50; M. D'ADDIO, Il pensiero politico di Gasparo Scioppio e il machiavellismo del Seicento, Milano 1962, pp. 36 sgg. e 49). Osservazioni interessanti, anche se piuttosto forzate ai fini di un'interpretazione intellettualistica del Sarpi, sono in G. GETTO, Paolo Sarpi, Firenze 1967: si veda, ad esempio, pp. 61 sgg.
[87] Si veda particolarmente nel De la sagesse di Pierre Charron il capitolo 11 del libro 11 e di Montaigne, oltre i vari altri passi in cui si intrattiene sul pirronismo, il capitolo XII (la famosa Apologie de Raimond Sebond): «Leurs façons de parler» scrive dei pirroniani «sont: Je n'establis rien; il n'est non plus ainsi qu'ainsin, ou que ny l'un ny l'autre; je ne le comprens point; les apparences sont égales par tout; la loy de parler et pour et contre, est pareille. Rien ne semble vray, qui ne puisse sembler faux. Leur mot sacramentai, c'est, επεχω c'est à dire je soutiens, je ne bouge. Voylà leurs refreins, et autres de pareille substance. Leur effect, c'est une pure, entiere et tres-parfaicte surceance et suspension de jugement. Ils se servent de leur raison pour enquerir et pour debatre, mais non pas pour arrester et choisir. Quiconque imaginera une perpetuelle confession d'ignorance, un jugement sans pente et sans inclination, à quelque occasion que ce puisse estre, il conçoit le Pyrronisme» (citiamo dall'edizione degli Essais a cura del Villey, p. 505: il quale annota che la maggior parte degli aforismi contenuti nelle prim e righe del brano erano dipinte in greco sulle travi della biblioteca del Montaigne).
[88] Il Micanzio, nel parlare (op. cit., p. 106) delle «tre sole cose» del Sarpi «elaborate alla maniera de' piccioli opusculi di Plutarco», cita anzitutto «una medicina dell'animo, in quale applicando gl'aforismi scritti per la sanità e cura del corpo, alla cura e sanità dell'animo, ch'egli constituisce, per quanto pare, in stato, non in moto, e nell'indoglienza, a quale però mai l'uomo arriva in questa vita, ordina molti singolari mezzi per conseguire la tranquillità» : riteniamo che in tal opuscolo debbano identificarsi i pensieri medico-morali da noi qui pubblicati (anche M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, p. 329, accenna a pensieri di questo argomento).
[89] Nella nota su La vie et l'oeuvre de Montaigne posta ad introduzione della edizione da lui curata degli Essais, pp. XXI sgg.
[90] F. MICANZIO, op. cit., p. 102.
[91] Non è certo questa la sede per affrontare un tema così difficile e complesso come quello dei nessi tra il pensiero del Machiavelli e il Sarpi, così come quello dei nessi tra Charron, Montaigne e Sarpi. Un approccio ad esso è fatto da l. CERVELLI, Giudizi seicenteschi dell'opera di Paolo Paruta, estratto dagli «Annali dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici», Napoli 1967, pp. 237 sgg., che delinea, pur non avendo potuto, almeno sinora, prestare particolare attenzione al Sarpi, di cui non conosce il materiale inedito qui pubblicato, il problema della fortuna del Machiavelli nel mondo veneziano, raccogliendo tra l'altro le acute suggestioni fomite da G. PROCACCI nei suoi Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, in particolare quelle sull'importanza avuta dal De sapientia di Gerolamo Cardano. Di grandissimo interesse, per le suggestioni che pur esso può offrire per uno studio sui nessi tra il Sarpi e Montaigne e Charron e il Machiavelli, è il volume di A. M. BATTISTA, Alle origini del pensiero politico libertino, Montaigne e Charron, Milano 1966, e particolarmente il capitolo Sul «machiavellismo» di Montaigne.
[92] In un altro degli opuscoli arieggianti Plutarco, scrive il MICANZIO, op. cit., p. 106, dopo aver parlato di quello in cui sembra di riconoscere la cosiddetta Arte del ben pensare, Sarpi sostiene che «l'ateismo ripugni alla natura umana, e non si truovi, ma che quelli che non conoscono la deità vera, necessariamente se ne fingono delle false».
[93] I. G. DILTHEY, L'analisi dell'uomo e la intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, 1, Venezia 1927, pp. 186, 193, '95. Sull'atteggiamento religioso di Bodin e Charron è ora da vedere A. TENENTI, Libertinisme et hérésie. Milieu du 16',début du 17' , in Hérésies et sociétés dans l'Europe pré-industrielle 11'-18' siècles, Paris-La Haye 1968, p.303. Notevole interesse ha il seguente brano sull'atteggiamento religioso sarpiano, scritto dal Micanzio tra appunti preparatori per la sua biografia sarpiana già citati (in Biblioteca Querini Stampalia di Venezia, Manoscritti, Cl. IX, cod. xvi): «La causa perché fosse lontano da superstizione; eccone le sue sentenze parte di sua mano scritte: perché sono così pazze le opinioni superstiziose, che pare impossibile trovare uomo superstizioso che non sia anco pazzo, o per almeno leggierissimo e che si fa fantasmi e poi ne trema. E l'ipocrisia per il contrario ha li diportamenti così ribaldi, così manifestamente finti e ridicolosi, così interessati, che è facile conoscere. E ponno bene quelli essere conosciuti dai fini, dagl'andamenti. Né saprei trovar essemplare migliore di religioso vero, e senza li dui defetti sudetti, che questo padre. E sanno bene in conscienzia et esperienza quelli stessi che lo calunniano di ipocrisia, s'egli mai ha favorita alcuna delle bagatelle et invenzioni che sono le vere e vive maniere dell'ipocrisia. Se ha avuto nissuno de fini. Ci sono tante note di sua mano, tante opere fatte, che mostrano se favorisse l'ipocrisia o li levasse la mascara mostrando la pietà e religione cristiana nuda come nella sua origine, prima che gl'interessi umani la trasformassero in tante alterazioni, che sono apunto la superstizione et ipocrisia, o 'l trattenimento degl'uni e degl'altri. Discorso per la sua vita in questo genere: osservante delle leggi, ma senza apponersi ai riti: dell'Avemaria e Salve Regina. Con questa sodezza fu essaminato tre volte all'inquisizione, come di sopra».
[94] F. MICANZIO, op. cit., p. 73.
[95] Ibid., p. 49. Il Della Porta parla del Sarpi nella sua opera Magia naturalis, Francofurti 1591, p. 288: «Venetiis eidem studio invigilantem cognovimus R. P. Paulum Venetum, ordinis servorum tunc provincialem, nunc dignissimum procuratorem, " scrive il Porta, nel proemio del capitolo sul magnete «a quo aliqua didicisse non solum fateri non erubescimus, sed gloriamur, cum eo doctiorem subtilioremque, quotquot adhuc videre contigerit neminem cognoverimus, natum ad Encyclopediam; non tantum Venetae urbis, aut Italiae, sed orbis splendor et ornamentum». Il Micanzio, parlando degli interessi del Sarpi per i fenomeni del magnetismo, narra dello stupore di un «oltremontano» per la preparazione del frate: sembra anzi che il Sarpi avesse preparato un trattato sulla calamita, di cui rimangono taluni passi nel già citato codice marciano, Cl. 11, 129 (4914), vol. 1. Non è da escludere che il Sarpi abbia troncato quel suo lavoro dopo aver conosciuto il De magnete di Gilbert, apparso nel 1600. «Quel Gilberto anglese» scriveva al vescovo di Belluno Alvise Lollino «non fa espressione di scrivere eruditamente, ma cose sode. Della calamita, tutti quelli che hanno toccato qualche cosa, hanno balbutito: questo è il primo che ne scriva " (citato da G. Cozzi, Galileo Galilei ecc., cit., p. 24). Ma come si vedrà da una lettera di Sarpi a Jacques Leschassier, pubblicata più oltre (si veda alle pp. 252-3), l'interesse per la calamita non abbandonerà il Sarpi neanche negli anni successivi.
[96] Si veda la nota a p. 12.
[97] F. MICANZIO, op. cit., p. 101. La lettera cui si fa riferimento era inviata da Giovan Francesco Sagredo a Galileo il 28 settembre 1602, in G. GALILEI, Opere, edizione nazionale, x, Firenze 1900, p. 95: si veda anche una lettera di un certo fra Andrea da Udine, del 3 febbraio 1605, che informa il Sarpi dei risultati negativi di un trattamento suggeritogli da un medico, in Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, Mss. it. Cl. xr, 176 (6519). Il diario, compilato da Gerolamo Priuli, è in Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna, Fondo Foscarini, Codice 6228, c. 106: la notizia è registrata sotto il 9 giugno 1608.
[98] Nel citato codice XVI, Classe IX, della Biblioteca Querini Stampalia di Venezia: la proposizione relativa a quello … minuti accidenti non è compiuta sintatticamente; il verbo mancante è forse «provava», o «conchiudeva» o simili.
[99] Le riflessioni del Sarpi sul metabolismo sono pubblicate qui avanti, pp. 60-3. «Pulsilogio» ha annotato, nel codice marciano, più volte citato, contenente i pensieri filosofici e scientifici, una ignota mano settecentesca «è uno strumento come il termometro, inventato dal Santerio per suggestione di Fra Paolo, per conoscere il moto dell'arteria, o sia il grado del calore febbrile» (nell'articolo citato di G. DA Pozzo, Per il testo dei «Pensieri» del Sarpi, p. 27, nota 5; ma si veda, per la scoperta del termometro, anche in G. Cozzi, Galileo Galilei ecc., cit., p. 55). Della grandissima stima del Santorio per Sarpi parla F. MICANZIO, op. cit., p. 43. Il De statica medicina aphorismorum sectiones septem, Venetiis 1614, era dedicato, con le espressioni più calorose, a uno dei più vecchi e cari amici del Sarpi, Nicolò Contarini; i Commentaria in artem medicinalem Galeni, Venetiis 1612, erano dedicati ad Andrea Morosini, titolare del ben noto ridotto. E si vedrà più avanti, pp. 567 sgg., come il Santorio sia il docente padovano che asseconderà l 'azione, favorita dal Sarpi e da Nicolò Contarini, nella questione delle lauree da concedersi senza professione di fede.
[100] Rinviamo, per i rapporti tra Sarpi e Galileo, al saggio più volte citato di G. Cozzi, Galileo Galilei ecc., pp. 23 sgg. La fama delle capacità del Sarpi come matematico persisteva anche dopo che egli aveva praticamente messo da parte questi studi: il 1 novembre 1615 Alessandro Anderson gli sottoponeva un problema matematico, su cui c'era discordia tra studiosi, affinché esprimesse il suo giudizio. Ma è interessante quanto l'Anderson scrive sul finire della sua lettera, riferendosi a un trattato di matematica del Sarpi, probabilmente iniziato e mai completato: «Quotquot hic vere matheseos studiosi, tractatum de recognitione aequationum tuo in publicum munere avidissime expectamus» (nel Codice 10436, Fondo Foscarini, della Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna; il trascrittore settecentesco della lettera forse M. Foscarini, che ne parla nella sua op. cit., p. 329- annota, riguardo il trattato matematico del Sarpi: «Questa è un'apra matematica di cui l'autore della di lui vita non ebbe cognizione, né si sa qual fine abbia fatto»; ed è cosa effettivamente strana, dato che il MICANZIO, op. cit., p. 74, non manca di celebrare la dottrina matematica del maestro).
[101] F. MICANZIO, op. cit., p. 18.