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GIOVIO, Paolo

di Fausto Nicolini - Enciclopedia Italiana (1933)
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GIOVIO, Paolo

Fausto Nicolini

Storico, nato a Como il 19 aprile 1483, morto a Firenze il 10 dicembre 1552. Fratello minore di Benedetto (storiografo di Como). Studiò a Pavia e poi a Padova col Pomponazzi. Esercitò per qualche tempo la medicina in patria, ma ben presto dalla sua inclinazione di osservatore di uomini e cose, nonché di raccoglitore e collezionista, fu tratto a girare l'Italia e talora l'Europa. Nel 1509 fu presente alla battaglia d'Agnadello; circa il 1513 si recò a Roma, dove fu bene accolto da Leone X; nel 1519 accompagnò Giulio de' Medici (il futuro Clemente VII) a Firenze; nel 1521 si trovò con le truppe pontificie e cesaree all'assedio di Como; nel 1522 era a Roma, donde Adriano VI lo mandò a Mantova per una missione: tornato a Roma, divenne favorito di Clemente VII, che assistette durante il sacco del 1527 e la chiusura in Castel Sant'Angelo e da cui nel 1528 fu nominato vescovo di Nocera dei Pagani; durante la spedizione del Lautrec era a Ischia, donde fu testimone delle battaglie navali; nel 1529 con Ippolito de' Medici andò a Bologna per l'incoronazione di Carlo V; nel 1532 compì un viaggio in Germania; nello stesso anno tornò a Bologna, donde s'avviò a Roma con Clemente VII, che nel 1533 seguì a Marsiglia; assisté al matrimonio di Caterina de' Medici col futuro Enrico II di Francia e ricevette una pensione da Francesco I; nel 1535 fu a Napoli, ove ammirò il trionfo di Carlo V, reduce dall'impresa tunisina; nel 1536, dopo viaggi a Parma, Siena, Firenze e Pisa (presso Alessandro de' Medici), cominciò a costruire a Como, sulla riva del Lario, il bel palazzo, ricco di giardini e di affreschi (particolarmente del suo amico Vasari, ch'egli incitò e aiutò a scrivere le Vite degli artisti) e destinato a contenere il suo famoso Museo, a cui concorsero sovrani, prelati e uomini insigni d'ogni parte d'Europa col dono di ritratti, cammei, rarità e curiosità d'ogni sorta e d'ogni paese (anche del nuovo mondo); nel 1538 accompagnò Paolo III a Nizza e andò a Villeneuve in Provenza per vedere Francesco I; nel 1541 era a Milano per le feste a Carlo V; nel 1551 si trasferì a Firenze, accolto dal suo amico e protettore Cosimo I.

Raramente in italiano, molto più spesso nel suo "latino d'oro", quasi sempre volgarizzato poi da Lodovico Domenichi, scrisse, tra molte altre opere, queste più famose: i Commentari delle cose de' Turchi (Venezia 1531), riedite in latino (Wittenberg 1537) col titolo De rebus gestis et vitis imperatorum Turcarum, da Osman a Solimano II; molte Vitae, talune pubblicate isolatamente, talune raccolte nel 1549 a Firenze, e tutte poi in Opera omnia (Basilea 1578), cioè quelle dei dodici Visconti di Milano, fino a Filippo Maria, che nella prima edizione (Parigi 1549) sono accompagnate da eccellenti ritratti, e quelle di Alfonso d'Este, del Gran Capitano, del marchese di Pescara (queste due ultime edite, nella versione del Domenichi, da C. Panigada, Bari 1931), di Leone X, di Adriano VI e del card. Pompeo Colonna; due serie di Elogia: quelli virorum bellica virtute illustrium e quelli virorum literis illustrium quotquot vel nostra vel avorum memoria vixere, gli uni e gli altri destinati originariamente a servire da testi esplicativi ai ritratti del Museo anzidetto, ma pubblicati primamente (Firenze 1548) senza illustrazioni grafiche, e soltanto nelle edizioni postume di Basilea (1575 e 1577) corredati di pessime incisioni in legno; e, opera sua maggiore, che lo occupò oltre trent'anni (fino al 1549), gli Historiarum sui temporis libri XLV (1ª ediz., Firenze 1550-2), dalla spedizione di Carlo VIII al 1547, dei quali libri, peraltro, i primi dieci non furono mai scritti (che i primi sei andassero perduti nel sacco di Roma sembra una storiella messa in giro dal G. medesimo, desideroso che l'opera sua, per la quale compilò egli stesso periochae, somigliasse, anche per la frammentarietà, a quella liviana). Da questo complesso di lavori, che gli assicurano un posto di prim'ordine nella storiografia italiana del Rinascimento, appare che egli, curioso esclusivamente della storia militare e di quella dell'eloquenza o della letteratura e cultura in genere, e pago di raccontare con artistica vivacità i fatti di cui veniva a conoscenza mercé una larghissima informazione, non ebbe altri interessamenti e altre attitudini; e, p. es., non si travagliò a formarsi un sistema politico; curò così poco di studiare le istituzioni, i loro congegni e il loro modo di operare da non conoscere nemmeno gli ordinamenti della repubblica fiorentina; si contentò di lamentare, rassegnato, la perduta indipendenza d'Italia e di esortare i principi cristiani, smesse le loro lotte reciproche, a movere concordi contro i Turchi e via enumerando. E certamente anch'egli, come tanti storici di quei tempi, attese e sollecitò pensioni e doni; evitò racconti scandalosi, che gli avrebbero attirato vendette; s'avvalse della sua consumata perizia di latinista per accentuare nelle Vitae e negli Elogia (ma non nelle Historiae) pregi e virtù degli elogiati e attenuare difetti e vizî; e, malgrado la sua accuratezza, cadde in errori di fatto. Ma da ciò alle accuse di dilettantismo giornalistico, di malafede, di venalità, di adulazione e, peggio, di ricatti, corre non poco. Tanto più che siffatte accuse, formulate quasi tutte fin dai suoi tempi, segnatamente da storici che valevano meno di lui e si avvalsero parecchio delle sue fatiche (B. Varchi, B. Segni, ecc.), non hanno altro fondamento che un'interpretazione errata per soverchia letteralità di brani scherzosi delle sue lettere private (raccolte e pubblicate nel 1605 dal Domenichi). Anzi da un esame critico delle sue opere è risultato, p. es., che per lo meno fino al 1530 nessuna alterazione di fatti si riscontra nei racconti gioviani; che nelle Vitae del Gran Capitano e del marchese di Pescara egli è meglio informato dei cronisti spagnoli; che anche nelle Vitae dei suoi mecenati e stipendiatori seppe dire loro talvolta amare verità (la Vita di Adriano VI è giudicata dal Pastor addirittura una satira); e che perfino nei riguardi di Carlo V non esitò a porre in rilievo, pur essendo l'imperatore ancora vivo, quanto gli Spagnoli si sentissero oppressi dalla presenza di quel monarca e quanto desiderassero di vederlo da loro lontano.

Bibl.: Tiraboschi, in appendice alla St. d. lett. ital. (frammenti di scritti inediti del G.); G. B. Giovio, Elogio di mons. P. G. il seniore, in Elogi italini di A. Rubbi, VIII, Venezia 1783, pp. 1-124; L. v. Ranke, Gesch. d. rom. u. germ. Völker von 1494 bis 1514, 3ª ed., Lipsia 1885, pp. 70-8; A. Luzio, Lett. ined. di P. G., Mantova 1885; V. Cian, Gioviana, in Giorn. stor. d. lett. it., XVII (1891), pp. 277-357; F. Fossati, Il museo gioviano e I ritratti del mus. giov., in Rassegna italiana del 1892 e 1893; L. Pastor, Storia dei papi, trad. ital., IV, Roma 1930; M. Lupo-Gentile, Studi sulla storiogr. fior. alla corte di Cosimo I de' Medici, in Atti della R. Sc. norm. di Pisa, XIX (1906), pp. 47-60 e passim; A. Morel-Fatio, Historiograph. d. Charles V, Parigi 1913, pp. 121-22; E. Fueter, Hist. d. l'historiogr. moderne, trad. franc., Parigi 1914, pp. 60-66 e passim; F. Nicolini, La storia dell'arte napol. del Rinascimento, ecc., Napoli 1925, pp. 56-57; L. Ravelli, L'opera storica e artistica di P. G., Como 1928; F. Scolari, L'assedio di Firenze, F. Ferruccio e il nostro storico P. G., Como 1930; C. Panigada, nella sua edizione citata; B. Croce, Conversazioni critiche, s. 3ª, Bari 1932, pp. 296-308.

Vedi anche
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