GIUSTINIAN, Paolo
Nacque a Venezia il 15 giugno 1476, ultimo figlio di Francesco e Paola Malipiero, nobili veneziani, che gli diedero il nome di Tommaso. La sua giovinezza resta in gran parte sconosciuta a causa dell'assenza di documentazione. Infatti, nel 1507 il G. distrusse tutti i suoi scritti giovanili, e gli spunti autobiografici che si trovano nelle sue opere più tarde tendono a leggere le vicende passate in funzione dell'approdo alla vita eremitica, con una consapevole selezione di temi e una scarsa attenzione per la cronologia.
Rimasto orfano di padre in giovane età, il G. fu educato a Venezia sotto la guida della madre. Nel 1493 si trasferì a Padova, per frequentare i corsi universitari di filosofia e teologia, e vi rimase fino al 1504-05. Anche su questo periodo, che si intuisce decisivo ai fini della sua formazione, non disponiamo di molte notizie. Certo è che a Padova egli approfondì la conoscenza dei testi greci e latini e strinse legami di fervida amicizia con diversi coetanei, come Nicolò Tiepolo e Vincenzo Quirini (Querini), anch'essi membri di importanti famiglie veneziane e appassionati di cultura classica. Progressivamente, però, maturava nel G. un desiderio di vita ritirata e un forte interesse per la dimensione religiosa, che lo condusse ad approfondire i testi scritturali e patristici, esplicitamente contrapposti alla teologia scolastica. A quanto scrisse, in questo passaggio dalla filosofia alla riflessione religiosa sarebbe stata determinante una lunga malattia di cui soffrì nel 1504.
Alla fine del 1505 tornò a Venezia. Desideroso di solitudine, si ritirò in una casetta che possedeva sull'isola di Murano, e intensificò le sue riflessioni religiose. Nell'estate 1506 compose così le Cogitationes quotidianae de amore Dei, un interessante diario spirituale che dimostra solide letture bibliche e teologiche e tende a ricollocare la cultura filosofica in una sfera decisamente inferiore alla contemplazione religiosa. Il ritiro a Murano non fu però sufficiente a offrire al G. la serenità di spirito cui aspirava. Deciso a dedicarsi esclusivamente allo studio delle lettere sacre, nel 1507 fece voto di castità e partì per la Terrasanta, con il progetto di ritirarsi nel convento francescano di Betlemme, ma senza prendere gli ordini. Il soggiorno a Betlemme fu molto più breve del previsto: all'inizio del 1508 era di nuovo a Venezia, ancora incerto sulla via da seguire.
A Venezia il G. riprese i contatti con i vecchi amici: Vincenzo Quirini, Gaspare Contarini, G.B. Cipelli, detto Egnazio, Sebastiano Zorzi, Nicolò Tiepolo, Paolo Canal, Trifon Gabriel e altri. Questo gruppo di giovani patrizi, conosciuto anche come "circolo di Murano", si caratterizzava per una forte sensibilità per il tema della salvezza individuale e trovava nella preghiera e nella meditazione un rifugio dai drammatici eventi politici contemporanei. Nell'ambito del gruppo, il G. assunse un ruolo di guida spirituale, esercitando una forte influenza sui più affezionati amici, come Contarini, Egnazio e Quirini. Tuttavia, in questa fase della sua evoluzione spirituale egli non aveva ancora elaborato una concreta proposta culturale e religiosa e anche per questo motivo sembrano poco fondate le analisi che tendono ad attribuire al circolo di Murano una coesione che in realtà non ebbe.
Nel 1508-09 il G. era ormai deciso a ritirarsi in qualche luogo pio con gli amici che lo avessero voluto accompagnare, ma era poco propenso a prendere gli ordini sacri, che considerava carichi di obblighi eccessivi. In questa fase, il ritiro dalla vita attiva si configurava come un'esperienza di studio e preghiera, ancora fortemente condizionata dall'ideale umanistico del saggio stoico. D'altro canto, il G. nutriva un interesse ormai esclusivo per gli studi sacri, che si espresse in un ampio commentario al Genesi, rimasto manoscritto e incompiuto.
Nel 1509 il G., Egnazio e Quirini avviarono trattative per essere accettati come oblati nell'abbazia benedettina di Praglia, ma senza successo. L'anno successivo presero allora contatto con i camaldolesi di S. Michele di Murano, il monastero dove si era rinchiuso, per morirvi, Paolo Canal, uno dei più cari amici del Giustiniani. Il generale dei camaldolesi, Pietro Dolfin, e il vicario generale, Paolo Orlandini, si dimostrarono subito ben disposti e fu stabilito che il G. si sarebbe recato nell'eremo di Camaldoli, per valutare la possibilità di ritirarvisi; restava comunque inteso che i tre amici non avrebbero preso gli ordini e avrebbero vissuto in stretta comunione.
All'inizio di luglio 1510 il G. raggiunse Camaldoli e vi si trattenne fino al principio di agosto. Il viaggio a Camaldoli modificò completamente il suo progetto iniziale e lo convinse ad abbracciare la vita eremitica. Così, dopo un nuovo, breve soggiorno a Venezia, il G. vestì l'abito camaldolese con il nome di Paolo nel giorno di Natale del 1510. Nella sua corrispondenza egli attribuì la decisione a un grave incidente verificatosi nel corso del viaggio, che aveva messo a rischio la sua vita e aveva assunto il valore di una "illuminazione". Non si trattò tuttavia di una decisione precipitosa, ma dell'esito ultimo di un travaglio interiore iniziato da parecchi anni. Né si può trascurare l'influenza che esercitò sul G. la conoscenza diretta dell'eremo di Camaldoli, che lo impressionò per la serenità e la semplicità di vita.
Divenuto novizio camaldolese, il G. cercò di indurre gli amici, e particolarmente Egnazio e Quirini, a imitare la sua scelta, iniziando un fitto carteggio, che è uno dei documenti più interessanti della sua spiritualità. Nelle sue lettere il G. descrive con spontaneità i suoi sentimenti nella nuova condizione di vita e teorizza la superiorità della vita religiosa e la sostanziale inutilità della cultura classica ai fini della salvezza, riprendendo in maniera originale il dibattito sugli stati di vita.
Le sue argomentazioni non riuscirono a convincere Egnazio, che rimase in una posizione di incertezza, né Contarini, che negò l'esistenza di una condizione di vita privilegiata all'interno del cristianesimo, ma ebbero una forte influenza su Sebastiano Zorzi e su Quirini, che nell'autunno del 1511 si recarono all'eremo. La scelta di Quirini e l'attività di proselitismo svolta dal G. suscitarono perplessità in alcuni degli amici veneziani, che valutavano come un vero e proprio tradimento l'abbandono di Venezia proprio nel momento in cui era attaccata dalle truppe della Lega di Cambrai. In particolare, Contarini cercò di dissuadere Quirini, difendendo la legittimità della vita nel secolo e insistendo sui pericoli che comportava la scelta eremitica. Il G. reagì con una dura lettera a Contarini e Tiepolo, nella quale ribadì i fondamenti dottrinali della scelta eremitica e li tacciò di manifesta eresia. Dopo che Quirini e Zorzi presero l'abito camaldolese (22 febbr. 1512), la frattura fu in qualche modo ricomposta e i rapporti del G. con Contarini tornarono cordiali. Rimase però un dissenso di fondo sul significato della vita eremitica e sulle vie per raggiungere la salvezza individuale.
L'8 ag. 1512 il G. fece la sua professione solenne, insieme con Quirini e Zorzi, e divenne rapidamente un punto di riferimento per gli altri eremiti. La situazione dell'eremo di Camaldoli, in effetti, non era così rosea come era sembrato al G. nei primi mesi del suo soggiorno. L'incerto governo di Pietro Dolfin sembrava incapace di garantire la riunificazione dei diversi rami dell'Ordine e lasciava del tutto insoddisfatti gli eremiti di Camaldoli, che lo consideravano supino ai voleri di discutibili consiglieri. Il malcontento degli eremiti trovò in Quirini e nel G. degli autorevoli portavoce, capaci di elaborare una proposta complessiva di riforma. Fulcro di tale proposta era l'unione di Camaldoli con il monastero di S. Michele di Murano, cui facevano riferimento altri monasteri camaldolesi, e, soprattutto, l'allontanamento del generale dal governo dell'eremo, che avrebbe dovuto essere assegnato a un priore, eletto ogni tre anni. Questi provvedimenti, poi, sarebbero stati codificati in una riforma delle costituzioni dell'eremo.
Dolfin si piegò di malavoglia a convocare un capitolo generale, che si tenne a Firenze nell'aprile del 1513. Le conclusioni del capitolo, recepite nella bolla Etsi a summo rerum Conditore (4 luglio 1513), prevedevano il depotenziamento della figura del generale in favore delle cariche elettive, l'unione delle Congregazioni di S. Michele e Camaldoli e l'introduzione di altre riforme proposte dal Giustiniani. L'opposizione di Dolfin fu facilmente superata, grazie all'appoggio di Giuliano de' Medici e del neoeletto papa Leone X, ma il vecchio generale cercò di rimettere in discussione le conclusioni del capitolo, rivolgendosi direttamente al pontefice. Perciò, nel maggio 1513 i camaldolesi inviarono a Roma il G. e il Quirini.
Il viaggio a Roma offrì ai due religiosi l'opportunità di presentare al papa, nel luglio 1513, una proposta complessiva di riforma della Chiesa, il cosiddetto Libellus ad Leonem X, testo di importanza capitale per la storia religiosa del Cinquecento, che può essere adeguatamente compreso solo tenendo presente le speranze entusiastiche che salutarono l'elezione al papato di Leone X. Nel Libellus è infatti ben evidente l'attesa di una nuova età apostolica, in cui sarebbe stato possibile riformare la vita religiosa dei popoli cristiani, riunire le Chiese orientali al cristianesimo occidentale e convertire ebrei e musulmani. Queste attese millenaristiche, peraltro, non toglievano nulla alla concretezza delle proposte di riforma, che prefiguravano alcune linee guida del cattolicesimo postridentino.
Il discorso di Quirini e del G. si articolava in sei parti, tra cui la più interessante è senza dubbio la quinta, dedicata alla riforma della vita religiosa del clero e del laicato. Le osservazioni sul clero insistevano molto sull'ignoranza e sulla bassa qualità morale dei religiosi e contenevano proposte di riforma radicali: una riorganizzazione degli studi ecclesiastici, che avrebbe dovuto ridurre il ruolo della cultura classica e della scolastica a vantaggio dello studio dei testi patristici; l'uso del volgare nella liturgia e la traduzione dei testi sacri; l'istituzione di una censura preventiva sui testi religiosi; l'unificazione dei regolari in poche famiglie religiose; una rigida vigilanza del pontefice sulla scelta dei vescovi. Le proposte relative al laicato si caratterizzavano invece per un'accentuazione degli aspetti repressivi, che peraltro affioravano un po' in tutto il Libellus. In particolare si auspicava una severa azione di contrasto di pratiche come il gioco, la prostituzione, l'uso dei cosmetici e, soprattutto, l'astrologia.
Una corretta valutazione di questo testo è difficile. I numerosi studi che lo hanno analizzato hanno di volta in volta enfatizzato aspetti diversi, dal tema dell'evangelizzazione dei popoli non cristiani alla critica della vita licenziosa del clero. Tuttavia l'elemento più interessante, e potenzialmente più ricco di sviluppi, è l'idea che le riforme si sarebbero dovute sviluppare non tanto attraverso un movimento dal basso, quanto piuttosto grazie all'azione del pontefice. Una tesi che, pur non criticandole apertamente, liquidava le ancora diffuse tesi conciliariste e già prefigurava il ruolo che il Papato avrebbe assunto con il concilio di Trento.
Il Libellus influenzò alcuni decreti del quinto concilio Lateranense, ma non riuscì a imprimere una svolta alla politica religiosa di Leone X. Tuttavia, il pontefice dimostrò molta stima per i due camaldolesi e particolarmente per il Quirini, che nel 1514 tornò a Roma e assunse un ruolo di qualche rilievo nell'entourage papale. Nell'estate del 1514 si parlava insistentemente di un suo possibile cardinalato e il G. intervenne più volte sull'amico per invitarlo a resistere alla proposta, per quanto possibile. Ma improvvisamente Quirini si ammalò e, il 23 sett. 1514, spirò tra le braccia del G., prontamente accorso a Roma.
La morte di Quirini non rappresentò solo un grave colpo personale, ma privò il G. di un interlocutore intelligente, capace di temperare le sue rigidità e più abile a muoversi sugli scenari politico-diplomatici e a mantenere aperto il dialogo con le alte gerarchie. Negli anni successivi alla morte dell'amico, il G. continuò comunque a impegnarsi con straordinario attivismo per la riforma, interessandosi sia all'Ordine camaldolese, sia alle grandi problematiche religiose contemporanee. Particolarmente importante fu il suo intervento al sinodo fiorentino del 1516, convocato per dare attuazione ai disposti del concilio Lateranense. In quest'occasione il G. operò perché si giungesse a una condanna di G. Savonarola e del profetismo savonaroliano, che considerava un ostacolo alla riforma della Chiesa per via istituzionale, ma non riscosse molto successo. Lo stesso Contarini, richiesto di un parere in merito, difese la sostanziale legittimità delle posizioni savonaroliane.
Di non minore rilievo fu l'azione svolta dal G. all'interno dell'Ordine camaldolese. Già prima di diventare sacerdote, nel 1515, il G. era ormai riconosciuto dai confratelli come un'autorevole guida spirituale; assunse diverse cariche istituzionali: presiedette i capitoli del 1514, del 1515 e del 1516, allorquando fu eletto maggiore, una carica triennale che gli fu rinnovata nel 1520. Nel 1516, inoltre, portò a termine la ricompilazione delle Regulae Camaldulenses, che furono approvate e stampate nel 1520. Le nuove Regulae si fondavano sulle antiche tradizioni dell'Ordine, ma erano fortemente segnate dall'impronta del G., soprattutto nell'accentuazione del ruolo dell'eremitismo rispetto alla vita cenobitica. Contemporaneamente, il G. componeva numerosi scritti religiosi, talora semplici meditazioni, talora veri e propri trattati, e manteneva un fitto commercio epistolare con numerosi amici e conoscenti, ai quali magnificava la superiorità della vita eremitica. Grazie al suo indubbio carisma, egli riuscì a convincere diversi religiosi, soprattutto benedettini, a passare tra i camaldolesi, anche se ciò produsse qualche frizione con gli Ordini di provenienza.
L'azione del G. raccolse notevoli consensi, ma suscitò anche forti opposizioni, che trovavano un appoggio autorevole nel vecchio generale, Dolfin, ormai definitivamente estromesso dal governo dell'Ordine. Desideroso di porre termine ai conflitti e di intensificare la sua attività di proselitismo, il G. cominciò a meditare la possibilità di abbandonare l'eremo. Già il 7 febbr. 1515 aveva ottenuto, grazie all'intercessione di Pietro Bembo, un breve papale che concedeva a lui e ad alcuni monaci di poter viaggiare, predicare ed erigere monasteri, ma non se ne servì fino al 1520, quando la morte dell'amico Paolo Orlandini (1519) e le tensioni interne all'Ordine lo indussero a rompere gli indugi. Il 14 sett. 1520 radunò il capitolo di Camaldoli e depose la carica di maggiore; qualche giorno dopo abbandonò l'eremo insieme a un converso. Il progetto iniziale era probabilmente quello di recarsi nelle Indie, ma, giunto sul monte Corona, nei paraggi di Umbertide, un terziario francescano di nome Tommaso lo convinse a desistere e si unì a lui. In seguito, il G. trovò altri seguaci, soprattutto religiosi e romiti selvatici, ma anche un personaggio di qualche rilievo come il ricco canonico Galeazzo Gabrielli, che mise le proprie sostanze a sua disposizione. Furono così fondati i primi eremi, quello di Pascilupo, nell'Eugubino, e quello delle Grotte di Massaccio, nei pressi di Jesi, un antico monastero camaldolese che fu ceduto al G. nel 1522.
In questa febbrile attività di proselitismo il G. dovette talora scontrarsi con l'opposizione delle autorità di governo locali. Nel 1522 il legato della Marca lo fece addirittura rinchiudere nel monastero di S. Francesco di Macerata, accogliendo le denunce di alcuni eremiti irregolari. Ma complessivamente si trattò di un periodo particolarmente fortunato per il G., finalmente privo di responsabilità di governo e libero di dedicarsi a quella che considerava la sua vera missione: la diffusione dell'ideale eremitico camaldolese. In questa fase egli non pensava infatti alla fondazione di una nuova congregazione, ma mirava piuttosto a ricondurre al rigore della disciplina di s. Romualdo le varie forme di eremitismo sparse per l'Italia. Così, nel 1523 il G. ottenne dal vicario generale della Congregazione camaldolese il riconoscimento ufficiale e l'erezione della nuova Compagnia degli eremiti di S. Romualdo, di cui fu riconosciuto superiore indipendente. L'anno successivo, il capitolo della Compagnia, che contava ormai una trentina di membri, approvò una regola, stesa dal G. e basata sostanzialmente sulle Regulae del 1520. Progressivamente, però, la rigorosa osservanza della vita eremitica propugnata dal G. e dai suoi seguaci condusse a un'aperta rottura con la Congregazione camaldolese, che fu sancita ufficialmente nel capitolo di Classe del 1525. Tuttavia, anche negli anni successivi, il G. mantenne i contatti con Camaldoli e vi si recò più volte per difendere le posizioni degli eremiti contro i cenobiti.
Nel frattempo, la Compagnia romualdina continuava ad ampliarsi e nel 1526 il G. poté tranquillamente abbandonare la carica di maggiore, pur mantenendo un ruolo molto importante tanto sul piano spirituale quanto nell'organizzazione pratica delle nuove fondazioni. Egli era ormai diventato un punto di riferimento per i settori più attivi e innovatori del clero italiano. Sin dal 1523 aveva avviato uno scambio epistolare con Gaetano Thiene, che gli esponeva con fiducia i principî-guida del suo apostolato. Inoltre, il G. esercitò una forte influenza sui fondatori dell'Ordine dei cappuccini e li protesse dalle persecuzioni di cui erano fatti oggetto.
Gli anni della fondazione della Compagnia non segnarono un arresto dell'attività letteraria del Giustiniani. Risalgono anzi a questo periodo le sue opere più interessanti, tutte scritte in volgare: il Secretum meum mihi (1524-26) e il Trattato di ubidienza di don Paolo Giustiniano con una pistola del medesimo a M. Marcantonio Flaminio (composta nel 1526 e pubblicata a Venezia, S. de Sabio, nel 1535).
Il Secretum analizza i vari aspetti del sentimento d'amore, da quello carnale a quello spirituale, e rappresenta un'opera di grande originalità, per la saldatura tra la tradizione mistica medievale e la filosofia neoplatonica. Al pari delle altre opere del G. si tratta di una meditazione molto personale, caratterizzata da una scrittura frammentata, che riutilizza in maniera originale diversi codici culturali. La Lettera al Flaminio riprende uno dei temi favoriti della riflessione del G., l'inutilità della cultura classica e profana ai fini della salvezza. In questo testo, peraltro, la polemica antiumanistica e l'esaltazione della vita eremitica si sostanziavano in argomentazioni complesse e raffinate, che utilizzavano largamente la letteratura filosofica e teologica antica e medievale.
Nel maggio 1527 il G. dovette recarsi a Roma, per risolvere una vertenza relativa all'abbazia di S. Salvatore a Montacuto. Si trovava da pochi giorni in città, ospite di Gian Pietro Carafa e Gaetano Thiene, quando le truppe imperiali la presero d'assalto e la misero a sacco. Anche il G. fu catturato e malmenato, ma dopo pochi giorni era libero e poté fare ritorno all'eremo delle Grotte. All'inizio del 1528 lo lasciò di nuovo per recarsi a Orvieto da papa Clemente VII, al quale richiese la conferma dell'acquisizione di alcuni eremi. Nell'estate dello stesso anno si recò sul monte Soratte insieme con il confratello Giacomo da Gubbio, per visitare l'eremo di S. Silvestro, che gli era stato ceduto da Giovanni Matteo Giberti.
Quando vi giunse, il G. era già molto ammalato e lì spirò, il 28 giugno 1528.
Personalità complessa e tormentata, il G. occupa un posto centrale nella vita religiosa italiana del Cinquecento, non solo per la sua originale proposta di restaurazione dell'ideale eremitico, inteso come testimonianza di amore per Dio e rifiuto del mondo, ma anche per l'influenza che esercitò su alcuni dei più importanti esponenti della Riforma cattolica, come Gasparo Contarini, Gian Pietro Carafa e Gaetano Thiene.
Sin dai primi decenni successivi alla sua morte all'interno dell'Ordine camaldolese fu attribuito al G. il titolo di beato. Con un decreto dell'11 genn. 1681 la congregazione dei Riti ordinò però di ritirare le immagini del G. con l'aureola e il titolo. Tradizionalmente, il G. è rappresentato in abito eremitico, con una barba fluente. Un esempio interessante di questa iconografia è una statua seicentesca nella chiesa della Salute a Venezia.
Opere. Le opere del G. sono per la maggior parte manoscritte. Opere pubblicate: Trattato di ubedentia di don Paolo Giustiniano, con una epistola a m. Marc'Antonio Flaminio, Venezia, S. de Sabio, 1535; G.B. Mittarelli - A. Costadoni, Annales Camaldulenses, IX, Venetiis 1773, coll. 447-719 (parte dell'epistolario e il Libellus); Secretum meum mihi, o Dell'amor di Dio ragionamenti sei, a cura di A. Stolz, Frascati 1941; Trattati, lettere e frammenti, a cura di E. Massa, Roma 1961-67; Regola della vita eremitica, a cura di A. Visentin, Seregno 1996. Alcune opere minori sono state pubblicate in Vita cristiana, XIV (1942), pp. 117-144; XXI (1952), pp. 63-83, 149-156. L'originale del Libellus è da considerarsi perduto. Una traduzione italiana è stata pubblicata, sulla base di un manoscritto settecentesco: P. Giustiniani - P. Quirini, Lettera al papa, a cura di G. Bianchini, Modena 1995.
Fonti e Bibl.: Attualmente i manoscritti del G. sono conservati presso il Sacro Eremo Tuscolano di Frascati e non sono consultabili. La maggior parte del fondo è stata inventariata in P. Giustiniani, Trattati, lettere e frammenti, I, I manoscritti originali custoditi nell'eremo di Frascati, a cura di E. Massa, Roma 1961; ma si veda anche P.O. Kristeller, Iter Italicum, Cumulative Index to volumes I-VI, s.v.; Le lettere di s. Gaetano da Thiene, a cura di F. Andreu, Città del Vaticano 1954, ad indicem; A. Fiori, Vita del beato P. G., Roma, 1724; P. Paschini, S. Gaetano da Thiene, Gianpietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Roma 1926, passim; J. Schnitzer, Peter Delphin, ein Beitrag zur Geschichte der Kirchenreform, München 1926, passim; J. Leclercq, Un humaniste ermite. Le bx Paul Giustiniani (1476-1528), Roma 1951 (a tutt'oggi il migliore profilo biografico); H. Jedin, Contarini und Camaldoli, Roma 1953 (anche in Arch. italiano per la storia della pietà, II, 1959); J. Leclercq, Le jugement du bx Paul Giustiniani sur st Pierre Damien, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XI (1957), pp. 423-426; Id., Le bx Paul Giustiniani et les ermites de son temps, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova 1960, pp. 225-240; S. Tramontin, Un programma di riforma della Chiesa per il concilio Lateranense V: il Libellus ad Leonem X dei veneziani P. G. e Pietro Quirini, in Venezia e i concili, Venezia 1962, pp. 67-93; G. Musolino - A. Niero - S. Tramontin, Santi e beati veneziani, Venezia 1963, pp. 267-276; I. Cervelli, Storiografia e problemi intorno alla vita religiosa e spirituale a Venezia nella prima metà del '500, in Studi veneziani, VIII (1966), pp. 447-476; F. Gilbert, Cristianesimo, umanesimo e la bolla "Apostolici regiminis" del 1513, in Riv. stor. italiana, LXXIX (1967), pp. 976-990; E. Massa, Le prime meditazioni del "secretum" di P. G., in Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, Gubbio 1967, pp. 301-366; F. Gilbert, Contarini on Savonarola: an unknown document of 1516, in Archiv für Reformationgeschichte, LIX (1969), pp. 145-149; J.B. Ross, Gasparo Contarini and his friends, in Studies in the Renaissance, XVII (1970), pp. 192-232; O. Zorzi Pugliese, Girolamo Benivieni: umanista e riformatore (dalla corrispondenza inedita), in La Bibliofilia, LXXII (1970), pp. 253-288; H. Jedin, Chiesa della fede, Chiesa della storia, Brescia 1972, ad indicem; G. Alberigo, Vita attiva e vita contemplativa in un'esperienza cristiana del XVI secolo, in Studi veneziani, XVI (1974), pp. 117-225; J. Leclercq, Il richiamo del deserto. La dottrina del beato P. G., Roma 1977; A. Pastore, Marcantonio Flaminio, Milano 1981, pp. 46-50; L. Fortini, Un trattato cinquecentesco sull'amore mistico: il "Secretum meum mihi" di P. G., in Riv. di storia e letteratura religiosa, XXII (1986), pp. 241-255; A. Visentin, P. G. eremita, Padova 1987; G. Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della Cristianità, Firenze 1988, ad indicem; E. Massa, P. G. e Gasparo Contarini: la vocazione al bivio del neoplatonismo e della teologia biblica, in Benedictina, XXV (1988), pp. 429-474; Id., L'eremo, la Bibbia e il Medioevo in umanisti veneti del primo Cinquecento, Napoli 1992, passim; E.G. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome and Reform, Berkeley-Los Angeles 1993, ad indicem; N.H. Minnich, The Catholic reformation: council, churchmen, controversies, Aldershot 1993, ad indicem; Id., The fifth Lateran council (1512-1517), ibid. 1993, ad indicem; L. Polizzotto, The elect nation. The Savonarolian movement in Florence, 1494-1545, Oxford 1994, ad indicem; C. Vasoli, Il tentativo di condanna del Savonarola come eretico e scismatico al sinodo fiorentino del '16-'17 ed al V concilio Lateranense, in Savonarole. Enjeux, débats, questions, a cura di A. Fontes - J.-L. Fournel - M. Plaisance, Paris 1997, pp. 243-261; J. Leclercq, G. P., in Dictionnaire de spiritualité, VI, Paris 1966, coll. 414-418; E. Massa, G. P., in Bibliotheca sanctorum, VII, Roma 1966, coll. 2-9; Diz. degli istituti di perfezione, III, coll. 1190-1192; IV, coll. 1367-1369.