PANCIATICHI, Paolo
PANCIATICHI, Paolo. – Nato a Pistoia, fu battezzato il 17 giugno 1499. I genitori, Ulivieri e Margherita di Paolo Benvoluti, ebbero altri sei figli maschi.
Quasi nulla sappiamo della sua formazione, se non che conseguì la laurea in diritto a Pisa, per la quale «ottenne soccorsi pecuniari dall’opera di s. Iacopo nel settembre 1521» (Passerini, 1858, p. 107). Poco abbiente, spese la vita a caccia di protezione e di mezzi economici presso signori e cardinali.
Visse a Roma negli ultimi anni del pontificato di Clemente VII, secondo quanto si ricava da una lettera scritta da messer Giovanni Maona, segretario di don Ferrante Gonzaga (Fanfani, 1858, p. 208). Mangiò nel tinello del papa, lamentandosi nei suoi versi della scarsa qualità dei pasti e senza risparmiare feroci critiche a Carlo Ariosto, maestro di casa («Che per sparmiare al papa argento e oro / tolse a’ tinelli e a noi provisione, / del papa infamia e tutto il concistoro» Fanfani, 1858, p. 208). Ebbe l’incarico di auditore o qualche ufficio simile ad Anagni, stipendiato da monsignor Paolo Pallavicino, governatore della cittadina. Ma anche lì, in quell’«amara valle e lacrimosa» (ibid., p. 209), ebbe da dolersi.
In gioventù prestò servizio presso il cardinale Giovanni Piccolomini. A questa esperienza si lega la cosiddetta questione del ‘debito di Michelangelo’, contratto dall’artista con gli eredi Piccolomini per aver realizzato solo quattro delle quindici statue previste nel duomo di Siena, sull’altare Piccolomini, secondo gli accordi stipulati tra il 1501 e il 1504. Per l’inadempienza Michelangelo doveva pagare un debito di cento ducati d’oro, che nel 1537 Alessandro Maria Piccolomini assegnò a Paolo Panciatichi. L’artista si fece vivo con lui solo nella primavera del 1561 per chiudere la pendenza e Panciatichi gli rispose il 1° maggio di quello stesso anno. Poiché non si arrivò a chiarire chi fosse l’effettivo creditore, Michelangelo non saldò il debito, ma prima di morire ordinò che fosse estinto a favore dei Piccolomini e il 21 aprile 1564 cento ducati furono depositati al loro nome sul Monte della Fede a Roma (Il carteggio di Michelangelo, V, 1983, pp. 253 s.).
Prima del 1539, Panciatichi entrò nelle grazie di Ippolito d’Este, che all’epoca viveva in Francia e non era ancora cardinale. Non sappiamo se l’incontro tra i due sia avvenuto per un soggiorno del poeta a Parigi o per una visita di Ippolito a Roma, ma resta il fatto che Panciatichi ricevette dall’Estense una provisione di tre scudi d’oro al mese, come si ricava da un sonetto di ringraziamento (Fanfani, 1858, p. 210). Il servizio tuttavia non durò a lungo e poco dopo Panciatichi si legò al cardinale Alessandro Farnese. L’aneddoto del ronzino troppo pigro che il porporato gli procurò perché andasse con lui in Francia, a incontrare il re e parlare di questioni legate al concilio di Trento raccontato dal poeta in uno dei suoi componimenti (ibid., p. 211), fa pensare che lo seguisse nella missione diplomatica Oltralpe, conclusasi nell’estate del 1554. L’ammontare della pensione non è noto, ma è certo che la ricevesse poiché in un’occasione insistette con un certo Curzio, maestro di casa del cardinale, il quale gli ritardava il pagamento a causa dell’assenza del padrone legato nella guerra contro il luterani. Ciò non toglie che Panciatichi si lamentasse nei suoi versi con il fratello del cardinale, Ottavio Farnese, duca di Camerino, per il trattamento ricevuto (ibid., p. 212).
Dell’insoddisfazione di Panciatichi per la vita cortigiana a Roma dà testimonianza un sonetto indirizzato all’amico Pandolfo Di Brandi (ibid., p. 214), nel quale rivolgeva ai suoi compatrioti la preghiera affinché lo «liberassero da’ sette colli» e persuadessero il duca di Toscana a concedergli un podere nel Pistoiese da dare in affitto.
Con la morte di Paolo III la pensione, come tutte le altre concesse da papa Farnese, fu soppressa dal successore Giulio III a causa delle spese della guerra con i luterani e Panciatichi si trovò in ristrettezze economiche. A forza di suppliche poetiche riuscì a rivendicarla, ma ormai era stanco di condurre una vita di servizi all’ombra della Curia. Dal 1552 risulta a Pistoia, dove ricoprì cariche pubbliche. Nel novembre 1555 fu proposto del Comune, nel luglio 1566 operaio di S. Iacopo, gonfaloniere nel settembre 1571.
In qualità di operaio di S. Iacopo, nel 1567, ebbe l’incarico di adoperarsi perché la sua città potesse nuovamente godere del lascito disposto con testamento del 5 febbraio 1383 dal medico pistoiese Michele de’ Cesis, di cui gli operai di S. Iacopo furono amministratori fino al 1487, quando si interruppero i finanziamenti da parte dei Monti di Venezia dai quali dipendeva quel capitale. La rendita serviva a mantenere a studio a Bologna o a Padova per sei anni due giovani, uno pistoiese l’uno e uno modenese. Panciatichi concluse con successo l’incarico e ne lasciò memoria in un registro membranaceo, in cui copiò le lettere e gli atti inerenti al negoziato (Arch. di Stato di Pistoia, Opera di S. Iacopo, 340). In appendice aggiunse La ragione che ha la città di Pistoia et di Modona nel collegio delli scolari italiani posto nella città di Parigi (cc. 47v-52r) che è copia «marcatamente scorretta» (Manno Tolu, 1989, pp. 60 s.) dell’atto di fondazione del Collège des Lombards, l’istituzione universitaria parigina fondata nel XIV secolo e funzionante fino al 1580, riservata a undici borsisti provenienti da Pistoia, Piacenza e Modena.
Panciatichi morì a Pistoia il 9 gennaio 1577, come attesta il Libro de’ morti dal 1570 al 1610 scritto da Domenico Ferrati de’ Tedici (Fanfani, 1858, pp. 214 s.).
La sua poesia tratta spesso di argomenti familiari e autobiografici con un tono satirico e burlesco. Si inserisce nel filone bernesco, che tanta fortuna riscosse nel secolo, riuscendovi «più che mezzanamente» (ibid., p. 208), grazie a un’originale e vivace vena faceta, ricca di singolari ghiribizzi e trovate, che gli permise di distinguersi dai «numerosi quanto insipidi imitatori» cinque-secenteschi (Savi, 1972, 124).
I codici delle opere di Panciatichi sono conservati nella Biblioteca Forteguerriana di Pistoia. Il ms. B.176 contiene l’opera poetica, trascritta dall’autore in nitida, definitiva stesura, come rivela l’assenza di correzioni e note a margine. Suddiviso in due parti, entrambe precedute da un indice dei capoversi, raccoglie rispettivamente 85 capitoli e 270 sonetti, per un totale di 409 carte. Il ms. D.313, di 240 carte, posseduto nel XVIII secolo dal nobile pistoiese Domizio Tonti (da cui il nome di ‘codice Tonti’), attesta 365 componimenti poetici, di cui 105 adespoti, preceduti da un indice dei capoversi e da una Prefatione nel arbore della casa delli Acciaiuoli (cc. 9v-10r). Documento rilevante della poesia italiana del Cinquecento, il codice fu oggetto delle ricerche di studiosi del XIX secolo, che hanno contribuito a riscattare la memoria di Panciatichi dall’oblio in cui era precipitata. Esso tramanda in buona parte rime di Panciatichi, alcune delle quali non presenti nel ms. B.176, e di numerosi altri autori: Antonio Cammelli (il Pistoia), Francesco Berni, Scipione Carteromaco, Annibal Caro, Giovanni Della Casa, Alfonso de’ Pazzi, Francesco Maria Molza, Anton Francesco Grazzini e vari minori (per l’elenco e la più recente descrizione del codice cfr. Rossi, 2008, p. 79). Oltre alle rime, il codice Tonti raccoglie alcune prose: la Diceria di santa Anafissa sopra il tributo fatto al sexto Re della Virtù di Annibal Caro, materiale epistolare e l’unico lavoro panciatichiano in prosa: la Lettera del Palandrano a m. Orazio Marchiani (Fanfani, 1858, pp. 217-221).
Oltre a essere un autore prolifico, Panciatichi fu anche un «infaticabile trascrittore» (Savi, 1972, p. 125), come dimostrano altri codici presenti nella Forteguerriana: il ms. C.225, di 169 carte, contenente le anonime Istorie di Pistoia, dal 1499 insino al 1504 scritte da autore incognito ma vero e senza passione, e della fazzione Canciglieri. Scrivendo il vero tanto della fazzione Panciaticha quanto della fazzione Cancigliera, è tutto di mano di Panciatichi, se si escludono le prime due carte aggiunte successivamente.
Una Lettera al furfante re della furfantissima furfanteria, attribuitagli nelle Lettere facete et piacevoli di Dionigi Atanagi (I, Venezia, B. Zaltieri, 1561, pp. 323-336) è invece da assegnare a Iacopo Bonfadio (Figorilli, 2008, p. 110)
Fonti e Bibl.: Il carteggio di Michelangelo. Edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, V, Firenze 1983, pp. 253 s.; M. Salvi, Delle historie di Pistoia e fazioni d’Italia, Venezia 1662, pp. 200 s.; F.A. Zaccaria, Bibliotheca Pistoriensis, Torino 1755, p. 211; J.M. Fioravanti, Memorie storiche della città di Pistoia, Lucca 1758, p. 401; L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Panciatichi, Firenze 1858, p. 107; P. Fanfani, P. P., in Il Piovano Arlotto. Capricci mensuali di una brigata di begliumori, I (1858), pp. 208-221; Id., La poesia giocosa in Italia. Parte seconda. Secoli XVI e XVII, in Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, II (1867), 5, pp. 635-649; V. Capponi, Biografia pistoiese o notizie della vita e delle opere dei pistoiesi, Pistoia 1878, pp. 100, 306; Rime edite e inedite già di Antonio Cammelli detto il Pistoia, a cura di A. Cappelli - S. Ferrari, Livorno 1884, p. XIII; E. Percopo, Antonio Cammelli. I sonetti faceti secondo l’autografo ambrosiano, Napoli 1908, pp. XXIV s.; Id., Antonio Cammelli e i suoi «sonetti faceti», Roma 1913, p. 1; F. Berni, Rime facete, Milano 1959, pp. 82, 154, 415; F. Savi, P. P. rimatore pistoiese del secolo XVI, in Bullettino storico pistoiese, LXXIV (1972), pp. 123-127; R. Manno Tolu, Scolari italiani nello Studio di Parigi. Il «Collège des Lombards» dal XIV al XVI secolo e i suoi ospiti pistoiesi, Roma 1989, pp. 60 s.; E. Scarpa, La corrispondenza burlesca tra Giovanni Della Casa e Antonio Bernardi della Mirandola, Filologia e critica, XV (1990), pp. 88-105 passim; C. Rossi, Il Pistoia, spirito bizzarro del Quattrocento, Alessandria 2008, p. 79; M.C. Figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli 2008, p. 110.