FERRARI, Paolo
Nacque a Modena il 5 apr. 1822 da Sigismondo, ufficiale estense, e da Elisabetta Palmieri. Dopo che il padre fu nominato comandante del battaglione scelto dei Cacciatori del Frignano, si trasferi a Paullo (Reggio Emilia), e nel 1831 a Pievepalago (Modena), dove attese ai primi studi sotto la guida del parroco. Due anni dopo, passato il padre al comando delle truppe e dei forti del Massese e trasferitosi a Massa, il F: seguì gli studi liceali presso i barnabiti di quella città. Iscrittosi poi al collegio legale dell'ateneo modenese, si distinse, quale autore di versi satirici e di scenette dialogate, in un settimanale manoscritto dal titolo IlPrivato. Non ammesso all'esame di laurea, la benevolenza di Francesco IV, sollecitata dal padre, gli ottenne "per grazia" la laurea ad honorem in giurisprudenza il 19 luglio 1843.
Nel successivo mese d'agosto il F. tornò a Massa per dedicarsi alla pratica civile e criminale, non trascurando però la vita mondana, né gli interessi letterari e teatrali: venne eletto membro dell'Accademia dei Rinnovati (filarmonica e filodrammatica), dove lesse Plauto e Terenzio, Walter Scott e Ipromessi sposi di Alessandro Manzoni. Nel 1845 sposava la ventiduenne Ersilia Bianchini, dalla quale avrà sette figli.
Nel 1848 si trasferì a Modena, ove entrò nella guardia civica che Francesco V era stato costretto a istituire; fu poi "sergente dei cannonieri" e "ufficiale della Guardia Nazionale" sotto il governo provvisorio nato dopo la fuga del duca. Tornato a Modena, Francesco V emanò un proclarna con cui amnistiò i ribelli, fatta eccezione per i "capi e promotori, ai quali lascia il tempo di allontanarsi" ; il F. si rifugiò allora tra i monti sopra Vignola. Qui, senza moglie e senza figli, è dominato "dalla smania di scriver commedie", e qui scrisse infatti i suoi primi lavori: Un ballo in provincia (che, dopo varie e complicate trasformazioni, uscirà nel 1869 con il nome Roberto Vighlius), Un'anima debole, e i due atti in dialetto massese Baltromeo calzolaro (1847). Dopo qualche mese tornò a Modena, ove compose Un'anima forte, "uno di quei lavori saturi di politica che non si sarebbero potuti recitare, volendolo pure, tranne in Piemonte" (V. Ferrari). Il dramma, che nel 1863 diventerà romanzo col titolo di Artista e cospiratore (appendici del Pungolo, Napoli e Milano), avrà stesura definitiva solo nel 1865 col titolo di Vecchie storie ovvero Carbonari e sanfedisti.
Nel 1850 aveva perso la madre: il dolore gli ispirò Scetticismo ovvero Il quinto lustro della vita (destinato a trasformarsi nel 1864 in La donna e lo scettico, infelice dramma in versi martelliani portato in scena da Adelaide Ristori). Lontano dai pubblici impieghi, unico sostentamento per la famiglia erano le sue lezioni private, quattro o cinque ore al giorno. Un amico gli suggerì di leggere i Mémoires di C. Goldoni e di usarli come fonte, e combattere così la scuola romantica d'Oltralpe nel nome di spiriti teatral-nazionali. Il F. seguì i consigli e scrisse Goldonie le sue sedici commedie nuove, deliberando che "il protagonista vero e logico della commedia [fosse] la commedia italiana": "tela" e dialogo erano conclusi nel 1851.
Liberamente ispirato alle vicende goldoniane (il successo della Vedova scaltra, la rivalità di P. Chiari - che fondendosi con C. Gozzi dà vita al personaggio di Zigo -, il fiasco dell'Eredefortunata e la promessa-sfida di scrivere sedici commedie nuove in un anno), il lavoro del F. svolge la sua trama fra salotto, teatro e bottega del caffè: vi compaiono Medebach con la moglie, le amorose della compagnia, il suggeritore, Goldoni e Nicoletta, due nobili spagnoli - padre e figlio - aspiranti alle grazie della moglie di Goldoni, il signor Marzio, il patrizio Grimani che - al di sopra delle parti - si riserva il ruolo di saggio commentatore degli eventi. La commedia era vivace, le battute agili, si da conferire all'insieme un gradevole ritmo. Attingendo a una materia teatralmente preordinata, il F. riusciva a dare spontaneità e garbata coloritura alle ciarle e ai puntigli delle donne, alle smanie di un suggeritore che si crede tradito, alle calunnie del signor Marzio, alla galanteria stolida dei due spagnoli e alla composta onestà di Nicoletta. Ma non si limitava ad osservare e ad appropriarsi dei mondo goldoniano: si serviva di quella materia per esprimere la propria poetica e la propria fiducia nel teatro come luogo deputato alla correzione dei costumi.
Ammaestrare dunque e dilettare prendendo ad argomento l'attualità: era stata la poetica di Goldoni, ed era fin d'ora la poetica teatrale del F., che sarà ribadita con una scherzo comico in un atto del 1857, curiosa e gustosa espressione di "metateatro", dove basta il titolo a rivelare il contenuto: Persuadere, convincere, commuovere;col teatro, naturalmente.
Goldoni e le sue sedici commedie nuove fu premiato a un concorso indetto dal Ginnasio drammatico di Firenze, dove il direttore Filippo Berti s'adoperava a "non lasciare il teatro in balia degli istrioni o in balia dei dilettanti peggiori anche di essi". Il premio era di 30 zecchini, e tanti ce ne vollero per andarlo a ritirare; la commedia fu messa in scena dalla Società filodrammatica di Modena l'8 apr. 1853.
Per la stessa compagnia il F. aveva scritto, in dialetto modenese, La sgnara Zvana e al signor Zemian (1851; tradotta in italiano e ricomposta in martelliani diventerà, nel 1868, l'Attrice cameriera) e La butega del caplèr (1852), scherzo comico facile facile svolto sul vecchio tema del travestimento e sui casi che ne derivano.
Nessuno riconosce il garzone di Bortolo quando questi si presenta a bottega sotto le spoglie d'un contadino appena tornato dal collegio; nessuno, salvo la sua morosa. Una burla che ha lo scopo di mettere alla prova la fedeltà inuliebre, la quale per altro non cede; iI lieto fine corona la commediolina, illuminata, nella sua genericità, da qualche lampo di realismo inteso a precisarne i contorni ambientali.Né dalla tradizione s'allontanerà il F. nel terzo dei suoi lavori in modenese: quella celebratissima Medseina d'ònna ragazza amalèda (1859) che riprendeva il vecchio tema della ragazza malata d'amore.
Filomena deve accontentarsi d'una lettera d'addio: il padre del suo innamorato vieta al figlio di continuare la relazione con lei, e lei muore di magone. Ma non sono i travestimenti o i raggiri dei servo, questa volta, a risolvere il caso: alle nozze si arriva grazie alla mediazione dei buoni sentimenti e della generosità, chiassosa ma positiva, del padre di Filomena. I vecchi, nella gustosa operina del F., possono si divertire, ma senza allontanarsi da una precisa serietà di fondo; e così dev'essere se sono loro, come sono, i custodi dei sani principi, morali ed economici, su cui solo può nascere e reggersi una famiglia onorata.
Il F. aveva dunque ricondotto il pubblico, come scriveva l'Indicatore modenese del 18 dic. 1852, "alla buona scuola della commedia italiana, alla scuola della verità. Non pugnali, non veleni, non genii incompresi, non donne superiori, ma avvenimenti naturali e caratteri quali, con attenta osservazione, potremmo facilmente trovare nella nostra Società".
Il successo non arrise subito al F. (i maggiori capocomici gli rifutarono il Goldoni, e il fiasco bolognese del Tartufo moderno fuclamoroso); cosi dovette continuare la vita con i proventi dell'avvocatura e delle lezioni private. Non si spegneva tuttavia la sua vena drammatica. Nel 1853 aveva pronto il Dante a Verona, che, inviato al concorso di Torino, non venne giudicato degno della prova scenica (sarà pubblicato soltanto nel 1862, sull'Almanacco del Pungolo).
Il F. sperava che da questo "lavoro colossale storico" (cui era stato di aiuto il dantista P. Fraticelli) derivasse finalmente la sua "vera e solida rinomanza" ; ma il Dante èsoltanto un dramma prolisso, nel quale anche la grandezza morale del vate finisce per impallidire e disperdersi.
Il Parini e la satira, cominciato intorno al 1854 e quarta commedia storica del F. (tra questa e il Goldoni c'era stata La poltrona storica, poco fortunata drammatizzazione di un episodio della vita di V. Alfieri), fu concluso soltanto due anni dopo; nel frattempo il F. era colpito da una malattia agli occhi che lo portò alla quasi cecità. Durante questi tristissimi gjorni dettava La scuola degli innamorati, una commedia alla Goldoni che, fischiata a Venezia, fu rappresentata a Roma con grande successo. Ne derivò l'iscrizione del F. in qualità di socio onorario all'Accademia filodrammatica romana che, in consonanza con la poetica del F., aveva "per iscopo di concorrere mediante la recita di morali produzioni ad infondere possibilmente alti elementi di virtù ed a correggere i costumi".
Il 13 luglio 1859 scoppiò la rivoluzione in Modena. Alla testa di mille insorti il F. si recava al palazzo municipale e proclamava, con la decadenza degli Austro-Estensi, l'annessione del Ducato al Regno di Sardegna. Non prese parte, però, al governo provvisorio e si limitò a svolgervi le funzioni di segretario; portò poi a termine il negoziato che, per volontà piemontese, trasferiva il potere al commissario dei re di Sardegna. Ne segui l'annessione al Regno, mentre il F. da direttore della Gazzetta ufficiale diventava segretario della università di Modena. Nell'autunno del 1861 un decreto di T. Mamiani lo chiamò a Milano, professore di storia presso l'Accademia scientifico-letteraria; accettò, non prima d'aver dedicato un sonetto a Vittorio Emanuele II ("Re Vittorio soldato ed italiano / Fidente Italia al cenno tuo risponde ...") e d'essere nominato cavaliere dal governo.
Durante il soggiorno milanese, che dal 1861 durò fino alla morte, il F. divise il proprio tempo fra Nnsegnamento, l'attività di civico amministratore, la produzione teatrale, l'impegno di giornalista (al Pungolo, alla Perseveranza, al Sole, dove fu "appendicista letterario", alla Palestra letteraria).
Intanto, "tratto dalla polvere" il Tartufo moderno, ne aveva ricomposto tutto il dialogo" e "fattane una commedia in cinque atti" l'aveva intitolata Prosa (1858). Era il primo di quei lavori comunemente definiti drammi a tesi.
Camillo, poeta il cui nome "è caro all'Italia come una gloria nascente ed una splendida speranza", s'è ammogliato; ma la famiglia gli pare "prosa", capace solo di tarpargli le ali e di impedirgli ogni possibilità di "vita varia, libera, indipendente, procellosa". Ed eccolo allora cercare la poesia nella scostumatezza, in amori disordinati e irregolari, contrari all'ordine morale e civile. Ma la conclusione, dopo tante vicende e tante parole, è ormai prevedibile: Camillo torna alla famiglia, essendosi avveduto che quella che reputava poesia, in realtà non è che prosa, "prosaccia", e la poesia vera risiede soltanto nella gioia del focolare domestico.
Si faceva via via più chiara l'ideologia del F., quale possiamo estrarre dalle tesi del suo teatro: evitare in tutti i modi lo scandalo e seguire moderatamente i principi sani della società in cui viviamo; distinguere i pregiudizi tra quelli che sono volgari e quelli umani. Il F., indubbiamente, portò un certo ordine nei temi e nei modi della corrente drammaturgia di derivazione francese, ma le strutture restavano le stesse, non tanto realiste quanto piuttosto romanzesche e melodrammatiche, e analoghi erano gli espedienti teatrali: narrazioni di lunghi antefatti, colpi di scena, scene madri, coincidenze, sorprese, agnizioni, tirate enfatiche e abbandoni più che patetici.
Il teatro del F. si staccava tuttavia dai modelli francesi per il modo in cui venivano "accostati" i pregipdizi sociali. Il teatro francese li denunciava e si proponeva di sradicarli; quello del F. li tollerava e li assolveva, riconoscendo loro "una funzione moderatrice e quasi correttrice" (Sanesi), si che persino l'amico suo Leone Fortis poté scrivere che "la fisima del Ferrari è di dar sempre ragione alla società; specialmente quando ha torto".
Il F. dà ragione ai pregiudizi correnti in Marianna (1862), quando vuole che ci si adegui a principi come questo: "A per mio fratello questione di alto sentimento di dignità! Egli non sormonterà mai l'idea che il mondo potesse dire: il conte Loreni per giungere ad una fanciulla non si vergognò di servirsi dell'ascendente del proprio fratello sull'anima della madre". In altre parole: Carlo non potrà mai sposare, contro l'opinione comune, la figlia di una donna che continui ad essere - vera o presunta - l'amante del fratello. Quando il fratello si allontanerà, allora cadranno, con le censure, gli ostacoli al lieto fine.
Nel Ridicolo (1872), che è quello cui va soggetto il marito tradito dalla moglie, la tesi è tutta raccolta nella tirata di Federico (atto V, scena I), il quale si avventa con parole feroci contro coloro che seguono "la maledetta moda di fare il processo alla Società..., questa povera diavola della società che colla sua esperienza di settanta secoli trova degli espedienti per tenere un po' in freno questa razza di matti". E teniamo conto che una cantante, per onesta che sia, non può mai cancellare del tutto, agli occhi del mondo, il proprio passato. Quanto al ridicolo, questo è un sano pregiudizio se è vero, come par vero al F., che ci aiuta ad essere più solerti nella custodia del nostro onore e dell'onestà delle nostre mogli.
Tutti i drammi a tesi del F. sono dunque informati, come vuole il figlio Vittorio, "a questa austera morale civile e domestica". In La donna e lo scettico l'autore sostiene la tesi secondo la quale a combattere il freddo scetticismo e l'arido dubbio non può esservi nulla di meglio che la donna, "etere che solo alloppia e assonna / il demonio del dubbio" (il dramma è in versi martelliani).
In Cause ed effetti (1871) la duchessina Anna Castellieri-Estense sposa il marchesino Ermanno Olivaria-Gonzaga: "due bei nomi, due belle sostanze, due belle persone". Ma l'apparenza inganna. Il matrimonio non sarà felice, perché le passate avventure del marchese non si cancellano.
La donna colpevole non si riscatta. Rosalia, nelle Due dame (1878), siconsacra all'educazione dei figli, li tiene lontani dalla verità: che non sappiano della sua vita passata (forzatamente disonesta) e che possano ancora voler bene a una madre così. Ma accade che il figlio le chieda un giorno di potere sposare una donna perduta. Rosalia si oppone: il pericolo va respinto; e, per rendere più persuasivo il proprio rifiuto, confessa: "A quindici anni, a Londra, tua madre era ... quello che è la signorina". Il figlio ammira la madre e scaccia la ragazza: solo la madre si salva ai suoi occhi. Ancora una volta i pregiudizi del mondo, per il F. sono dalla parte della ragione: Rosalia non è quindi la regola, ma un'eccezione soltanto; per regola, quando "il vizio mascherato di provvisoria penitenza penetra nelle famiglie onorate, sono i disastri morali, economici; è il disonore, e quando non è - terribile precauzione della natura - quando non è la sterilità, sono i figli malsani d'anima e di corpo! d'animo specialmente".
Moderato e galantuomo nella vita e nelle idee, al F. mancò troppo spesso, in particolare nei drammi a tesi, la misura dell'arte. La plateale retorica delle scene forti nuoceva del tutto allo spessore psicologico dei personaggi e alla loro verità, li schematizzava, li faceva portavoce di idee acquisite più che sofferte. Il meccanismo teatrale funzionava ma l'opera restava appunto nell'ambito dei meccanismo, delle convenzioni risapute, dei luoghi comuni. Accade la stessa cosa, se pur in grado più temperato, nella gustosa commedia di Tutti al campo (storia attuale: 1866). Anche qui, nella profusione di tanto patriottismo, gli schemi del gioco scenico sono troppo evidenti, e la teatralità condiziona negativamente il contenuto, sottraendolo ad ogni autentica tensione emotiva.
Ai drammi a tesi il F. alternò lavori storici (Roberto Vinglius, farraginosa rievocazione di casi rinascimentali, è degli anni 1869-70; FulvioTesti, l'ultima sua opera, è del 1888) e commedie brillanti d'ispirazione goldoniana.
Una di queste è Amore senza stima (1868), dove il F. si propose di apportare "tenuissime modificazioni" alla Moglie saggia di Goldoni. Colpito dalla modernità dell'originale (e forse più dalla componente romanzesca del III atto) rese esplicito quanto nel testo di Goldoni è poeticamente sottinteso (il contrasto sociale, ad esempio, tra marito e moglie, la quale nella commedia del F. non è più borghese ma contadina), e non resiste alla tentazione della tirata. A però vero che, felicemente condizionato dalle lezione goldoniana, questo copione risulta singolarmente rapido, misurato, bastamente scaltro nel mescolare arguzia e dramma, seguendo con garbo, per i primi tre atti almeno, la via della naturalezza.
Degli stessi anni fu anche la rielaborazione in lingua del giovanile Baltromeo calzolaro, che prese il titolo de Il codicillo dizio Venanzio (1865).
Dal 1880 la produzione drammatica del F. si fece più rada. Compose quattro commediole per l'attrice bambina Gemma Cuniberti (Mario e Maria, Antonietta in collegio, Giovanni Pico della Mirandola, Giorgetta cieca), tradusse alcuni testi (False famiglie da Les faux ménages di E. Pailleron, I Fourchambault da H. Augier e il Positivo dall'omonimo lavoro spagnolo di S. Estébanez), scrisse qualche dramma che vide rappresentato con scarso successo (Un giovane ufficiale, Il signor Lorenzo, La separazione).
Riprese con entusiasmo il lavoro nel 1888 quando rielaborò Fulvio Testi, un'opera cominciata dieci anni prima, e lo fece rappresentare a Milano il 1º dicembre di quell'anno. FulvioTesti era un ritorno all'ispirazione iniziale: storia e commedia. In occasione del brindisi di un banchetto d'onore, tenuto il 12 dicembre, F. Cavallotti dirà che il F. aveva riannodato, "come in un nesso simbolico di tutta una vita e di tutta un'arte, l'ultima opera al sorriso della prima, confondendo come nella festa di un bacio la gaiezza del Fulvio Testi alla giovanile festività del Goldoni". Accolta con successo a Milano (10 dic. 1888), passò quindi a Venezia, e a Roma (3 genn. 1889). Il F. comunicava al figlio la propria gioia: "... non lascerò ai miei figli altra eredità che la mia memoria, ma non lascerò nemmeno debiti".
Il F. morì a Milano il 9 marzo 1889.
Oltre alle opere citate, si ricordano Ilcollegiale emigrato (1849, inedito), Dolcezza e rigore (1863;ed. Milano 1868), Il poltrone (1865), Gli uomini seri (1868), Il lion in ritiro (1873). Il cantoniere (1873), Amici e rivali (1874), Il suicidio (1875), Il perdono ossia Il delirio (1877), Per vendetta (1879), Alberto Pergalli (1880). La produzione del F. è edita in Opere drammatiche, I-XV, Milano 1877-1884.
Fonti e Bibl.: L. Fortis, P. F., ricordi e note, Milano 1889; V. Ferrari, P. F., La vita il teatro, Milano 1899;B. Croce, P. F. (1905), in La letteratura della nuova Italia, Bari 1929, I, pp. 313-330;D. Valeri, L'efficacia del teatro francese sul teatro di P. F., in Rivista d'Italia, febbraio 1909, pp. 257-328; C.Levi, P. F. e la critica, in Rivista delle biblioteche e degli archivi, n. s., I (1923), 8-12, pp. 29-41; I.Sanesi, La commedia, II, Firenze 1935, pp. 547-579; S. D'Amico, Dramma sacro e Profano, Milano 1942, pp. 89-101;M. Apollonio, Storia del teatro italiano..., Firenze 1954, II, pp. 685-694;G. Pullini, Teatro italiano fra due secoli, 1850-1950, Firenze 1958, pp. 45 ss.; C. Apollonio, P. F., in Letteratura italiana - I minori, IV, Milano 1969, pp. 2807-20;R. Bigazzi, I colori del vero, Pisa 1969, pp. 78-85; S. Monti, Il teatro realista della nuova Italia, Roma 1978, pp. 96-107; Il teatro italiano, a cura di G. Davico Bonino, V, 2, Torino 1979, pp. 3-123 e 421-427;R. Jacobbi, in Teatro dell'Italia unita, Milano 1980, pp. 14 s.; G. Pullini, Il teatro italiano dell'Ottocento, Milano 1981, pp. 116 ss., 123-128; P. D. Giovanelli, La società teatrale in Italia fra Otto e Novecento, Roma 1984, I, pp. 1678; III, pp. 134 s.