GRASSI, Paolo
Nacque a Milano, il 30 ott. 1919, da Raimondo e Ines Platesteiner.
Il padre, pugliese, di Martina Franca, si era trasferito a Milano, dove collaborò a Il Sole occupandosi di pubblicità redazionale, tenendo i rapporti con la proprietà e con l'Ente Fiera di Milano; la madre, di origini bavaresi, era appassionata di musica, lirica in particolare, di teatro e di letteratura, influenzando non poco la vocazione futura del figlio. L'infanzia e la fanciullezza del G. trascorsero serene, specie nelle lunghe pause estive quando la famiglia si trasferiva a Martina Franca, località che restò sempre per lui privilegiata, come dimensione mitica, fonte di fantasie e libertà armonica, per gli scenari architettonici, per le antiche vestigia, per i monumenti della civiltà settecentesca e rococò di cui era ricca.
Il G. frequentò a Milano il liceo classico Parini, scuola severa, d'impostazione laica, frequentata dai figli delle classi dirigenti ambrosiane. Non fu mai uno studente modello, tanto che alla maturità venne respinto (prese poi il diploma in un liceo di Como).
Negli anni liceali andò spesso a teatro - vivendolo, già da giovane spettatore, come un ambiente a lui "naturale" -, dove vide recitare molti degli attori che in quel periodo si proponevano come i rappresentanti più significativi della scena italiana, da R. Ricci, per il quale nutrì grande ammirazione, a S. Randone, A. Moissi, Wanda Capodaglio, Dina Galli, A. Gandusio, R. Cialente.
Nell'inverno 1936-37 assaggiò per la prima volta la disciplina del palcoscenico raggiungendo, ogni volta che gli era possibile, la compagnia Randone-Almirante-Masi; si entusiasmò, specie per Randone, attore "moderno", di cui divenne molto amico. Nella stagione 1937-38 svolse, per Il Sole, le funzioni di "vice" come critico teatrale, facendo anche le prime esperienze di traduttore, sviluppando letture teatrali fondamentali, acquisendo le prime importanti conoscenze umane e artistiche. Nel 1938 il critico titolare, A. Frattini, impegnato altrove, lasciò il posto al G., che iniziò così a frequentare il pubblico delle prime, dove conobbe G. Strehler, allora sedicenne.
I due ragazzi, se non erano a teatro, passavano intere serate ad ascoltare musica, a casa dell'uno o dell'altro, stringendo un'amicizia sempre più forte, amicizia prima di tutto artistico-culturale, che cementò un inseparabile duo (furono definiti i dioscuri di Milano); Strehler fece allora conoscere al G. un attore destinato a condividere buona parte del loro futuro cammino, F. Parenti, altro illustre teatrante milanese.
In questo periodo conobbe anche G. Tumiati, che gli propose di essere suo assistente per il corso di recitazione all'Accademia dei filodrammatici: compito umile che costituì, tuttavia, per il G. un importante apprendistato; soprattutto si aprì fra loro un dialogo, dialetticamente fervido, sull'idea di impiantare un teatro stabile, ispirato a valori di poesia, in linea con le convinzioni maturate da S. D'Amico. Il G. s'iscrisse, quindi, senza molta convinzione e impegno, alla facoltà di giurisprudenza.
Aveva in spregio la facile goliardia, l'atmosfera littoria, l'esibizione ginnico-virile della forza, gli scherzi volgari. Alla fine degli anni Trenta si accostò, invece, ai pittori di Corrente, seguendo la lezione di A. Banfi; conobbe R. Guttuso, E. Morlotti, A. Sassu, e letterati e filosofi come E. Paci, L. Anceschi, V. Sereni, A. Gatto, S. Quasimodo, B. Joppolo, C. Zavattini, vivendo un clima, intellettuale e morale, alternativo al fascismo.
Continuava, intanto, a collaborare con articoli e saggi a riviste giovanili. Nel 1940 divenne organizzatore della compagnia Ninchi-Tumiati per l'allestimento de La cena delle beffe di S. Benelli.
Di fatto, ad appena vent'anni, ne fu il capocomico, riuscendo a superare molte difficoltà: per i finanziamenti, per ottenere i vari permessi d'agibilità, per avere le piazze, per la pubblicità, per i rapporti con la stampa.
La compagnia registrò ottimi incassi e sulle locandine apparve il nome del G. come organizzatore: fu il suo primo, concreto biglietto da visita, attraverso cui ricevette numerose offerte, anche se egli sapeva che non era quella la sua strada.
Dopo l'entrata in guerra dell'Italia il G. fu costretto a rinunciare all'impegno antifascista, evitando, grazie all'intervento paterno, un'indagine da parte dell'ufficio politico della questura. I laureati e laureandi dal 1912 al 1919 (la classe del G.) vennero chiamati alle armi tra gli ultimi, alla fine del 1941; in questo lasso di tempo, nella primavera del 1940, il G. trovò modo di fondare a Milano il gruppo d'avanguardia Palcoscenico, che operava presso la sala musicale Sammartini.
La frequentavano intellettuali milanesi, giovani teatranti, pittori, da C. Carrà ai pittori di Corrente; il G. ne era l'organizzatore, il direttore di scena, il bigliettaio, il regista, continuando a leggere e studiare, e ad avere, come fonte d'ispirazione e punto di riferimento, S. D'Amico. Chiamò a collaborare, come attori, Strehler, M. Feliciani, Parenti; diresse così sette spettacoli "sperimentali" comprendenti 19 atti unici: Il muro, di R. Rebora; Giornata nel tempo, Coro del distacco e Il dialogo di uno spazzino e la luna, di E. Treccani; All'uscita e L'uomo dal fiore in bocca, di L. Pirandello; La poverella, di W.B. Yeats; Cavalcata al mare, di J.M. Synge; Dov'è segnata la croce e La pesca, di E. O'Neill; Amleto è morto di C. Meano; Lo stilita, di T. Pinelli; Il canto del cigno, di A. Čechov; Il cammino e L'ultima stazione, di Joppolo; La gaia morte, di N.N. Evrejnov (per il quale disegnò anche le scene); la scena del balcone da Romeo e Giulietta, di W. Shakespeare; e due dialoghi leopardiani: Federico Ruisch e le mummie e Il dialogo di un'anima e della natura. Il repertorio è evidentemente eclettico, comunque indicativo di una ricerca di problematiche al di fuori del teatro corrente e di consumo.
Nell'ottobre 1941 curò la regia di Gli interessi creati di G. Benavente con la compagnia di M. Giorda che, il 10 dicembre, debuttò al Quirino di Roma: lo spettacolo ebbe anche critiche negative - soprattutto da uno dei maestri del G., il D'Amico - che, di fatto, lo spinsero a prendere le distanze dall'eventualità di scegliere la strada della regia.
Si affacciava così, intuitivamente, nella riflessione del G., l'ipotesi di un ruolo per sé tutto da inventare, una sorta di intellettuale organico alla Gramsci, particolarmente orientato sul mondo dello spettacolo.
Il 12 dicembre, a San Remo, iniziò il servizio militare come recluta nel 90° reggimento di fanteria. Subito dopo l'8 settembre, la compagnia da lui comandata come sottotenente si disperse e il G. tornò a Milano. Tra il settembre 1943 e l'aprile 1945 visse un periodo di attesa, di studio e di riflessione, condividendo gli ideali della Resistenza. Dall'aprile 1945 al marzo 1947 fu critico drammatico, per l'edizione milanese dell'Avanti!, pubblicando il suo primo articolo, Teatro e popolo, il 30 apr. 1945, all'indomani della Liberazione; la prima "cronaca" uscì il 6 giugno dello stesso anno; l'ultimo intervento firmato, dal titolo Il Piccolo Teatro della città di Milano, il 22 apr. 1947.
Di tutti gli articoli pubblicati sul foglio socialista il più significativo per caratterizzare il G. uomo di teatro e organizzatore, risulta Teatro, pubblico servizio, del 25 apr. 1946.
Collaborò, inoltre, in questo periodo, con la casa editrice Rosa e Ballo, essendo F. Ballo uno dei catalizzatori di quella Milano che aspirava a oltrepassare i limitati orizzonti provinciali in cui il regime l'aveva costretta.
Svolse le funzioni di direttore editoriale e lanciò una collana di testi teatrali, il cui primo volume fu Esuli di J. Joyce seguito da oltre 40 titoli, tra cui opere di A. Strindberg, Synge, F. Wedekind, C.F. Hebbel, G. Büchner, Čechov. Per l'editrice Poligono creò la collana "Teatro nel tempo".
Nei mesi a ridosso della Liberazione il G. aveva intanto maturato la convinzione e la volontà di rendere concreta e attiva l'idea di un teatro d'arte (assimilata, come si è detto, dal D'Amico), saldandola al progetto di un teatro pubblico municipale. Per attuarla volle attendere il ritorno dell'amico Strehler, ancora esiliato in Svizzera, dove stava facendo propri nuovi modi di elaborazione scenica. Il 23 sett. 1944 il G. sposò la concertista Enrica Cavallo: il matrimonio venne sciolto nel 1947.
Nel 1945, al rientro di Strehler, i due, ospitati nella libreria Zanotti, dettero vita al Diogene, un circolo culturale teatrale che fu al centro del più stimolante dibattito dell'anno relativo allo spettacolo.
Vi si leggevano nuovi testi, italiani e non, venivano alla ribalta nuovi nomi, si discutevano i problemi più urgenti del rinnovamento teatrale, si criticavano gli spettacoli offerti dalle poche ribalte milanesi attive.
Il G., infaticabilmente, organizzò manifestazioni, concerti, convegni e un Centro sperimentale con annesso Studio d'arte drammatica, nel quale, a dicembre di quell'anno, coinvolse direttamente, oltre a Strehler, V. Pandolfi ed E. Ferrieri, che era stato l'animatore della rivista Il Convegno. Nel 1946 tornò alla regia con la messinscena di Giorno d'ottobre, di G. Kaiser per la compagnia Adani-Gassman-Carraro-Calindri; le forti riserve sullo spettacolo, espresse dalla critica, lo convinsero a rinunciare definitivamente a questa specifica attività. Il 26 novembre, dopo undici intensi giorni di prova, andò in scena al teatro Excelsior, con la regia di Strehler, Piccoli borghesi di M. Gor´kij.
Vi recitavano Lilla Brignone, G. Santuccio, A. Battistella, Elena Zareschi, L. Angeleri, M. Moretti, Lia Zoppelli, Feliciani, Parenti, A. Alzelmo; si costituiva così il nucleo che dette poi vita alla compagnia del Piccolo Teatro. Tutti furono conquistati dal metodo di lavoro del giovane regista e dall'idea, propugnata dal G., di un teatro stabile municipale, progetto che venne approvato, proprio in quei giorni, dalla giunta comunale.
Iniziò, così, il capitolo più importante della vita, non solo professionale, del G.: la fondazione e la direzione del Piccolo. I risultati raggiunti, la fama mondiale di cui quello spazio scenico si pregiò, furono anche i frutti concreti di un modo di concepire il teatro cui il G. era giunto attraverso fatiche, rinunce, tenacia, amor proprio, studio e grande passione. Dal 1947 la storia personale, professionale, umana del G., come per Strehler e per tanti altri, s'intrecciò con quella del Piccolo, fu quella del Piccolo.
Il 21 genn. 1947 venne scelta come sede, la vecchia e semidistrutta sala cinematografica del cinema Broletto, in via Rovello; per il nome ci s'ispirò al Malyj Teatr (piccolo teatro) di Mosca; il Comune provvide alla spesa per il riordino della sala e dei servizi e per la costruzione dei camerini. Il G., insieme con Strehler, dovette mettere a punto il cartellone, decidere lo spettacolo d'inaugurazione (e fu l'allestimento dell'Albergo dei poveri di Gor´kij), instaurare e coltivare il rapporto con il pubblico, creare una prima struttura logistico-organizzativa. A curare l'amministrazione fu chiamata Nina Vinchi, che divenne poi segretario generale (e fu da ultimo moglie del G.): una lunghissima fedeltà, quella della Vinchi al Piccolo, caratterizzata da competenza e dedizione assoluta, da sempre riconosciutele dal G. e da Strehler, che in lei trovarono spesso un punto di equilibrio e una mediazione nelle tante difficili e controverse decisioni, nell'evoluzione stessa del loro rapporto d'amicizia, spesso tempestoso.
Il G., a questo punto, rinunciò a svolgere la critica teatrale per l'Avanti!, anche perché la Municipalità riconobbe ufficialmente il suo ruolo. Il 12 maggio venne stipulato il contratto notarile relativo allo statuto dell'Ente Piccolo Teatro della Città di Milano e il debutto fu fissato per il 14, mentre il G. aveva già avviato la campagna abbonamenti con l'intento di aprire il Piccolo a quanti fossero stati lontani dal teatro, di offrire un prodotto di alto valore artistico a un buon prezzo.
Fin dai primi anni del Piccolo il G. intese, inoltre, stabilire e mantenere stretti rapporti con altri teatranti europei di livello, da C. Dullin a L. Jouvet, da J.-L. Barrault a Madeleine Renaud, da J. Vilar a J. Anouilh, da J. Copeau a B. Brecht.
Nel 1949 il G. sposò, in seconde nozze, Carla Bernardi, dalla quale nel 1950 ebbe la figlia Francesca. Nel 1951 si adoperò perché l'istituzione della scuola del Piccolo fosse riconosciuta e sostenuta dal Comune; dal 1956 alla fine degli anni Cinquanta lavorò a costituire tre "ponti" teatrali, che collegavano Milano a Venezia, Napoli e Bari.
Nella città lagunare giunse a dar vita al Teatro di Venezia, con un cartellone ben articolato e proposte innovative; a Napoli collaborò con Eduardo De Filippo alla riapertura dello storico teatro S. Ferdinando; a Bari lavorò per il teatro regionale pugliese, gemellato con il Piccolo. Intervenne, poi, concretamente per salvare dalla demolizione il S. Gerolamo, il teatro più antico di Milano, dove operava la compagnia di marionette della famiglia Colla: il 9 apr. 1958 la sala riaprì con uno spettacolo di Eduardo, L'opera del pupo, dotando la città di un rinnovato spazio teatrale, utilizzato come luogo d'incontro di livello internazionale, per serate di cabaret, recitals, performances di avanguardia. Anche se il G., impegnatissimo col Piccolo, dovette presto cedere la direzione della sala all'amico C. Colombo, fu su suo suggerimento che questi vi formò una compagnia in dialetto milanese di notevole livello. Il recupero del S. Gerolamo fu uno degli esempi più significativi delle finalità etico-sociali che il G. attribuiva alle sue funzioni di operatore culturale, considerando un dovere quello di intervenire, a partire dall'ambito locale, per stimolare, accrescere, utilizzare le forze disponibili al servizio della vita culturale.
Frattanto costituì l'associazione Amici del Piccolo, con l'intento di raccogliere intorno al teatro un nucleo di intellettuali, di appassionati, di rappresentanti dei vari settori di punta dell'economia e dell'industria milanese, onde utilizzarli per fiancheggiare e sostenere le attività collaterali dell'istituzione. Nel 1961 l'editore Einaudi affidò al G., coadiuvato da G. Guerrieri, la direzione della "Collezione di teatro", la più importante collana di testi teatrali edita all'epoca in Italia (in un quindicennio, sotto la direzione del G., furono pubblicati oltre duecento titoli) e, anche nell'ambito del Piccolo, egli promosse iniziative autonome.
Si trattò di operazioni editoriali, come la pubblicazione di Quaderni dedicati, fra gli altri, a Pirandello, Brecht, a Eleonora Duse; ma anche di tipo diverso, come l'incisione di dischi frutto di particolari iniziative, per esempio i recitals dedicati a C. Porta; tutte realizzazioni che s'inserivano in una visione del far teatro organica a una più vasta realtà culturale.
Il 14 luglio del 1964 il Piccolo presentò, nell'appena acquisito spazio del Lirico, per la regia di Strehler, le Baruffe chiozzotte di C. Goldoni; il Piccolo cresceva, e il documento uscito quell'anno, Un teatro nuovo per un nuovo teatro, a firma del G. e del regista, intendeva richiamare l'attenzione non solo degli addetti ai lavori, ma anche di tutti i cittadini e dei politici, su tale crescita, non solo artistica; si intendeva anche acquisire nuovi partner, prima fra tutti la Regione, che, però, solo nel 1976 assunse a posteriori il ruolo di socio fondatore.
All'anniversario dei vent'anni di fondazione, nel 1967 - con 120 testi rappresentati, 142 località italiane toccate, 116 città straniere visitate - il G. era impegnato per realizzare il decentramento delle attività del Piccolo, teatrali e latamente culturali, sia in città, sia nella provincia e nella regione.
In particolare, il G. intendeva consolidare le basi strutturali della scuola, civica e triennale, del Piccolo; stabilire un rapporto continuativo e concretamente pedagogico con i vari ordini di scuole; produrre spettacoli specificatamente per i bambini. Non tutti i programmi risultarono di facile realizzazione, valga come esempio il tendone-teatro di Gallarate, aperto nel 1971, che non ottenne buoni risultati.
Il G. visse un momento particolarmente delicato nel 1968, quando Strehler dette le dimissioni, lasciandogli anche la piena responsabilità della direzione artistica.
Il G. lo fronteggiò appoggiandosi ai vecchi collaboratori del regista: V. Puecher, R. Maiello, K. Gruber, F. Tolusso; evitò, inoltre, di allestire i grandi classici, preferendo rivolgersi a una drammaturgia sempre stimolante ma meno soggetta al rischio di interpretazioni errate o riduttive.
Contemporaneamente, egli dovette far fronte pure al nuovo clima sociopolitico, contrassegnato da critiche, anche interne, da un clima litigioso, punteggiato da assemblee, occupazioni, scioperi: la generale contestazione non risparmiava i teatri stabili e il Piccolo, in quanto istituzione esemplare, diventava un simbolo da abbattere e rifondare.
Il G. reagì recuperando la solidarietà dei vecchi amici Parenti e Randone e chiamandoli a sostenerlo; promosse, quindi, un riavvicinamento con Strehler che, nella stagione 1970-71, allestì la Santa Giovanna dei macelli di Brecht.
Nel triennio 1968-71 il G ottenne alcuni importanti risultati: impegnò e valorizzò i migliori allievi di Strehler; sostenne G. De Bosio, Parenti, Eduardo, nella loro ricerca di un filone teatrale nazionale e al contempo popolare; chiamò al Piccolo significativi nomi stranieri, tra cui la rivelazione P. Chéreau.
In sintesi, il Piccolo fu, per il G., il modo per attuare la sua idea di teatro stabile, pubblico e "sociale", soprattutto di "teatro d'arte", dove l'attentissima cura del livello organizzativo doveva essere intimamente connessa al potenziamento dei livelli espressivi; e dove l'intento di contribuire alla cultura drammatica nazionale si univa alla volontà di incidere sul più vasto panorama mondiale. Lo stabile milanese, primo esempio di stabile italiano, trovò in lui, sino alla metà degli anni Settanta, la principale figura di riferimento nelle complesse e plurime esigenze organizzative, capace soprattutto di sintetizzare una lungimirante visione politica del settore con una dimensione culturale ricca e sempre vivace. Il G., definendosi "operatore culturale" (e "inventore di cultura", come ebbe a dire Strehler), riassumeva in tale definizione il senso più profonde del suo agire, fin dagli anni giovanili: la consapevole volontà di essere uomo di teatro a tutto tondo, teso a qualificare il teatro come realtà artistica, e insieme espressione di valori civili e sociali, evento di alta cultura. A tale scopo il G. scelse di sacrificare le sue pur notevoli doti creative, e fu questa, in certo modo, una ferita che andava rimarginata attraverso un grande sforzo di invenzione, assumendo un ruolo del tutto inedito nel contesto del teatro italiano di allora. Tale particolare specializzazione non fu quindi un limite ma un punto di forza, poiché in essa il G. poté portare a maturazione e utilizzare non solo le doti organizzative e manageriali ma anche le competenze teoriche, le vaste letture, i molteplici interessi, soprattutto il suo incondizionato amore per il teatro; un teatro che "comincia prima e finisce dopo", non destinato, cioè, a esaurirsi nello spettacolo al quale si assiste, ma lievito che accresce la capacità di essere uomini immersi nel concreto della realtà storica. Gli intendimenti, le convinzioni e i progetti del G. - unitamente, non senza difformità, a quelli di Strehler - naturalmente si incontrarono e, insieme, si scontrarono con tutto un contesto che può definirsi come il "sistema teatrale italiano" dei primi anni del dopoguerra. In questo quadro il G. fu costretto a misurarsi con una serie di contraddizioni, di legami, di incomprensioni e anche di inevitabili limiti e idiosincrasie personali. Le sue idee di teatro d'arte, teatro di regia, teatro stabile gestito dalla collettività, dovettero confrontarsi con i limiti storici intrinseci al sistema teatrale e alla società italiani, i quali ultimi, d'altronde, lo stesso G. non sempre comprese pienamente. Per esempio, la sua convinzione che bastasse fare una politica di prezzi contenuti, "municipalizzando" il teatro di prosa e sfruttando il contributo economico pubblico, per aumentare le presenze, non ebbe un riscontro pieno nella realtà dei fatti; se il Piccolo si assicurò un "suo" pubblico, fu grazie a una serie di iniziative mirate a coinvolgere specifiche frange di spettatori, in particolare della piccola e media borghesia milanese; grazie a una campagna di abbonamenti che assicurava una programmazione di alto valore artistico, dovuto al genio creativo di Strehler e alle sue innovazioni e riscoperte; e anche grazie all'incentivazione dell'associazionismo. Non funzionò granché, invece, la sua concezione di teatro per il popolo - termine quest'ultimo di non facile definizione per le mutazioni storiche e sociologiche intervenute - nel quadro globale di una società di massa in cui la necessità e i modi di "consumare" teatro stavano quanto meno cambiando radicalmente. Il G. percepì queste trasformazioni arroccandosi, però, su posizioni quasi esclusivamente difensive, assumendo il ruolo di vestale del teatro, inteso come valore da proteggere nei confronti della "barbarie" presente e da trasmettere alle future generazioni, nella speranza di trovarle più ricettive e più eticamente disponibili a un'arte rivolta alla collettività. La stessa formula di "teatro stabile" negli anni si istituzionalizzò, divenendo un termine "tecnico" - che implicava, insieme con un certo tipo di gestione amministrativa, le intrusioni dei partiti - e un modello culturale che, nel diffondersi sul territorio nazionale, perse molto della sua spinta innovativa e delle specifiche ragioni che ne avevano giustificato istituzionalmente l'esistenza. Così, la concezione del teatro come servizio pubblico, propria del G., veniva a perdere la sua carica "gramsciana", a sfondo pedagogico e didattico, realizzandosi, d'altro canto, come luogo d'incontro per tutti, in senso quantitativo e trasversale alle classi e ai ceti.
In definitiva, l'opera del G., insieme con il lavoro di tanti suoi compagni d'avventura, contribuì significativamente, nella concreta realtà del Piccolo, alla realizzazione di una tipologia possibile, duttile ed equilibrata, di teatro stabile a gestione pubblica che, nel caso specifico dello Stabile milanese, tramite il concorso di contributi artistici di alto livello, raggiunse risultati ottimi, talvolta eccezionali; senza però riuscire a essere un vero e proprio teatro nazionale e nemmeno un organico, definitivo, esempio di teatro d'arte.
Il G., dal 16 febbr. 1972 - data in cui successe ad A. Ghiringhelli che aveva presieduto la Scala per ben 27 anni - al 1976, fu sovrintendente del teatro alla Scala di Milano. In questo ruolo, coadiuvato da M. Bogianckino, C. Abbado, T. Varsico, R. Gandolfi, L.L. Secchi, operò attivamente e, al solito, molto concretamente, dando nuovo impulso alla vita della storica istituzione milanese.
Come lo stesso G. ebbe a precisare nell'articolo L'ora dei chiarimenti, pubblicato sul Corriere della sera il 25 apr. 1976, quando aveva già lasciato la Scala, egli realizzò la creazione di un prezioso archivio; ristrutturò i servizi amministrativi, l'ufficio degli affari generali e quello del personale; rinnovò la convenzione tra Comune e teatro, firmata nel lontano 1929 e da tempo scaduta; inaugurò un centro meccanografico per lo snellimento delle pratiche amministrative; installò un impianto televisivo e radiofonico a circuito chiuso tra il palcoscenico, gli uffici e gli altri reparti; istituì l'ufficio di collegamento della consulta sindacale CGIL-CISL-UIL, che permise l'ingresso alla Scala di un nuovo numeroso pubblico di giovani e di lavoratori; ampliò il lavoro dell'ufficio stampa allestendo una fornita biblioteca.
La vicenda del G. sovrintendente della Scala (la seconda grande avventura della sua vita, come fu detto da molti) è uno spaccato molto significativo del modo in cui, negli anni Settanta, si articolarono nella società italiana i complessi rapporti fra politica, sindacalismo, cultura, e laddove permangono, insieme con aspetti indubbiamente positivi, molte contraddizioni, lati oscuri, problematiche inconciliabili, e, naturalmente, nello specifico caso del G., risvolti personali, in cui sentimenti e idiosincrasie caratteriali rendono difficile una lettura oggettiva dello svolgimento dei fatti.
Fin dal primo consiglio d'amministrazione il G. dichiarò la sua posizione, definendosi uomo di trincea, lontano da qualsiasi conservatorismo, deciso a collocare la Scala dentro il corpo sociale, aperta al dialogo, democraticamente rivolta a tutti gli strati della società ma aristocratica sul piano artistico. Il G. sapeva bene che il forte tradizionalismo implicito all'istituzione, e le conseguenti resistenze interne all'ambiente, avrebbero reso difficili i suoi intendimenti di politica culturale: il rischio di quello che chiamava l'istituto del "rigetto" poteva colpire anche la sua persona. Di fatto ciò, nel corso di pochi anni, avvenne. Si trovò contro lo schieramento politico di destra che vide, nella presenza di Strehler al Piccolo e del G. alla Scala, una sorta di circuito cultural-teatrale funzionale a una strategia politica e di partito, sostenuta dai sindaci "marxisti" A. Aniasi e P. Pillitteri. Entrò in rotta di collisione soprattutto perseguendo le sue idee-forza, le abituali convinzioni che lo avevano sorretto fin dalla fondazione del Piccolo: un teatro pubblico per il G. non poteva vivere se non in stretto rapporto con il Comune e con gli altri enti locali; l'istituzione culturale non poteva non godere di un ampio consenso politico, tale da aprirgli nuove strade: dibattiti, convegni, manifestazioni dovevano servire ad allargare la partecipazione, procurare un ricambio del pubblico, in modo da ampliare e generalizzare i contributi al sostentamento e alla vita del teatro.
La possibilità di portare avanti questa linea venne meno nel 1976, quando anche l'ente scaligero risentì pesantemente della congiuntura economica negativa: crebbero gli interessi passivi, i debiti e i crediti non riscossi, si rilevò l'esigenza di ridurre i costi e limitare gli straordinari delle maestranze; il sindaco chiese l'istituzione di una legge speciale per provvedere alle necessità più impellenti. Dal canto suo il G., in una conferenza stampa tenuta il 25 marzo, da una parte attaccò il governo, dall'altra sparò a zero anche sul fronte interno, accusando di corporativismo il consiglio d'azienda, organo sindacale dei lavoratori scaligeri, poco propensi, secondo il G., a tener conto delle difficoltà che attanagliavano l'ente.
Ne nacque un contrasto aspro: in questa lotta intestina il G. accusò il consiglio d'azienda, molti dei cui membri erano comunisti, di esercitare privilegi e corporativismi, di coprire assenteismi, abusivismi e ostruzionismi; si aprì un vero e proprio scontro con i sindacati che andò oltre il caso specifico, quando i responsabili culturali del Partito comunista italiano (PCI) attaccarono il G. sulla richiesta di una legge speciale.
Constatata l'ostilità del PCI e l'impossibilità di trovare un accordo con il consiglio d'azienda, il G. si dimise con lettera del 9 apr. 1976.
Dal 20 genn. 1977 al 1980 il G. fu presidente della RAI: sotto la sua presidenza, si ebbe l'avvio della terza rete televisiva; assunse, infine, la carica di presidente della RAI Corporation.
Il G. morì a Londra, il 13 marzo 1981, per una crisi cardiaca.
Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 14 marzo 1981; un'esaustiva sintesi dell'attività e della vita del G. in P. Grassi, Quarant'anni di palcoscenico, a cura di E. Pozzi, Milano 1977; si veda ancora: Enc. dello spettacolo, V, sub voce.