Paolo Giovio
Storico tra i più autorevoli nell’età sua, Paolo Giovio andò incontro a un pesante e duraturo discredito a partire dalla seconda metà del Cinquecento fino alla rivalutazione attuale. Questi ultimi decenni hanno registrato un significativo avanzamento negli studi sulla sua opera, la sua cultura, la sua comprensione della storia del 16° sec.: ne hanno beneficiato, al di là del profilo complessivo, soprattutto aspetti quali il ruolo di Giovio nella critica d’arte, l’edificazione del Museo, la sua teoria delle imprese, l’estensione della sua cultura filosofica e scientifica, la forma biografica degli Elogia, la lettura gioviana della crisi della società rinascimentale. La ripresa di un’attenzione filologica s’è accompagnata a una rinnovata attività ecdotica e di commento, principalmente esercitata sugli Elogia, sul Dialogus, sui testi di rilevanza storico-artistica e su talune opere minori.
Paolo Giovio nacque a Como il 21 aprile 1483 (aliter 1486), da una famiglia patrizia, gli Zobii. Orfano di padre, fu cresciuto dal fratello Benedetto, i cui studi storici e filologici ne sollecitarono l’emulazione. Nel 1512, poco dopo aver conseguito la laurea in medicina a Pavia, partì per Roma, entrando nella cerchia del cardinale Bandinello Sauli. Benché assunto allo Studium come lettore di filosofia, la storiografia era già allora al centro dei suoi interessi. A partire dal 1517, Giovio si legò, in qualità di medico e umanista, alla famiglia Medici. In quegli anni era pontefice Giovanni de’ Medici con il nome di Leone X (1513-21), e Giovio entrò al servizio del cugino di lui, il cardinale Giulio de’ Medici, destinato anch’egli al pontificato con il nome di Clemente VII (1523-34) dopo la breve parentesi di Adriano VI (1522-23). L’ascesa del suo protettore al pontificato conferì a Giovio un’influenza sempre maggiore.
Con crescente preoccupazione, tuttavia, egli doveva assistere, a metà degli anni Venti, al progressivo abbandono, da parte di Clemente VII, della linea politica di alleanza con l’imperatore che pure, da cardinale, aveva perseguito: per Giovio l’esito – catastrofico – fu il sacco di Roma, cui egli assistette assediato con il papa in Castel Sant’Angelo (la sua fedeltà venne ricompensata con il vescovado di Nocera dei Pagani). Di tale evento rovinoso che causò, secondo improbabili dichiarazioni gioviane, la perdita del manoscritto di alcuni libri delle Historiae, Giovio ha reso testimonianza anche in un testo notevole, il cosiddetto dialogo d’Ischia scritto negli anni 1528-29, che contiene una lucida ricognizione della crisi italiana.
Alla morte di Clemente VII (1534), Giovio seppe legarsi al nipote del nuovo papa Paolo III Farnese, il cardinale Alessandro. Intanto, nel 1537 aveva avviato a Borgovico, alle porte di Como, l’edificazione di una villa, il Museo, ove raccogliere la sua collezione di ritratti, in una calcolata corrispondenza dei dipinti con testi biografici, epitaffi, imprese, cartigli e altro ancora, ciò che ne fece una sorta di raffinato sistema mnemotecnico. Giovio aveva salutato con entusiasmo l’avvento di Paolo III, sperando da lui una politica filoimperiale, la ricerca della ricomposizione religiosa, un’energica ripresa di iniziativa contro i turchi. Tali aspettative, tuttavia, andarono deluse, e in Giovio si fece strada una progressiva disillusione: al varo del Concilio di Trento, lo storico evitò di prendervi parte, consapevole che su ogni apparente tentativo di ricomposizione avrebbero avuto il sopravvento logiche strettamente politiche, in un clima di crescenti chiusure.
È dunque probabile che non sia stato solo il discostamento del pontefice da una politica filoimperiale, né il pesante nepotismo del Farnese, a deteriorare i rapporti tra Giovio e la corte pontificia, e neppure la mancata concessione a lui dell’auspicata sede vescovile di Como. Nel 1549 Giovio fiutò il vento e si portò a Firenze sotto le bandiere medicee: il definitivo, e doloroso, commiato da Roma forse aveva lo scopo, certo ebbe l’effetto, tutt’altro che senile, di conservare la facoltà di esprimersi liberamente. A Firenze Giovio pubblicò con una lena inusuale proprio quelle opere, le Vitae, i secondi Elogia, le Historiae, che compendiavano il lavoro di un’esistenza: in ciò ebbero un ruolo gli stimoli intellettuali che – all’ombra dell’ambigua protezione di Cosimo I – poteva intercettare tra Firenze e Pisa, coltivando più liberamente relazioni non tutte pie né caute, ma all’altezza della sua curiositas intellettuale. La morte lo colse a Firenze, il 12 dicembre 1552.
La conquista critica più recente su Giovio è il riconoscimento della complessità della sua esperienza intellettuale, frutto di una ricognizione più diretta e meno rapsodica della sua cultura. Se oggi l’inventività linguistica, l’ideazione del Museo, le amicizie filospirituali, la codificazione delle ‘imprese’ non appaiono più aspetti irrelati di una singolare personalità di umanista, è perché essi hanno iniziato a essere rapportati a un’educazione di prim’ordine che, tra Milano, Padova e Pavia, incrociò la strada di grandi maestri, e a un profilo intellettuale dominato da una sfrenata tensione conoscitiva, nella quale si rifrange, ai livelli più alti, la modernità problematica della prima metà del 16° secolo.
E come in molti intellettuali formatisi in quegli anni, ad es. l’amico Girolamo Fracastoro, anche in Giovio, sotto l’eterogeneità dei progetti di scrittura, si discerne un profilo dai tratti ben marcati: una vasta cultura umanistica, una robusta formazione logico-metodologica, una puntuale cognizione dei testi filosofici antichi non disgiunta da una pronta ricezione dei temi del dibattito attuale, l’acquisizione sicura di un sapere, quello medico-naturalistico, che conobbe, all’avvio del Cinquecento, una problematizzazione dei propri fondamenti. Poi, di specificamente gioviano, vi è un’attenzione inesausta verso uomini e libri, la disponibilità a lasciarsi modificare dalle circostanze, ma anche una personalità fortissima che lo spinse a battere, non ostentatamente, vie inconsuete. E, per ciò stesso, una personalità elusiva, tra modernità di aperture intellettuali e l’adozione – nelle opere storiche – dello strumento linguistico della tradizione, il suo fastoso, elegantissimo, latino; tra l’ostentata, lucianea, ricerca della verità nella storia e l’incontestabile parzialità, farnesiana prima e medicea poi; tra l’incomprensione degli aspetti di novità della Riforma protestante e tuttavia, nel suo erasmismo dissimulato, nelle sue amicizie filospirituali, l’insofferenza verso le precoci chiusure di quello che sarà l’orientamento vincente nella Controriforma.
Nell’autunno del 1506, forse per un anno, forse per un semestre, Giovio frequentò le lezioni di filosofia e medicina a Padova, ove ebbe maestri i massimi esponenti dell’aristotelismo cinquecentesco, Pietro Pomponazzi e Alessandro Achillini, e quello che era allora l’astro nascente dell’anatomia prevesaliana, Marcantonio della Torre (con il quale, dopo il trasferimento, o il ritorno, a Pavia, Giovio si laureò nel 1511). La prova della proficuità dell’apprendimento patavino è costituita dal manoscritto delle Noctes (1508), uno zibaldone che affronta, nella forma della quaestio disputata, tesi di metafisica, di logica, di medicina e filosofia naturale. Difficilmente sottostimabile è l’importanza dell’incontro con Pomponazzi: a lui Giovio deve, oltre all’elasticità e alla fastosità del suo linguaggio negli usi volgari, ad es. nelle lettere, anche – e soprattutto – quell’autonomia di giudizio, quella franchezza intellettuale che i contemporanei ben conobbero, e molti aspetti della sua spregiudicata apertura culturale.
Due sono le direzioni lungo le quali si riscontra l’incidenza della formazione scientifica sulla sua cultura. In chi, come lui, svolse il proprio servizio presso i pontefici giocando su entrambi gli scrittoi, quello di umanista e quello di medico, non sorprende la continuità con la quale, negli anni Venti, elaborò, e in parte pubblicò, scritti latini espressione di quel sapere: il De romanis piscibus, trattato di erudizione a base antiquaria, edito nel 1524, antecedente rispetto a tutte le opere di zoologia descrittiva del Cinquecento circoscritte a una sola classe di animali; il cosiddetto Consultum de oleo (1524), una relazione fondata su verifica autoptica, circa l’efficacia di un olio antipestilenziale, firmata anche da due altri testimoni ma con certezza attribuibile al solo Giovio, l’unico medico fra i tre; la De hammocrysi lapidis virtutibus epistula, probabilmente anch’essa del 1524, una sorta di perizia – ora perduta – su una pietra dai poteri astrologici, citata solo da Plinio il Vecchio in un passo della Naturalis historia; il De optima victus ratione, un’epistola medico-dietetica composta verosimilmente tra il 1525 e il 1528. Ampliando la prospettiva, notazioni mediche, spesso ‘diagnostiche’, sono applicate in forma continua, lungo un esteso arco temporale, a individui appartenenti alla sfera politica e militare: dal Commentario delle cose de’ Turchi (1531) fino agli Elogia (1546, 1551) e alle Historiae (1550, 1552), passando attraverso il multiforme sviluppo delle biografie (1532, 1539, 1546, 1548, 1549, 1550), né andrà tralasciato il rilievo di aspetti biotici nell’epistolario (cfr. Lettere, a cura di G.G. Ferrero, 2° vol., 1544-1552, 1958, pp. 141-42) e l’apporto delle metafore mediche al suo volgare, fastoso e sperimentale. È un indizio, sul piano esteriore, di quanto il sapere medico abbia permeato la strumentazione concettuale dello storico: basterà riferirsi, da un lato, al riuso della fisiognomica, così centrale nel filone biografico (Elogia, Vitae), dall’altro, a quanto l’apparato concettuale delle Historiae sia debitore dell’impianto tucidideo, dove vistosa è la mutuazione dalla diagnostica ippocratica.
Dimostrando, dunque, una congenialità profonda tra inventio veri storica e tali strumenti concettuali, negli anni del decollo delle Historiae Giovio scrive le opere che costituiscono il documento più evidente del radicamento, nella sua cultura, di quegli interessi scientifici. Ma nella cultura gioviana operava, ed è leggibile, una circolarità completa, che dalla storia parte e alla storia sempre ritorna. La collezione di ritratti deve servire alla storiografia, tanto quanto a una storiografia dai vasti orizzonti spaziali soccorre la corografia: dalla Moschovia (1525) al Commentario (1531), al Larius (1537, ma edito nel 1559) fino alla Descriptio Britanniae (1548), con la quale usciva allo scoperto il progetto De imperiis et gentibus cogniti orbis, poi non continuato. Lo scritto, tuttavia, cui occorre guardare come a un punto di svolta, ad attestare la piena maturità intellettuale di Giovio, è il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, scritto a Ischia tra il 1528 e il 1529, poi per almeno un decennio rielaborato ma rimasto inedito: vi si nota un sicuro giudizio storico, un’attenta calibratura della struttura letteraria, un piglio tagliente della costruzione dei personaggi, una sicura intelligenza nelle questioni poste al centro dello sviluppo dialogico. Basterà segnalare la denuncia di una società ossificata nei meccanismi di selezione del ceto politico e militare, ove il lignaggio è sempre anteposto al valore; l’aver posto l’accento sul progressivo smarrimento della capacità di presa sulla realtà da parte della cultura umanistica italiana, sovente scaduta a mediocre imitazione.
A questa data Giovio mostrava già operanti quelle decise aperture intellettuali verso l’altro geografico, etnografico e culturale che saranno un marchio del metodo storiografico delle Historiae. Ne è documento il Commentario de le cose de’ Turchi, composto – come s’è visto – nel 1531 e pubblicato l’anno successivo: un trattato che rivela non solo quanto eccezionale fosse la conoscenza gioviana della politica turca – ben al di sopra dei comuni livelli di informazione dell’epoca –, ma anche l’equanimità del suo giudizio nel valutare le qualità che rendevano i turchi antagonisti tanto temibili.
Né sorprende che un epistolografo così proclive, nel suo idioma espressionistico e irridente, a parlare in cifra (sia pure una ‘burlevole’ cifra) manifesti un’attrazione fortissima verso l’universo formale e concettuale delle ‘imprese’, del quale Giovio risultò il primo codificatore con il Dialogo dell’imprese militari et amorose (1551, ma pubblicato nel 1555), ove lo storico è impegnato in una serrata discussione con Lodovico Domenichi, poligrafo piacentino cui si deve la maggior parte dei volgarizzamenti delle opere gioviane, ma anche intellettuale eterodosso da Giovio protetto. Un delizioso libretto, il Dialogo, nel quale spiccano le cinque condizioni delle imprese. E tuttavia un testo di grande magnetismo letterario, scintillante di humour, di facezie grottesche, di evocazioni storiche. Riflettendo sull’amicizia intercorsa negli anni universitari tra Giovio e Andrea Alciato, spicca il rilievo che pare aver avuto per entrambi la precoce ricezione, in ambito pavese, dell’egittologia fantasiosa dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499) di Francesco Colonna e degli Hieroglyphica (1505) di Horapollo, da poco usciti dall’ombra. Certo che Alciato e Giovio, i primi e più autorevoli teorici cinquecenteschi, rispettivamente, degli emblemi e delle imprese, fossero conterranei e amici, compagni di università negli stessi anni, pare tutto fuorché casuale.
L’interesse gioviano per l’individualità nella storia affiora nel filone biografico che – semplifico il quadro –, al netto delle biografie minori, quasi tutte da lui non pubblicate, segue sostanzialmente due linee: quella delle Vitae e quella degli Elogia. Se le Historiae occuparono lo scrittoio di Giovio dalla giovinezza alla morte, quasi per intero l’arco temporale della sua esistenza letteraria è scandito dalla composizione di biografie. Giovio ne scrisse a partire dal 1525, anche se la loro pubblicazione fu per lo più concentrata negli ultimi anni. La sequenza delle prime edizioni, però, non coincide con quella degli anni della stesura, che sembra essere stata la seguente (tra parentesi quadra la data di edizione): De vita et rebus gestis Consalvi Ferdinandi Cordubae cognomento Magni (1525 ca.) [1549]; De vita Leonis X (1525-1526, poi 1529-1535) [1548]; De vita et rebus gestis Ferdinandi Davali cognomento Piscarii (1528-1534) [1549]; Pompei Columnae vita (1534-1544) [1548]; Vita Sfortiae (1538-1539?) [1539]; Hadriani sexti vita (1528-1534) [1546]; Vitae duodecim vicecomitum Mediolani principum (1539-1548) [1549]; Liber de vita et rebus gestis Alfonsi Atestini (1548-1549) [1550].
Le Vitae gioviane sono biografie di tipo storico. Esse incarnano, seppur diversamente tra loro, un tipo di biografia scritta, affermava Giovio prefando le Illustrium virorum vitae (1548), «ad imitazione di Plutarco, sebbene con uno stile in un certo qual modo più libero» (licentiore stilo). Nella biografia plutarchea, sulla scorta di Aristotele, le virtù etiche non preesistono naturalmente al loro manifestarsi, ma sorgono invece come atteggiamenti abituali nell’azione e attraverso di essa: in ragione di tale nesso fra carattere e azione, si determina una rappresentazione del carattere che muove costantemente dall’agire dei personaggi. Con parziale discostamento Giovio, che invece non dubita dell’autonoma sussistenza del carattere, lascia ch’esso venga dedotto dall’interazione del biografato con la storia, rendendo così quest’ultima predominante. Inoltre, la componente plutarchea delle biografie maggiori di Giovio si può discernere nel suo orientamento a non edulcorare il quadro con l’escludere azioni moralmente deprecabili dei suoi soggetti: in questo le Vitae scritte da Giovio furono rigorosamente storiche. In questo, ma anche in altro. Storiche nella cornice: il primo dei quattro libri di cui è costituita la Vita Leonis, dedicato alle vicende della famiglia de’ Medici da Cosimo il Vecchio a Piero il Fatuo, occupa un terzo dell’opera; storico l’andamento, rigorosamente diacronico; storica la puntuale inserzione di narrazioni politico-militari, sì che, ad es., la Pompeii Columnae vita, con le sue fosche descrizioni delle atrocità del sacco di Roma, attenua il rimpianto per i libri perduti (o, piuttosto, mai composti) delle Historiae gioviane. Giovio non avrebbe mai potuto sottoscrivere quanto Plutarco dichiara nell’introduzione alla biografia di Alessandro, quando dice che il suo campo è la biografia e non la storia. Anche la biografia, per Giovio, è storia: ciò non comportava necessariamente che tali fossero tutti i materiali dei quali essa era costituita.
Gli Elogia, pubblicati in due serie, quella dei letterati (1546) e quella degli uomini d’arme (1551), sono invece la raccolta dei brevi, o meno brevi, profili biografici che Giovio dichiara di aver composto affinché fossero materialmente collocati, in forma di pergamene, sotto ai ritratti, più di quattrocento, che costituivano la collezione del Museo gioviano di Borgovico, presso Como, edificato negli anni 1537-43. In appendice all’elogium, uno o più componimenti poetici: dapprima veri epitaffi funerari, da ultimo carmi fatti comporre da Giovio per la stampa dei volumi. Giovio iniziò a raccogliere ritratti – strumenti di conoscenza storica, che estendono la comprensione del comportamento umano – sicuramente a partire dal 1519, forse poco prima.
Molto si è scritto sull’implicazione stretta fra tre piani: il Museo, che Giovio identifica come templum virtutis, luogo simbolico della gloria fondata sulla virtù; la collezione di ritratti, l’interesse per i quali muove nello storico dall’istanza di oggettività; e gli Elogia, che ne costituiscono la trasposizione sul piano testuale, in un nesso modernissimo tra parola e immagine. Nell’opera di Giovio, il termine elogium vale ‘iscrizione’, un’accezione neutra e non laudativa: sul piano tematico essa corrisponde bene all’andamento critico, spesso polemicamente corrosivo, comunque non necessariamente apologetico, proprio degli Elogia.
Erano previste quattro serie, in corrispondenza di quattro classi nelle quali la raccolta di ritratti era stata suddivisa: letterati illustri defunti; letterati illustri viventi; artisti; papi, re e uomini d’arme (la terza e la quarta, verosimilmente, di defunti e viventi). Giovio ha pubblicato elogia della prima e della quarta serie, ma, nella prima, sono inclusi, senza elogium, nomi di letterati viventi dei quali Giovio possiede il ritratto; della terza non sono rimaste attestazioni, a meno di considerare elogia – a parer mio, non fondatamente – le tre vite degli artisti eccellenti (Leonardo, Raffaello, Michelangelo), edite da Girolamo Tiraboschi alla fine del Settecento.
Le prime attestazioni documentarie della composizione di elogia datano il 1544, benché sia verosimile che la loro stesura fosse iniziata qualche tempo prima. Il disegno dell’opera non fu, tuttavia, privo di oscillazioni: il piano originario dei primi Elogia (cfr. Lettere, cit., pp. 28-29), basato su una calcolata simmetria, mutò struttura, e d’altro canto la forma del profilo biografico si modificò sensibilmente nel passaggio dai primi ai secondi Elogia. In generale, il tratto più vistoso degli elogia gioviani è l’esplicita proposta di una forma biografica in rilievo e il taglio dell’informazione biobibliografica e storica in funzione dell’immagine che Giovio intende sagomare. Nella memoria del lettore si imprime così un gesto, un motto, un tratto fisiognomico, che riassume tutta un’interpretazione del carattere dell’elogiato.
Gli Elogia dei letterati mostrano di preferire Svetonio, del quale ricalcano la capacità di aggrumare in un assunto tagliente, solo in apparenza laterale, l’intero ethos di un uomo: anche se poi il biografo Svetonio rivela il carattere un poco alla volta, orchestrando un dramma, mentre Giovio nei primi Elogia ostenta immediatamente il tratto biografico dominante di quel profilo retorico fortemente selettivo (dai fatti al carattere).
Giovio tornerà al primato dei fatti con i secondi Elogia, influenzati alla fine degli anni Quaranta dalla scrittura e dalla revisione delle Vitae e delle Historiae. In essi si dispiega con nettezza un impianto diacronico, le esistenze sono ripercorse muovendo dall’infanzia, seguendo la carriera, le battaglie e le sconfitte, l’immagine pubblica e il giudizio dei contemporanei, le forme (i tempi, i modi) della morte. Qui, nelle prime battute dei profili biografici che compongono gli Elogia degli uomini d’arme, Giovio si avvale della tecnica dell’ékphrasis, descrivendo il ritratto cui l’elogium si riferisce, componendo un’immagine le cui linee e i cui colori sono mutuati dal dipinto, nell’ambizione che il lettore possa percepirne la tensione drammatica, e l’ethos quale è restituito dalla pittura.
Le Historiae (più esattamente, Historiarum sui temporis libri) di Giovio appartengono di diritto al ristretto novero delle imprescindibili opere storiche del Cinquecento europeo. Giovio ne aveva avviato la composizione già nel 1514, subito dopo il suo arrivo a Roma, ne aveva probabilmente interrotto la stesura dopo il 1527, per riprenderla – a quanto pare – solo nel 1535, dopo l’elezione di papa Paolo III. Copie manoscritte di singoli libri, tuttavia, iniziarono presto a circolare su iniziativa dello stesso Giovio. D’altro canto, è certo che non pochi libri delle Historiae furono composti, e altri rivisti, solo poco prima della stampa, avvenuta a Firenze, presso il Torrentino. Il primo volume uscì nell’agosto 1550, il secondo nel settembre 1552, pochi mesi prima della morte dello storico.
Le Historiae constano di 45 libri, ma mancano all’appello i libri V-X (1498-1513) e XIX-XXIV (1517-27), quasi certamente – a dispetto delle dichiarazioni, peraltro contraddittorie, dell’autore – mai scritti, e sostituiti da brevi testi di compendio, redatti anch’essi da Giovio. Le spiegazioni offerte da Giovio a riguardo sono imbarazzanti: l’unico dato incontestabile è che la materia dei libri perduti è in larga misura coperta da una notevole sequenza di biografie. Su un piano più formale, i vuoti sono colmati da riassunti, o epitomi, sul modello delle periochae, sommari tardoantichi dei libri perduti degli Ab urbe condita libri di Tito Livio.
Composte in latino, ispirate al canone della contemporaneità dell’autore agli eventi narrati, le Historiae coprono l’arco cronologico 1494-1547, coincidente in buona parte con la stagione delle ‘guerre d’Italia’. Colpisce, all’esordio delle Historiae, l’immagine di un’Italia in pace e prosperità, sconvolta in modi repentini nel 1494 dalla calata di Carlo VIII: un traumatico punto di svolta per l’Italia, cui tenne dietro una fase di decadenza, ancora non esaurita quando le Historiae furono concluse. È possibile che Giovio dovesse tale dialettica (pace/turbamento della pace) al De bello italico di Bernardo Rucellai. Uno schema, comunque, non esclusivo di Giovio (si pensi, per es., ad Alessandro Benedetti e a Girolamo Borgia). Il solo Francesco Guicciardini distingue l’inizio (1494) delle ostilità e la data della rottura dell’equilibrio (1492), fornendo un’immagine della pace come il precario elidersi di tensioni preesistenti, che la morte del Magnifico avrebbe lasciate libere di disfrenarsi.
La narrazione gioviana, nei suoi intenti, si sarebbe chiusa il 18 settembre 1544, con la pace di Crépy, a cinquant’anni esatti dalla discesa di Carlo VIII nel 1494: iniziate sotto il segno dell’interruzione della pace, le Historiae di Giovio dovevano concludersi con il ristabilimento di un equilibrio, in ossequio a un’idea di simmetria già saggiata progettando la struttura degli Elogia dei letterati. Ma essa si rivelò una pace scritta sull’acqua, e così un breve riassunto, a quanto pare aggiunto al (o poco prima del) tempo della pubblicazione, le fece giungere fino alle morti di Enrico VIII e di Francesco I nel 1547, giungendo a menzionare la battaglia di Mühlberg (24 aprile 1547).
Fino a pochi decenni fa, la valutazione corrente delle Historiae escludeva proprio quei tratti che valsero a Giovio l’ammirazione dei contemporanei: l’ampiezza realmente europea degli orizzonti storici, con la percezione vivissima dell’interrelazione tra il mondo continentale e il ‘fuori’ (Medio o Vicino Oriente oppure Nuove Indie), la robusta architettura mutuata dalla storiografia antica e l’acume metodologico.
Alla svolta storiografica della prima metà del Cinquecento in Italia, prescindendo dalla veste latina, appartenne a pieno titolo anche Giovio, con una singolarità: tra i grandi storici del Cinquecento italiano, egli ha assimilato più degli altri la lezione della tradizione greca. La linea Tucidide-Polibio-Luciano è nel Giovio delle Historiae metodologicamente centrale: ciascuno per parte sua e non senza tensioni concettuali. Probabilmente i debiti più vistosi con Tucidide sono l’utilizzo, con finalità espressive, delle sincronizzazioni di eventi diversi spazialmente separati e l’uso delle testimonianze oculari. Quanto a queste ultime, il loro ruolo in Tucidide è ben noto, ma il confronto rivela che Giovio le aveva fatte evolvere a un livello raffinatissimo, sviluppando una metodica dell’intervista che imbarazzò più di un interlocutore. Giovio era in grado di accedere direttamente al testo tucidideo diversamente da Niccolò Machiavelli, negli scritti del quale, peraltro, Tucidide è stato riusato per analogia storica più che incorporandone l’impianto metodologico. Alla radice della congenialità con l’opera tucididea vi era forse l’educazione medico-naturalistica di Giovio, la sua dimestichezza con collaudate metodiche di inferenze diagnostiche.
Polibiana nelle Historiae di Giovio è già, di per sé, l’idea di storia universale, che egli declina entro i nuovi orizzonti spaziali tracciati dalle recenti esplorazioni nel Vicino Oriente e nel Nord Africa e dalle navigazioni transoceaniche: come le leggiamo, esse dunque sono il frutto di un allargamento delle aree di influenza delle potenze europee, e questo comportava una nuova concezione delle interrelazioni territoriali al di là e al di qua delle tradizionali frontiere europee. Giovio attinse a Tucidide non solo direttamente, ma anche attraverso la mediazione del De conscribenda historia di Luciano, un breve scritto di teoria della storiografia che Giovio a più riprese cita, parafrasa, utilizza in chiave apologetica. Da Tucidide, attraverso la mediazione lucianea, egli deriva la nozione della necessità, ma insieme anche della difficoltà, dell’accertamento ‘oggettivo’ dei fatti, l’idea che l’oggettività della storia non è spontaneamente data, ma frutto dell’attiva e laboriosa indagine dello storico. Di nuovo attraverso la mediazione lucianea, Giovio attinge al canone di Tucidide quando fa propria l’idea che i requisiti essenziali dello storico siano ‘intelligenza politica’ e ‘capacità espressiva’, che nel Dialogus ritraduce nel suo lessico come prudentia ed eloquentia.
Per i testi di Paolo Giovio si rinvia ai volumi dell’Edizione nazionale delle opere, iniziata nel 1956 con il 1° vol. delle Lettere (1514-1544), a cura di G.G. Ferrero, e di cui sono stati finora pubblicati 8 degli 11 volumi previsti. Per le edizioni di singole opere si vedano:
Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di M.L. Doglio, Roma 1978.
Scritti d’arte. Lessico ed ecfrasi, a cura di S. Maffei, Pisa 1999.
Commentario de le cose de’ Turchi, a cura di L. Michelacci, Bologna 2005.
Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, Torino 2006.
La descrizione del Lario, a cura di F. Minonzio, Milano 2007.
Il Consiglio di Monsignor Giovio intorno al modo di far l’impresa contra infideli, secondo le consulte fatte da papa Leone Decimo, a cura di E. Pujeau, «Studi veneziani», nuova serie, 2010, 61, pp. 383-408.
Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minonzio, 2 voll., Torino 2011.
E. Raimondi, Machiavelli, Giovio e Aristofane, in Id., Politica e commedia, Bologna 1972, pp. 235-58.
C. Dionisotti, Machiavelli e il Giovio, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 411-44.
P. Zimmermann, Francesco Guicciardini and Paolo Giovio, «Annali d’italianistica», 1984, 2, pp. 34-52.
G. Folena, L’espressionismo epistolare di Paolo Giovio, in L’espressivismo linguistico nella letteratura italiana, Atti dei convegni lincei, Roma (16-18 gennaio 1984), Roma 1985, pp. 121-59.
T.C.P. Zimmermann, Paolo Giovio. The historian and the crisis of sixteenth-century Italy, Princeton 1995.
T.C.P. Zimmermann, Giovio Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 56° vol., Roma 2001, ad vocem.
F. Minonzio, Studi gioviani. Scienza, filosofia e letteratura nell’opera di Paolo Giovio, 2 voll., Como 2002.
F. Minonzio, Il Museo di Paolo Giovio e la galleria degli uomini illustri, in Testi, immagini e filologia nel XVI secolo, Atti della giornata di studio, Pisa (30 settembre-1° ottobre 2004), a cura di E. Carrara, S. Ginzburg, Pisa 2007, pp. 75-144.
F. Minonzio, «Con l’appendice di molti eccellenti poeti». Gli epitaffi degli “Elogia” degli uomini d’arme di Paolo Giovio, Milano-Lecco 2012.
I rapporti di Giovio con Leandro Alberti (Bologna 1479-forse ivi 1552) sono stati oggetti di rilettura recente. L’autore della Descrittione di tutta Italia, avviata intorno al 1530, domenicano, divenuto inquisitore nel 1544, fu in gioventù tra i collaboratori di Giovanfrancesco Pico, e volgarizzò (1524) l’infame libretto Strix con il quale il principe filosofo difendeva le sbrigative condanne a morte comminate a Mirandola negli anni 1522-23. L’esame di una lettera di Giovio (1543, con quella sua tagliente e icastica definizione di Alberti, «dolce cosmografo e brusco inquisitore, leccardo del arrosto di carne umana») e della sottile rete di allusioni che vi affiora, mostra che Giovio era al corrente dei fatti di Mirandola e del ruolo in essi svolto da Alberti; inoltre, l’espressione «dolce cosmografo» rivela contezza non solo della gestazione di un’opera come la Descrittione, la cui pubblicazione avverrà solo nel 1550, ma anche dei rapporti di Alberti con la cerchia di Alessandro Manzoli, nella quale non mancavano spiriti forti, dalle evidenti tinte erasmiane. Gli interessi corografici di Giovio, sfociati nelle Descriptiones, dovettero propiziare tra di loro una circolazione di testi: lo provano due citazioni del Larius, ancora inedito, nella Descrittione. Ma mentre nella chorographia di Giovio le vicende degli uomini sono il fuoco dell’ellisse anche quando si descrive un territorio, nella corographia di Alberti il territorio è al centro anche quando egli ‘destratifica’ la vicenda civile di un insediamento urbano.
Plurime e iterate furono invece le intersezioni biografiche tra Girolamo Borgia e Giovio. Nato nel 1479 a Senise, da famiglia filoaragonese, allievo di Giovanni Pontano, giovane precettore di Francesco Ferdinando d’Avalos, prese parte nel 1503 alla guerra tra francesi e spagnoli, entrando al servizio di Bartolomeo d’Alviano, che seguì in Veneto. Membro del cenacolo intellettuale promosso da questi, nel quale spiccava Marco Musuro, dopo Agnadello Girolamo tornò a Napoli, ove si legò nuovamente alla famiglia d’Avalos e, dopo un breve soggiorno romano, alla famiglia Farnese. A Napoli rimase in stretto legame con la cerchia ischitana raccolta intorno a Vittoria Colonna, ma anche in rapporto d’amicizia con Paolo III Farnese, cui nel 1544 dedicò il manoscritto delle Historiae, venendo compensato con il vescovado di Massalubrense. Morì nel 1550, forse a Napoli.
Tuttora inedite, le Historiae di Borgia sono tramandate da due manoscritti che si integrano, con parziale sovrapposizione: un codice della Biblioteca Marciana di Venezia (libri I-XII, XVI-XVIII) e uno della Biblioteca Apostolica Vaticana (libri XIII-XXI). Scritte in latino, coprono il medesimo arco temporale delle Historiae gioviane, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494 alla battaglia di Mühlberg nel 1547. Tra le due opere sono state individuate incontestabili tangenze, anche se entrambe richiederebbero un’indagine che le inscriva entro una più larga circolazione di testi tra storici legati da relazioni personali: ne è prova la guicciardiniana Storia d’Italia, nel tessuto della quale è stato ipotizzato il riuso di materiali gioviani e sono presenti estratti borgiani (del pari, dichiarata è la rielaborazione, nelle Historiae di Borgia, del De bello italico di Bernardo Rucellai). Appare, dunque, prematura la tesi che Giovio abbia utilizzato (seppur limitatamente all’impresa di Tunisi) le Historiae di Borgia. Nel valutare l’ipotetica mutuazione gioviana occorre considerare il ben noto ruolo di Giovio nella ripresa dell’attività storiografica di Borgia nel 1535, e l’accesso, a quest’ultimo consentito, al libro gioviano, allora iniziato, sull’impresa di Tunisi. Nulla prova il fatto che Borgia abbia concluso la propria opera prima di Giovio. Semmai, di una larga accessibilità dei manoscritti gioviani a Borgia potrebbero essere indizio aspetti delle Historiae de bellis italicis che trovano sorprendente consonanza con il gioviano Dialogus, composto a Ischia negli anni 1528-1529, ma rimasto ‘cantiere aperto’ per almeno un decennio.