MOROSINI, Paolo
– Nacque nel 1406 a Venezia, da Egidio (o Zillio o Zilio), già podestà di Chioggia (1393-94) e quindi di Verona (aprile 1407 - settembre 1408 e nel 1410-11) e di Padova (1409-10 e 1414-15). Nonno paterno fu il più volte ambasciatore Andrea, fratello del doge Michele. Ebbe almeno quattro fratelli (Michele, Antonio, Andrea, capitano di Padova nel 1439-40, e Giovanni).
Accasatosi nel 1427 con Anna di Giovanni Falier, dalla quale ebbe almeno tre figli maschi – Giovanni, Marco, Piero –, nella prima fase della sua esistenza si dedicò a una compiuta formazione umanistica, padroneggiando il latino, avendo buona conoscenza del greco e cimentandosi con l’ebraico. Frequentò pure, a Padova, la facoltà «artista», disdegnando tuttavia il conseguimento dell’alloro dottorale in artibus.
L’impegno pubblico iniziò solo nel 1438 come uditore. Di nuovo, nel 1439, fu «auditor veterum sententiarum»; castellano di Corone nel 1449-50, il 14 agosto 1451 fu a Palazzo Ducale tra i testimoni dell’investitura dogale di luoghi nel Bergamasco conferita al condottiero Bartolomeo Colleoni. Inviato in Istria per alcune controversie confinarie coll’Impero, l’11 marzo 1452 fu nuovamente testimone a Palazzo Ducale dell’assegnazione d’un feudo, il castello e il contado d’Aviano, al condottiero Cristoforo Mauruzzi; quindi tra i delegati a scortare l’imperatore Federico III, reduce da Roma, da Chioggia a Venezia. Successivamente, come disposto dal Senato il 1° dicembre 1452, si recò in missione a Rodi per protestare con il gran maestro gerosolimitano Jean de Lastic per l’incarceramento di Fantino Querini, nobile veneziano e cavaliere dell’ordine, chiedendone la liberazione nonché il risarcimento dei danni pei mercanti veneti coinvolti nella sua vicissitudine.
Ambasciatore a Roma, savio di Terraferma – come poi, in seguito, nel 1458-62, 1466, 1469-70; e, pure, ripetutamente savio grande nel 1472-74 e 1477-78 –, in tale veste, nella discussione senatoria del 19 luglio 1454, si distinse, da interventista qual sempre rimase, come fervido fautore d’una politica risoluta ed energica a Oriente, auspicabilmente esitante in una crociata antiottomana (a lui fa appello, il 26 giugno 1470, Lauro Querini da una Candia che si sente minacciata). E, nel contempo, quale savio super aquis, nel 1453-54 caldeggiò interventi di ingegneria idraulica e sovrintese alla tutela dei rifornimenti idrici garantiti dal Brenta.
Rettore a Crema nel 1455-56, fu ambasciatore sia a Ferrara per l’accordo con Borso d’Este sulla navigazione dell’Adige (17 aprile 1459), sia, nel 1461, al duca di San Sabba e gran voivoda di Bosnia Stefano Vukscić per allentare la tensione col nuovo re bosniaco Stefano Tomašević; fece parte del Consiglio dei dieci nel 1461-62 e dei 41 elettori nell’elezione dogale del doge Cristoforo Moro (12 maggio 1462); fu altresì oratore al signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta (giugno 1462), nonché inviato al re di Polonia Casimiro IV e al re di Boemia Giorgio di Podĕbrady, per persuaderli ad aderire all’accordo antiturco veneto-pontificio del 19 ottobre 1463. In missione diplomatica anche in «Austria» nel 1464, fu rettore di Treviso quando, come ordinatogli dal Senato il 29 marzo 1465, v’accolse l’ambasciata ungherese.
Del consiglio dei dieci nel 1466-67, provveditore alle colonie mediterranee nel 1467, avogador nel 1467-68, resta punto controverso se il dono bessarioneo della preziosissima biblioteca – accettato all’unanimità dal Senato il 23 marzo 1468 – si debba suasionibus di Morosini (La Chiesa di Venezia tra medioevo…, 1989, p. 607) o di suo cugino Pietro, ambasciatore a Roma (Labowsky, 1966, pp. 168 s.; Barile - Clarke - Nordio, 2006, p. 66). Supponibile, a ogni modo, che Morosini, appassionato umanista, si fosse adoperato a che il cardinale destinasse a Venezia la propria raccolta di codici quasi a sede deputata per il salvataggio del messaggio ellenico periclitante dopo la caduta di Costantinopoli.
All’inizio di dicembre del 1468 Morosini attese, con Antonio Priuli, a Ferrara l’imperatore Federico III per scortarlo – evitando Bologna, Firenze e «terren» del duca urbinate – sino a Roma, dove giunsero il 23, per essere nuovamente a Venezia il 6 febbraio 1469. Consigliere dei Dieci, il 21 agosto successivo Morosini fu eletto provveditore dell’esercito veneto in Romagna. Sempre provveditore, ma a Brescia, il 28 marzo 1471 fu eletto ambasciatore alla Dieta di Ratisbona (24 giugno).
Morosini vi si recò col giurista veronese Bartolomeo Cipolla assegnatogli come coadiutore dal Senato, sia perché l’agevolasse nel «disputar» in «materia de confini», sia nel prospettare – laddove il papa Paolo II riluttasse ai propri «debito» e «officio» – l’eventualità d’«un convento de prencipi christiani e zeneral concilio» all’insegna della «salveza de tuti» con la liberazione dal «flagello» turco.
A Milano per una rapida missione nel 1471, quindi provveditore per le fortificazioni di Terraferma, alla fine del 1472 rifiutò l’incarico di «orator in Borgogna». Ancora dei 41 elettori, nell’elezione del doge Nicolò Marcello (13 agosto 1473), fu consigliere allorché, su sua proposta, fu decisa l’erezione d’un «ospeal» in città previa «una indulgencia papal» per fabbricarlo (7 settembre 1474). Designato dei cinque correttori della promissione dogale il 14 dicembre 1474, il 23 fu incaricato, con Bernardo Bembo, di garantire a Ferrara e Bologna, il carattere difensivo della lega veneto-fiorentina-milanese, per poi procedere alla volta di Firenze. Qui, in compagnia di Bembo, giunse il 7 gennaio 1475, per poi proseguire da solo verso Roma, oratore al pontefice.
Di nuovo a Venezia, già dei 41 elettori per Pietro Mocenigo (4 dicembre 1474), lo fu nuovamente il 4 marzo 1476 pel doge Andrea Vendramin (4 marzo 1476). A Ferrara poi, con Marco Barbarigo, a felicitarsi con Ercole d’Este per lo sventato tentativo di colpo di Stato – cui forse Venezia non fu del tutto estranea – di Nicolò d’Este, Morosini fece parte dei tre esecutori della legge suntuaria del 17 novembre preposti a «inquirir» e punire eccessi di spesa «in ornamenti de done et apparati».
Nominato provveditore (28 aprile 1477) e dei tre ispettori dell’assetto fortificatorio (5 novembre) in Friuli, rifiutò entrambe le nomine, al pari di quella di consigliere, con Vitale Lando, della regina di Cipro Caterina Cornaro. Un sottrarsi che poté permettersi, forte d’una rispettata autorevolezza.
Ancora oratore a Roma e poi a Napoli per persuadere Ferdinando d’Aragona a un impegno antiottomano, provveditore in Friuli, consigliere, Morosini «vivit adhuc», scrive di lui, in una lettera del 9 maggio 1480 all’«abbas classensis» Urbano Malombra l’ormai prossimo generale dei camaldolesi Pietro Dolfin. La sua vita, aggiunge, «erit nobis non inutilis».
Ma poco restava da vivere a Morosini, che morì con tutta probabilità entro il 1482, a Venezia.
Fu lo stesso culto delle humanae litterae a mobilitare contro la mezzaluna Morosini, che, con angoscia, il 29 giugno 1453 aveva appreso, in Palazzo Ducale, della caduta di Costantinopoli del 29 maggio. Se ancora nel 1477 visse come un'umiliazione personale l’irruzione d’un’orda di predoni turchi spintasi «brusiando la patria» del Friuli sino a Pordenone, certo è tuttavia che vide declinare, nei suoi ultimissimi anni, la politica antiturca da lui propugnata: dalla pace di Venezia con Maometto II (29 gennaio 1479) al sottrarsi alle proposte spagnole d’una lega antiottomana (1481), fino al trattato di pace con Bajazet II (12 gennaio 1482).
Se politicamente fu schierato con una linea sensibile allo spirito di crociata alternativa a quella della mercatura interessata all’incremento dei traffici, culturalmente il suo umanesimo – con l'innesto del greco da lui favorito – si istituzionalizzò radicandosi nella città lagunare (fu da lui proposta la delibera, approvata dal Senato il 3 ottobre 1460, dell’assunzione di Giorgio da Trebisonda a «publice legere», per 150 ducati annui), e ridimensionando al tempo stesso ogni esclusiva riverenza nei confronti dell’antica Roma. Al contrario di Lauro Querini – suo corrispondente – che nel De nobilitate (1449-50) attribuiva la grandezza del patriziato marciano al presunto suo discendere dagli ottimati romani, nel De rebus ac forma reipublicae venetae (ed. in G. Valentinelli, Bibl. manuscripta…, III, Venezia 1870, pp. 231-264) Morosini l’intese connaturata alla genesi stessa di Venezia, autoctona, peculiare, unica, non importata o ereditata, ottimo e migliore fra gli Stati, assolutamente originale nella propria libera autocostruzione.
A giudizio di Francesco Pisani, Filippo Buonaccorsi, Francesco Negri, fu uomo dottissimo ed esaltato in vita quale saggio, il cui «gran senno» e «buon consiglio» vennero riconosciuti da Pio II; Francesco Pisani di Silvestro – nella prolusione del 7 novembre 1527 nella chiesa di S. Bortolomeo per l'inaugurazione dell’insegnamento nella scuola realtina – lo menziona per la sua eloquenza di grande diplomatico.
Tuttavia, di là dagli elogi espressi, a misurarne l’effettiva statura restano i suoi scritti. Oltre al citato De rebus… , trova spazio la lettera-trattatello in latino (col titolo Memoria… intorno alla Repubblica nel volgarizzamento di Giovanni Cornaro di Marino del 1508; poi Venezia 1796) a Cicco Simonetta, redatta per incarico del Senato, a guadagnare la simpatia di quello e del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza. Nonché una Defensio venetorum ad Europae principes, intervento apologetico manoscritto di Morosini dedicato al cardinale veneto Marco Barbo per ribadire il ruolo positivo della Repubblica nell’intera vicenda umana, edito solo nell’800 (in Valentinelli, cit., pp. 189-229).
A ulteriore testimonianza di un Morosini scrittore intermittente, debbono rammentarsi due interventi tra il teologico e lo speculativo: in uno, dedicato a Paolo II, tratta De aeterna temporalique Christi generatione in iudaicae improbationem perfidiae; nell'altro, dedicato nel 1477 a Sisto IV, disserta De fato seu praescientia divina et liberi umani arbitrii libertate. Espressiva la dedica al papa dei due testi: d’una determinazione a rimanere nel solco dell’ortodossia e pure d’una fiducia a concorrere al suo approfondimento. E grondante quello sulla duplice natura di Cristo d’un livore antiebraico che – prossimo com’è alla montatura trentina, cui da Venezia s’applaude, del presunto martirio del beato Simonino – non è solo incattivimento dottrinale, ma anche pretesto d’inasprimento persecutorio. E responsabile di questo anche l’umanesimo lagunare colla sua venatura antisemita riscontrabile in Ludovico Foscarini, Fantino Dandolo, Ermolao Donà, Pietro Bruto, Lauro Querini e, appunto, in Morosini il quale più di tutti conosceva l’ebraico: tanto che Marco Foscarini l’includerà tra «i pochi posseditori di tal lingua» lungo il 400 in area veneta.
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