LANFRANCHI, Paolo
Poeta pistoiese attestato fra il 1282 e il 1295 di cui si ignorano data di nascita, di morte, attività e professione. Ciò che è noto si fonda ancora sui documenti reperiti da Guido Zaccagnini, che permettono di individuare alcune tappe della vita del L., ovvero di fissare due suoi diversi soggiorni a Bologna: nel febbraio 1282 - gennaio 1283 e poi nel 1295. Il secondo soggiorno dovette conseguire al bando del rimatore da Pistoia comminatogli nel 1291 dal podestà Monaldo di Jacopo del Ponte da Spoleto per aver assalito a colpi di spada un "Orellius Mellioris" (Arch. di Stato di Pistoia, Opera di S. Jacopo, 24, c. 208v).
Secondo Zaccagnini il L. appartenne a una famiglia di mercanti, in realtà sulla sola base del rinvenimento di Lanfranchi pistoiesi commercianti in Bologna (cfr. Gaudenzi). A partire dal 1279 si registrano peraltro numerosi Lanfranchi ghibellini banditi da Pistoia, nessuno però di nome Paolo. La presenza del L. a Bologna è dimostrabile attraverso documenti trasmessi dai Memoriali nei quali compare, per lo più, come testimone in transazioni private.
Tranne che nel primo dei sei documenti indicati da Zaccagnini, trasmesso nel Memoriale di Biagio di Oliviero (Arch. di Stato di Bologna, Ufficio dei memoriali, n. 47, c. 36r, del 18 febbr. 1282) - che risulta peraltro il più antico nel periodo di presenza a Bologna -, il L. compare sempre in compagnia di pistoiesi, ma è nominato solo come Paolo Lanfranchi. Il primo documento - posta la sovrapponibilità del nome al poeta e posta l'equivalenza fra le due occorrenze (con e senza toponimo) - risulta dunque interessante perché esprime esplicitamente il de Pistorio che parrebbe togliere i dubbi residui circa l'identificazione. Il documento è inoltre di una certa importanza poiché il L. vi compare come teste in casa di una delle più note famiglie bolognesi (quella, guelfa, dei Caccianemici) insieme con quel notaio Biagio di Oliviero a cui si deve (peraltro nello stesso Memoriale 47) la copia di alcune liriche italiane.
Gli altri documenti, tutti conservati nello stesso fondo dell'Archivio di Stato di Bologna, sono: n. 48, c. 61r, del 1° febbr. 1282, in cui il L. è nominato insieme con un Guglielmo di Bellavista e altri pistoiesi tra cui "Jacopo de pistorio filii amanati"; n. 49, c. 251v, dell'11 luglio 1282, in cui il L. è nominato con altri pistoiesi, tra cui lo stesso Jacopo del documento precedente; n. 53, c. 18v, del 21 genn. 1283; n. 89, c. 38r, del 10 ott. 1295. Non si rinviene invece il nome del L. in due luoghi del Memoriale 50, indicati rispettivamente da Zaccagnini (c. 67, corrispondente a documenti datati al 28 sett. 1282) e da Bertoni (1967), che rimanda alla c. 94r e alla data del 13 ottobre: i documenti copiati su c. 94r sono relativi al 2 nov. 1282 e quelli del 13 ottobre si trovano alle cc. 74v-75r.
Fra il primo e il secondo soggiorno a Bologna si data solitamente la composizione del sonetto in lingua d'oc Valenz senher, rei dels Aragones, composto forse a Barcellona (ma non è dimostrabile un soggiorno del L. nella città, né strettamente necessario ipotizzarlo) "nei giorni che precedettero o seguirono la morte del re Pietro III, a celebrazione della lotta sostenuta dal sovrano d'Aragona contro gli invasori francesi" (Asperti, p. 180 n. 126). Il sonetto fu scritto dunque nel 1285, probabilmente nel mese di ottobre, dato che l'invasione della Catalogna (avviata con gli auspici di papa Martino IV che sosteneva il secondogenito del re di Francia Filippo III, Carlo di Valois, e di cui nel sonetto si nomina appunto il legato, cardinale Jean Cholet, al v. 5: aqel d'Artes; cfr. Kleinhenz, 1971, p. 36) si era tramutata in ritirata a partire dal 10 settembre e Pietro III morì fra il 10 e l'11 novembre. Se la presenza del L. alla corte di Pietro il Grande non è, allo stato attuale, confortata da alcuna prova documentaria, non vi è dubbio che il testo dimostri una precisa scelta di campo del suo autore ovvero, implicitamente, una probabile posizione ghibellina o per lo meno antiangioina. Non senza interesse peraltro il fatto - solo apparentemente un truismo e di qualche rilievo anche relativamente al secondo soggiorno bolognese - che è da supporsi dimostrata una già avvenuta frequentazione di prima mano della lingua (con ciò che comporta per la poetica implicita, cfr. Brunetti) se non anche degli stessi, attivi, trovatori provenzali.
Al L. sono ascritti complessivamente otto sonetti: sette in italiano oltre a quello già ricordato in lingua d'oc. Dei sette in italiano, sei sono traditi dal solo canzoniere di Niccolò de' Rossi (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 3953, siglato B, pp. 142, 158 s., 177) a cui si aggiunge - per due soli testi dei quali uno è unicum - il quattrocentesco manoscritto in Modena, Biblioteca Estense e universitaria (Ital., 1154, α N.6.4) esemplato da Giovanni da Carpi e siglato E (De Robertis). Il sonetto in lingua d'oc è invece trasmesso dal canzoniere provenzale P (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur., 41.42, c. 63v) ivi attribuito secondo la rubrica a "Paulo Lanfranchi de Pistoia". Nel manoscritto barberiniano i testi sono assegnati, secondo la prima rubrica nell'ordine di lettura (pp. 142, 158) che è appunto completa del toponimo, a "Paulo Lanfranchi de Pistoria" (le rubriche successive alla prima presentano solo "Paulo Lanfranchi"); nell'estense i testi risultano entrambi adespoti.
Insieme con Bartolomeo Abbracciavacca, Lemmo Orlandi, Si. Gui (= Siribuono iudice?), Attaviano e Meo di Bugno e, successivamente, il più grande Cino, il L. fa parte dei cosiddetti rimatori pistoiesi del Duecento. Quali esponenti della maniera guittoniana i loro testi sono compattamente traditi dal ms. laurenziano Redi 9 (a cui si aggiunge talora il Vat. lat. 3214). Da questa maniera il L. appare tuttavia equidistante tanto che è stato giudicato come un "interprete della cultura stilnovistica in senso realistico e sentenzioso" (Poeti del Duecento, I, p. 253), un "indipendente", come i suoi versi "al di qua del dolce stile, e prossimi idealmente al sonetto guinizzelliano" (Giunta).
Il termine canzoniere per l'insieme delle poesie del L. pare usato dagli ultimi editori in accezione propria (Savino, 1982, p. 74): quattro sonetti imbastiscono in sequenza narrativa l'avventura di un sogno amoroso a cui segue (almeno nella successione proposta da Kleinhenz, che muta però l'ordine dei testi presente nel canzoniere barberiniano) l'enueg, il sonetto di noia Ogni meo fatto, coi due sonetti morali dedicati al tema della fortuna. Occorre avvertire tuttavia che la ricomposizione, arguta quanto indimostrabile, dà ordine evidentemente al tradito come fosse implicitamente l'intero e non si fonda di fatto né su connettivi interni o intertestuali né su raccordi di tipo esterno o extratestuale.
Tale l'incipit di ciascun sonetto, nell'ordine dato dal manoscritto relatore: I. De la rota son posti exempli asay (B 142; E 13r adesp.); II. Un nobel e çentil ymaçinare (B 158); III. L'altrer, dormendo, a me se venne amore (B 158); IV. Dime, Amore, vorestú tornare (B 158); V. L'altrer, pensandomi, emaçinay (B 159); VI. Ogni meo fatto per contrario façço (B 177); VII. Quatro homin sum dipincti ne la rota (E 13r adesp.). Solo i quattro sonetti "del sogno" paiono di fatto relati fra loro, pure con qualche dubbio sulla consecutio: l'istanza narrativa è confermata dal provenzalismo (l'altrier), connotativo della diegesi delle pastorelle, e dal verbo chiave ymaçinare (II) / emaçinai (V). Il tema del sogno, già presente nella tradizione classica e nella lirica trobadorica, appare nel primo testo declinato in misura più topica: "el me parea cum la mia dona stare / en un çardin" (II, vv. 4-5) ove poi l'hortus conclusus si dissolve al rintocco della campana e al subitaneo risveglio. Più interessante la seconda visione, quella di Amore personificato che da parte dell'amata "mi donò un fiore / che pare per semblanti 'l so visazo" (III, vv. 5-6) e che suscita immediata la seconda immagine: "pensandomi, emaçinay / mandare Amor〈e> a la donna mia" (V, vv. 1-2), un'idea di cui l'altro sonetto Dime, Amore, vorestú tornare (IV) sembrerebbe giustappunto la coerente rappresentazione. Da rilevare infine l'uso di un lessico, si direbbe, già cavalcantiano: Elo spario; plu non gli parlay; / parvemi quasi spir〈i>to sotile (III, vv. 13-14) ove il vocabolo è impiegato nell'accezione tecnica di ipostasi di pensiero o di immagine (Poeti del Duecento, II, p. 530 nota a G. Cavalcanti, Per gli occhi fere un spirito sottile).
Quanto ai testi gnomico-paremiologici si rileverà per VI l'aderenza al genere de oppositis, e la consonanza anche all'enueg del conterraneo Meo di Bugno (Savino); per il tema, diffuso, della ruota della fortuna si noterà inoltre come esso sia particolarmente caro all'ambiente bolognese, a partire dal sonetto di re Enzo, Tempo vene che sale a chi discende (Orlando, p. 34).
Il testo in occitanico, infine, pare da considerarsi un'esperienza davvero speciale poiché coniuga la forma italianissima del sonetto alla lingua dei trovatori, idioma scelto evidentemente, nell'occasione, secondo il principio retorico dell'aptum e forse incontro all'individuazione di un pubblico specifico (si ricordi contestualmente la presenza a Bologna di catalani come Uc de Mataplana quando "la componente catalana […] si era resa protagonista in quegli anni d'una nuova fioritura della poesia in lingua d'oc", Rossi, p. 29). Accostabile in un certo senso alla linea sperimentale ed espressionista che condurrà anche al discordo trilingue di Dante Aï faus ris, il testo del L. pare tuttavia diverso dall'unico altro episodio attestato, quello costituito dai due sonetti in lingua d'oc di Dante da Maiano (traditi dal solo ms. provenzale c, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. plut., 90 inf. 26) "da ritenere, essi sì, come mero esercizio letterario, di natura artificiosa" (Asperti, p. 181 n. 64). Se fosse stato composto a Barcellona il sonetto potrebbe invece essere valutato, come fa Asperti, come lo strumento di propaganda politica di un esule ghibellino. Singolare la misura metrica ordita dal L. che, su uno schema aperto ABABABABCDCDCD, a mo' di endecasillabi fa alternare regolarmente décasyllabes maschili (rime: -es, -ar) a décasyllabes femminili (rime: -ansa, -agna).
I comp0nimenti del L. sono stati editi in F. Raynouard, Choix des poésies originales des troubadours, V, Paris 1820, p. 277; C. Baudi di Vesme, Poesie provenzali ed italiane di Paolo Lanfranchi da Pistoia, in Rivista sarda, I (1875), pp. 391-404; G. Zaccagnini, I rimatori pistoiesi dei secoli XIII e XIV, Pistoia 1907, pp. LXII-LXV, 69-87; G. Zaccagnini - A. Parducci, Rimatori siculo-toscani del Dugento, Bari 1915, pp. 27-31, 40-42; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960, I, pp. 353-356; M. De Riquer, Los trovadores. Historia literaria y textos, Barcelona 1983, III, pp. 1662-1664; G. Savino, Il piccolo canzoniere di Paolo Lanfranchi da Pistoia, in Filologia e critica, VII (1982), pp. 68-95; I. Maffia Scariati, La corona di casistica amorosa e le canzoni del cosiddetto "Amico di Dante", Padova-Roma 2002, pp. 23, 29, 32, 34, 143, 251; D. De Robertis, Dante Alighieri.Rime, Firenze 2002, I, 2, p. 522.
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