MELS, Paolo
MELS (Melso), Paolo (al secolo Giovanni). – Nacque a Udine nel 1500 da Odorico, dei signori di Mels e di Colloredo, e da Tranquilla di Castello, entrambi appartenenti alla nobiltà feudale friulana.
Tra il 1525 e il 1526 il suo nome appare spesso citato insieme con quello di altri giovani udinesi tra i testimoni agli esami di laurea in diritto nello Studio di Padova, dove nel 1526 il M. si addottorò in utroque iure: tra i promotori al suo esame in diritto civile vi fu l’illustre giurista senese Mariano Sozzini il Giovane.
A quel periodo risale forse la stesura di un componimento in versi, un lamento pastorale di 53 esametri intitolato Daphnis.
Dopo la laurea fu nominato giudice del Maleficio prima a Padova, poi a Vicenza, un incarico al servizio del podestà veneziano che prevedeva l’istruzione dei processi criminali. Nel frattempo aveva sposato la nobile Agnese Hofer, figlia di Giovanni, capitano del castello di Duino (nella diocesi di Aquileia ma sotto il dominio degli Asburgo). Dopo la morte della moglie, nei primi anni Quaranta, il M. si allontanò dagli interessi letterari e dalle cure professionali a favore di una scelta religiosa maturata nel contatto con il nuovo Ordine milanese dei chierici regolari di S. Paolo o barnabiti, all’epoca dediti a un’intensa opera di proselitismo a Vicenza, Padova, Verona e Venezia. Non è escluso che già nel 1537 egli avesse conosciuto a Vicenza il sacerdote cremonese Antonio Maria Zaccaria, uno dei fondatori dell’Ordine.
L’Ordine dei barnabiti e quello femminile delle angeliche erano nati a Milano all’inizio degli anni Trenta per iniziativa della contessa di Guastalla Ludovica Torelli, del frate domenicano Battista Carioni da Crema e del citato Zaccaria. Dopo la morte, nel 1534, di Carioni e, nel 1539, di Zaccaria, i «paolini» (così erano allora chiamati barnabiti e angeliche) si erano raccolti intorno alla figura carismatica dell’angelica Paola Antonia Negri, detta la «divina madre». Questa, applicando in modo letterale l’anomica ricerca della perfezione cristiana propugnata da Battista da Crema, governava spiritualmente e materialmente le due congregazioni. In prima persona e con le sue lettere, a partire dai primi anni Quaranta, la Negri diresse le scelte spirituali di uomini e donne appartenenti ai ceti dirigenti delle città venete che, sempre più numerosi, abbandonavano famiglia, posizione e professione per entrare nelle due case milanesi, attratti da una proposta religiosa elitaria da sviluppare in gruppi ristretti attraverso un’ascesi radicale e la cieca obbedienza ai propri maestri spirituali.
Conquistato dalla proposta religiosa dei primi barnabiti e dal carisma della Negri, il M. abbandonò la professione per recarsi a Milano ed entrare nell’Ordine, nel quale fu accettato il 1° genn. 1543 e vestito il 25 marzo dello stesso anno.
In una lettera al M. del 1545, Cornelio Frangipane da Castello, il nobile avvocato friulano legato ai gruppi eterodossi veneti e friulani, faceva riferimento alla coraggiosa scelta religiosa dell’amico, che aveva «sì generosamente spezzat[o] tutto ciò che il mondo apprezza» per «prende[re] la croce» (stampata nella raccolta manuziana del 1549, Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, la lettera è pubblicata da Antonini, pp. 55 s., e da Premoli, 1913, pp. 492 s.). Nello stesso anno un altro giudice del Maleficio di Vicenza, il dottore in legge Bartolomeo Soriano, membro di una famiglia di cittadini originari veneziani, abbandonò il proprio incarico per entrare tra i barnabiti.
Il 24 dic. 1543 il M. fu il primo dell’Ordine a fare professione solenne; due giorni prima, il vescovo di Perugia Francesco Bernardino Simonetta, devoto della Negri e assiduo frequentatore dei primi barnabiti, gli aveva conferito gli ordini minori e il presbiterato durante una cerimonia celebrata presso l’altare della chiesa milanese del monastero delle angeliche di S. Paolo Converso. Poco prima, il M. aveva ottenuto dalla Penitenzieria apostolica l’assoluzione dalle censure ecclesiastiche in cui era incorso durante la giovinezza e nell’esercizio della professione di giudice (Arch. segreto Vaticano, Registri delle suppliche, reg. 2498, c. 130, 23 nov. 1543; il breve papale d’assoluzione è pubblicato in Paschini, pp. 240-243).
Il documento dischiude il mondo violento dell’aristocrazia friulana, dove la legge si scontrava con il privilegio feudale, le logiche statutarie con quelle della vendetta e delle faide familiari. Racconta come, appena quindicenne, intento a giocare a palla, il M. avesse, «irato animo», brutalmente percosso con pugni e calci una donna ebrea incinta, che perse il bambino in seguito all’aggressione. In un’altra occasione, girovagando armato di spada con altri due giovinastri allo scopo di attaccare briga con qualche malcapitato, se l’era presa con uno schiavo etiope fuggitivo, un pagano non battezzato che, ferito e gettato a terra, era stato da lui finito con un colpo di spada alla testa. La descrizione delle violenze perpetrate dal M. proseguiva con la narrazione delle sue colpe come funzionario al servizio della Repubblica di Venezia. Egli chiedeva infatti perdono per le violazioni delle immunità ecclesiastiche, in particolare del diritto d’asilo, per gli abusi d’ufficio, per le torture e le terribili sentenze comminate al servizio del governo veneziano. È evidente come la nuova scelta religiosa del M. mettesse in crisi le appartenenze, le pratiche sociali e i legami di fedeltà che avevano caratterizzato la sua vita come suddito della Serenissima. In linea con questo atteggiamento, il 21 genn. 1545, nel monastero milanese delle angeliche, alla presenza dei nobili Bernardino Omodei, Baldassarre Medici e di Ottaviano Taverna, figlio del cancelliere Francesco, tutti devoti della Negri, il M. sottoscrisse un documento notarile indirizzato al podestà di Vicenza in cui chiedeva la grazia per due nobili vicentini (Giuseppe Almerico e Leonardo Roma) poco prima messi al bando per averlo offeso (Arch. di Stato di Milano, Notarile, b. 10632, 21 genn. 1545, notaio Sigismondo Ferrari de’ Gradi).
Negli anni successivi i verbali degli Atti capitolari, le riunioni plurisettimanali tenute dai barnabiti spesso alla presenza della Negri, attestano la partecipazione del M. alla vita comunitaria. Eletto «discreto» e confessore delle angeliche nel 1544, maestro dei novizi nel 1546, nell’aprile dello stesso anno mancò di poco l’elezione a preposito dell’Ordine.
L’organizzazione istituzionale dei primi barnabiti era caratterizzata da un rapido avvicendamento delle cariche e da un’intensificazione dei momenti di deliberazione comuni aperti a tutti, professi e non. A differenza di quanto accadeva tra i gesuiti, quella di preposito, ossia di generale, non era una carica vitalizia, ma annuale; a lui e alla priora delle angeliche si affiancava un consiglio ristretto detto dei «discreti» per ciascuno, di cui facevano parte da quattro a sei membri tra i più autorevoli dei due Ordini.
Il M. fu coinvolto nelle vicende che, negli anni seguenti, sconvolsero le due congregazioni milanesi. Il 19 febbr. 1551 barnabiti e angeliche, all’insaputa delle autorità ecclesiastiche romane, furono banditi dallo Stato veneto con decreto del Consiglio dei dieci, preoccupato della diffusione tra il patriziato veneziano della proposta religiosa e del carisma di quella «monaca giovane alla quale danno titolo di divina madre», che diceva «d’haver il spirito santo et saper i secreti del cuore» (Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Deliberazioni, Comuni, reg. 19, c. 195, in Premoli, 1913, p. 101). Tra i barnabiti allora presenti a Venezia vi era anche il M. che, nel dicembre dello stesso anno, fu inviato a Roma insieme con l’ex preposito Giovanni Pietro Besozzi per perorare il ritorno dei paolini nei domini della Repubblica.
La spedizione a Roma dei due barnabiti era motivata anche dall’intenzione di fondarvi una sede dell’Ordine, su invito degli oratoriani di S. Girolamo della Carità e del mistico senese Bonsignore Cacciaguerra, nonché della compagnia della Trinità dedita alle Quarantore. In una lettera al preposito a Milano il M. descriveva con toni entusiastici le possibilità d’insediamento dei paolini tra le ferventi esperienze religiose che si andavano sviluppando a Roma (Roma, Arch. storico dei Barnabiti, Monumenti, n. 54: lettera a Girolamo Maria Marta, 2 dic. 1551; parzialmente edita in Premoli, 1913, p. 103, dove è erroneamente datata al 1552).
Ma nel gennaio 1552 Besozzi e il M. furono improvvisamente arrestati e rinchiusi nelle carceri del S. Uffizio. Nel corso del processo, davanti ai cardinali inquisitori G.P. Carafa, R. Pio da Carpi, J. Álvarez de Toledo, M. Cervini e G. Dal Pozzo, emersero tutti gli aspetti inquietanti dell’esperienza religiosa dei due Ordini milanesi. Dopo essere stato sottoposto a tortura, il 27 febbraio Besozzi fu scarcerato e tenuto agli arresti domiciliari in casa di Ignazio di Loyola dietro esborso di 2000 scudi di cauzione. Il M. lo seguì solo l’11 marzo: la sua prolungata detenzione derivava dall’ostinazione con cui, a differenza del confratello, egli aveva difeso davanti ai cardinali del S. Uffizio l’eredità spirituale di Battista da Crema, la santità della Negri e la vita comunitaria che su quelle basi i paolini avevano costruito. Alla fine cedette alle pressioni provenienti dalle alte gerarchie ecclesiastiche e da una parte dei confratelli: il 9 maggio 1552 scrisse a Milano una lettera in cui, a nome degli inquisitori, richiedeva l’invio di «libri e scritture» relativi a Battista da Crema, nel frattempo condannato come eresiarca (Ibid., Atti capitolari, IVbis, pp. 1v-6r). Nell’agosto 1552, insieme con Besozzi, il M. poté finalmente fare ritorno a Milano dove, due mesi più tardi, giunse il visitatore apostolico inviato dal cardinale inquisitore Toledo, nominato nel frattempo protettore dei due Ordini, con il compito di portare la disciplina e l’obbedienza.
Il processo inquisitoriale e la visita apostolica a Milano impressero una direzione irreversibile all’esperienza religiosa dei paolini. Le opere di Battista da Crema furono condannate e rimasero all’Indice sino al 1900; il suo corpo, venerato come quello di un santo nel monastero delle angeliche, fu riesumato e posto in una fossa comune, mentre ai suoi seguaci fu proibito di conservarne gli scritti, le reliquie o anche solo di pronunciarne il nome. La Negri fu segregata in un monastero di clarisse e le angeliche poste in clausura. Furono promulgate nuove costituzioni in sostituzione di quelle emanate da Battista da Crema e interrotti i rapporti tra Ordine maschile e femminile.
A seguito della damnatio memoriae di quelli che, per oltre un ventennio, erano stati i loro maestri e della completa riorganizzazione della vita comunitaria, molti barnabiti scelsero la fuga. Il M. decise di rimanere nell’Ordine e di partecipare all’opera di normalizzazione imposta da Roma. Nel 1558, eletto preposito, fu costretto a mediare tra le esigenze di espansione della congregazione e la scarsità di risorse umane, dovuta alle defezioni degli anni precedenti. Compì anche un viaggio a Venezia, nel vano tentativo di ottenere la revoca del bando del 1551. Rieletto preposito nel 1559, si recò a Genova per valutare la possibilità di un insediamento barnabitico e forse di una fusione con i preti riformati di S. Maria Piccola, fondati dal sacerdote Francesco Corneliasca da Tortona, un ex mercante molto legato ai primi barnabiti.
Il M. morì il 3 ag. 1559 a Genova, nella casa di Corneliasca, e fu sepolto nella chiesa della Ss. Annunziata di Portoria.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Notarile, b. 10628, 21-23 dic. 1543 (notaio Ludovico Besozzi); Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, S.Uffizio, Decreta, II, pp. 125 s.; Roma, Arch. storico dei Barnabiti, S, Atti dei capitoli generali, I: Registro compendiato degli atti de’ capitoli dal 1544 al 1548; II: Libri capitulorum ab anno 1544 ad annum 1549; III: Atti dei capitoli generali dal 23 ag. 1550 al 4 giugno 1551; IV: Codice antico contenente gli atti dei capitoli di S. Barnaba dall’anno 1551 al 1563; IVbis: Appendice al libro IV dei capitoli del collegio di S. Barnaba dal 9 maggio 1552 al 18 apr. 1554; L.a.6: Lettere autografe di Matteo Daverio da Roma (corrispondenza sul processo del 1552); M.b: Monumenti gelosi circa la storia dei primi tempi della congregazione, n. 54; Y.a.4; Z.a.3; O.M. Premoli, Fra Battista da Crema secondo documenti inediti. Contributo alla storia religiosa del secolo XVI, Roma 1910, pp. 94-121 (lettere di Daverio riguardanti il processo del 1552); Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1501 ad annum 1550, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova 1969-71, I, pp. 358, 410, 444; II, pp. 6, 18-21; G.G. Liruti, Notizie de’ letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 429 s.; L.M. Ungarelli, Bibliotheca scriptorum e Congregatione clerr. regg. S. Pauli, Romae 1836, pp. 63-67; P. Antonini, Cornelio Frangipane di Castello. Giureconsulto, oratore e poeta del secolo XVI, in Archivio storico italiano, s. 4, 1881, t. 8, pp. 19-64, 335-365; O.M. Premoli, Storia dei barnabiti nel Cinquecento, Roma 1913, ad ind.; G. Boffito, Scrittori barnabiti…, II, Firenze 1934, pp. 470-472; P. Paschini, Crisi di coscienza di un magistrato udinese nel Cinquecento, in Memorie storiche forogiuliesi, XXXV-XXXVI (1939-40), pp. 237-243; E. Bonora, I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi barnabiti, Firenze 1998, ad indicem.
E. Bonora