Paolo Farneti
Paolo Farneti può essere considerato uno tra i primi rappresentanti italiani di una scienza politica di derivazione statunitense in un Paese in cui stentava a ottenere riconoscimento nelle università, sebbene praticata fin dall’inizio del 20° sec. da studiosi come Gaetano Mosca, Roberto Michels e Vilfredo Pareto (lo stesso Giovanni Sartori, anch’egli tra i primi fautori dello stesso indirizzo, aveva dovuto transitare su una cattedra di sociologia politica). Le sue ricerche sono state tra le primissime a proporre alla cultura italiana l’attenzione per il dato empirico raccolto alla luce di ipotesi teoriche solidamente costruite. Particolare significato ha avuto nella sua opera il progetto di intrecciare tra loro sociologia politica, storia e scienza politica.
Non si può evitare di ricostruire la vita di Paolo Farneti se non iniziando dalla sua morte, avvenuta il 14 agosto 1980, in seguito a un incidente automobilistico, mentre con la moglie e i due figli andava all’All Souls College di Oxford dove avrebbe dovuto trascorrere l’incipiente anno accademico. A 44 anni si chiudeva così tragicamente la carriera di un brillante e ancora promettente studioso che, molto più giovane di Sartori (n. 1924), avviò come lui l’inquadramento della scienza politica tra le scienze sociali.
Farneti era nato a Ferrara il 5 febbraio 1936 e dal padre, noto avvocato antifascista, apprese i primi rudimenti di quella passione civile che l’avrebbe accompagnato nella sua breve esistenza. Il ‘bagno’ nella scienza politica americana che farà negli anni Sessanta rappresenterà la componente disciplinare che ne completerà la formazione scientifica, dopo aver avuto la fortuna di usufruire del magistero intellettuale e morale di Norberto Bobbio, al quale il padre lo aveva affidato, inviandolo a studiare a Torino sotto la guida del suo antico amico di lotta antifascista.
Laureatosi in filosofia del diritto con Bobbio, con una tesi dal titolo Problemi di analisi in sociologia del diritto (1961), mostrò fin da allora sia una propensione per la dimensione metodologica e teorica degli studi giuridici, sia una spiccata sensibilità per i problemi della società (che nel suo percorso intellettuale si trasformerà progressivamente nella nozione ‒ centralissima nel suo pensiero, come vedremo ‒ di società politica). L’emergere di questa forte predisposizione lo porterà presto negli Stati Uniti, dove conseguirà nel 1968 (dopo due permanenze biennali negli USA) il PhD in sociologia, ancora sotto la guida di un altro importante sociologo che si sarebbe poi dedicato alla politologia, Juan Linz (n. 1926), professore alla Columbia University.
Tornato in Italia e succeduto nell’insegnamento di scienza politica a Bobbio nel 1971, come incaricato, Farneti insegnò questa materia fino all’anno della scomparsa (per alcuni anni accademici aveva insegnato anche, per incarico, sociologia politica). Intanto era entrato nella terna vincitrice del primo concorso a cattedra di scienza politica svoltosi in Italia, insieme ad Alberto Spreafico (1928-1991) e a Domenico Fisichella (n. 1935). A Torino, dove risiederà fino alla morte, impostò ricerche empiriche sulla classe politica italiana, raccogliendo intorno a sé giovani studenti appassionati come lui (divenuti professori a loro volta), con i quali discuterà, passo passo, tutti i suoi lavori, dando vita, sotto l’impulso di Bobbio, a un Centro studi di scienza politica che, dopo la sua scomparsa, gli verrà intitolato (e che ha avuto vita fino al 2012 sotto la direzione di Luigi Bonanate).
Autore di una notevolissima quantità di scritti (specie in considerazione della brevità della sua vita) grazie ai quali penetrerà sempre di più nei meccanismi teorici e interpretativi della vicenda della statualità italiana, Farneti restò sempre ‘fatalmente’ attratto dall’interpretazione del fascismo italiano. Fu anche eccezionale organizzatore culturale, in particolare partecipando all’ideazione e alla produzione del volume (in due tomi) Politica e società, che faceva parte della monumentale opera Il mondo contemporaneo (1979, in 10 volumi e 19 tomi) diretta da Nicola Tranfaglia.
Diversi suoi scritti restarono inediti. Vale la pena di ricordare che, a partire dal corso che aveva tenuto nel 1974 all’Università di Grenoble, aveva incominciato a riflettere su un’introduzione alla scienza politica cui iniziò a lavorare poco prima di morire e che uscirà postuma nel 1990 con il titolo Lineamenti di scienza politica grazie al recupero delle carte, per lo più manoscritte, effettutato da Fabio Armao.
La «fiducia nella ragione» (espressione usata da Farneti in una lettera a Bobbio del 16 marzo 1968) è stata la bandiera della sua appassionata vita di ricercatore; il «radicalismo della ragione» fu, invece, la cifra della sua sempre impetuosa critica della realtà politica (come appare evidente dal riferimento che Farneti fa a tale concetto nel lemma Intellettuali del citato volume Politica e società, p. 486).
Con un inevitabile schematismo e tenendo conto dell’incompiutezza della vicenda intellettuale di uno studioso scomparso a un’età nella quale si è appena raggiunta la maturità, l’opera di Farneti può essere ricondotta a tre fondamentali linee di orientamento. Il suo lavoro fu infatti sempre animato da una forte carica teorico-politica, controbilanciata dalla passione per la dimensione metodologica della ricerca e da un’inesausta curiosità interpretativa nei confronti della vicenda storico-politica (prevalentemente) italiana, senza tuttavia mai dimenticare la dimensione comparatistica che aveva appreso da Linz e da Stein Rokkan (1921-1979).
Alle tre prospettive qui suggerite (delineate già da Bobbio nella sua Introduzione a Il sistema politico italiano tra crisi e innovazione, 1984) possono preliminarmente essere ricondotti i suoi volumi principali: Lineamenti di scienza politica (1990), per la prima; Theodor Geiger e la coscienza della società industriale (1966), per la seconda; Il sistema dei partiti in Italia: 1946-1979 (1983), per la terza. Il volume Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica (1971), intermedio tra i tre filoni, può essere considerato il filo conduttore o il dato evolutivo della scienza politica così come incarnata, appassionatamente, da Farneti (come risulta, per es., dall’insieme dei suoi interventi di commentatore politico, raccolti nel Diario italiano, 1983). Ovviamente intorno a questi si colloca una quantità di altri scritti estremamente interessanti ancorché minori.
Accanto agli scritti principali, occupano un posto di assoluto rilievo le sue attività editoriali: la curatela, insieme a Bobbio e a Francesco Frassoldati, del monumentale Trattato di sociologia generale (1916) di Vilfredo Pareto (1964); il poderoso reading, Il sistema politico italiano (1973), pubblicato nella collana editoriale Problemi e prospettive che svolse un ruolo decisivo nel consolidamento degli studi politologici italiani e in cui il controllo degli autori scelti offre un taglio soggettivo, ma avanzatissimo, della disciplina; il già ricordato volume Politica e società, il cui titolo rivela una delle prevalenti intenzionalità metodologiche della sua opera: la coniugazione tra politica e società, appunto, intese come un tutto inseparabile, ancorché composto di due unità distinte:
Sia nella composizione di tensioni emergenti da un processo di accentramento e razionalizzazione della società, sia nella composizione di tensioni emergenti dall’insoddisfazione della maggioranza esclusa dal consenso di una minoranza rilevante o dall’insoddisfazione di una minoranza numerica rispetto a una maggioranza deliberante, la scienza politica come scienza delle istituzioni (ivi comprese le istituzioni che regolano e misurano il consenso) può risolvere i conflitti emergenti nella società civile (Introduzione a Politica e società, cit., pp. 4-5).
Negli scritti di nessun altro studioso è dato ritrovare (se non in termini casuali o distratti) l’espressione che è al centro del programma di ricerca di Farneti: società politica, espressione che ‒ come si vede subito ‒ riconduce sia alla scienza politica sia alla sociologia, o meglio che ricollega (questo è il dato problematicamente più suggestivo) la politica e il suo sistema interpretativo alla società civile (con tutte le specifiche caratteristiche di quest’ultima). Si potrebbe dire che ‒ muovendo Farneti dal modello hobbesiano che contrappone stato di natura e società civile ‒ quando un certo gruppo umano ha operato il passaggio dall’insostenibile condizione naturale alla soluzione pacificatrice dell’ordine politico, in quel momento si forma la società civile, sede della vita reale e in particolare di tutte le attività economiche e produttive che tengono in vita una società, unitamente a quelle istituzioni (Parlamento, governo) che regolamentano la lotta per il potere al suo interno. Lo Stato è il regno della forza (normalmente monopolizzata, à la Max Weber, l’autore certamente più ammirato da Farneti), la società civile lo è del lavoro: la società politica lo sarà dell’ideologia. La società politica conosce
il processo di emancipazione della politica, del fare politica come attività privata per fini pubblico-collettivi, dalla società civile, per un verso, e dal pubblico-statuale per l’altro verso (P. Farneti, Introduzione a Il sistema politico italiano, cit., p. 22).
L’idea di un tertium che si colloca tra società civile e apparati dello Stato è quella che secondo Farneti ci consente di collegare tra loro mondo del lavoro, del profitto, delle lotte sociali e così via, e istituzioni e apparati pubblici che, dal canto loro, si nutrono di ideologie, mobilitazioni politiche, partiti politici e governi, provenienti invece da questa «società politica». Bobbio ne indica il ruolo nella rappresentazione delle società economicamente e politicamente più avanzate nella sua Presentazione a Il sistema dei partiti in Italia: 1946-1979, sottolineando come Farneti introdusse
tra le due nozioni classiche della società civile e dello stato, la nozione di società politica, in cui comprese la sfera di formazione e di azione dei partiti politici, considerati come termini di congiunzione e di mediazione tra la prima e il secondo, come il necessario punto di passaggio, in uno stato democratico, tra la società in cui si svolgono i rapporti economici e il sistema politico che dall’azione dei partiti trae impulso e direzione per la formazione e l’esecuzione delle decisioni collettive (p. 9).
Soltanto nel suo ultimo, incompiuto, scritto, Farneti giunge a «spacchettare» una formula (quella della società politica) che ‒ va ammesso ‒ non ha avuto seguito negli studi successivi e non ha suscitato dibattiti ulteriori all’interno della disciplina. In quello scritto egli precisava che la risorsa fondamentale della società politica è la mobilitazione, che l’accesso a questa avviene tramite l’ideologia e che la legittimazione si consegue attraverso la rappresentanza (cfr. Lineamenti di scienza politica, cit., p. 88). Ma mobilitazione, ideologia e rappresentanza sono proprio tre momenti essenziali ai fini dell’analisi empirica della politica, specifica peculiarità che distingue la scienza politica, per es., dalla teoria politica o, ancora più nitidamente, dalla storia del pensiero politico. Ed è lungo queste tre dimensioni che l’intera opera di Farneti, dagli scritti giovanili fino a quelli rimasti incompiuti, si è dipanata.
Sarebbe facilissimo dimostrare quanto analisi storiografica, prevalentemente (anche se non esclusivamente) italocentrica, intervento militante e modelli interpretativi siano intrecciati nelle analisi e nelle ricerche cui Farneti diede vita, a partire da quella, finanziata dal Consiglio nazionale delle ricerche, Campi di analisi sull’élite politica italiana, e che nei suoi vari scritti ricompare sovente come la ricerca sulla classe politica italiana, cui attese dal 1970 fino, si può dire, alla sua scomparsa. I primi frutti furono riuniti nel secondo capitolo di Sistema politico e società civile e quelli più maturi, ancorché di portata analitica più limitata nell’arco cronologico, ma di impegno interpretativo ben più maturo e intenso, in Il sistema dei partiti in Italia: 1946-1979, che uscirà postumo.
In gioco era una ricostruzione storiograficamente sensibile alle dimensioni politologiche della storia dell’Italia unitaria, o meglio di quella, in sostanza, che esce dalla fase formativa compiuta con la Prima guerra mondiale, dopo la quale l’avvento del fascismo è visto da Farneti come la prova di un duplice fallimento, tanto nell’itinerario della imperfetta formazione dello Stato (State-building) quanto nella mancata elaborazione del fenomeno della formazione nazionale (Nation-building). Analisi critica che Farneti svolgeva a partire dai grandi classici, Mosca, Pareto e Michels, per poi concentrarsi sui primi grandi critici del fascismo italiano, Piero Gobetti e Antonio Gramsci, non senza aver riconosciuto il ruolo di intellettuali come Guido Dorso (1892-1947) e Filippo Burzio (1891-1948; a questo riguardo, centrale è il lemma Classe politica, in Politica e società).
L’ipotesi di lungo periodo che Farneti formula si concentra su tre fondamentali «fallimenti» del sistema politico italiano nella sua formazione: la «secolarizzazione mancata» (da intendere specialmente come incapacità di dare vita a istituzioni parlamentari davvero rappresentative), l’«integrazione mancata» (assenza di interconnessione tra dimensioni economiche, sociali e culturali) e una «rivoluzione mancata» (perché le classi popolari non poterono partecipare né al Nation-building, né allo State-building). La conseguenza di questi fallimenti fu brutale: la mancata democratizzazione (tanto più se di massa) che, in sede di analisi storiografica, equivale a disvelare le ragioni strutturali e non meramente epifenomeniche della conquista del potere da parte del fascismo in Italia.
Il punto centrale, che vale specificamente per il caso italiano e meno forse per altre realtà nazionali che fecero esperienze analoghe, è rappresentato dal fatto che il fascismo riuscì a sfruttare l’incapacità dei due grandi partiti di massa emergenti, il partito popolare e il partito socialista (ben presto, ma vanamente, scavalcato dal partito gramsciano), di accordarsi tra loro. La storia politica dell’Italia unita è dunque la storia di una continuità ben più che di una discontinuità:
Non producendo alcun profondo cambiamento nella composizione sociale della classe politica, il fascismo appare la ben nota versione a governo forte di quella coalizione monopolistica che dal 1876 aveva condizionato strutturalmente, sotto il profilo sociale e politico, il liberalismo e il parlamentarismo italiani (La classe politica italiana dal liberalismo alla democrazia, 1989, p. 107),
cosicché il ventennio fascista non sarà stato né una parentesi, né una malattia ‘infantile’ o morale, ma un prodotto incrementale: non c’è discontinuità tra l’Italia liberale dell’unificazione e quella nazionalistica e poi fascista, ma «continuità con la tradizione politica precedente» (p. 83).
Se il giudizio sul fascismo è per Farneti tutto inscritto nei risultati della sua costante riflessione sul fascismo italiano, gli sviluppi successivi della sua ricerca, che riguarderanno anche la politica dell’Italia repubblicana, lo porteranno ‒ come vedremo ‒ a realizzare una perfetta corrispondenza tra teoria e ricerca, tra dibattito metodologico e approfondimenti disciplinari, tra passione politica e spirito sistematico. Gli studi sulla classe politica implicano il rapporto tra scienza politica, sociologia e storiografia. I modelli di sistema politico introducono allo studio delle dinamiche interne dei sistemi di partito, considerato che ciascuno ha una propensione verso un partito specifico, che si trova immerso in una lotta per la conquista dei voti e del potere politico. All’intellettuale, infine, nella sua duplice funzione di metalavoratore (che «riguarda la strumentazione e il modo di procedere del lavoro intellettuale in quanto lavoro sull’uomo e sulla natura») e di produttore culturale, tocca il compito di far emergere «il razionalismo intrinseco al suo metodo di lavoro alle sue estreme conseguenze, spezzando i confini imposti, più o meno tacitamente, dalla professionalità»: si delinea in tal modo quel «radicalismo della ragione» (cfr. lemma Intellettuali, in Politica e società, cit., p. 486) che ha contrassegnato l’intero percorso scientifico e civile di Farneti.
Giungiamo così agli studi dedicati al sistema politico repubblicano che, dal reading del 1973 fino all’ultimo articolo di commento politico su «Il mondo» (29 agosto 1980, pubblicato dunque subito dopo la morte, ora in Diario italiano, cit., pp. 236-37), sempre di più impegnarono l’‘ansia’ creatrice di Farneti.
L’analisi muove, come è buona norma in questo tipo di studi, da un progetto di periodizzazione. La storia politica italiana sarà così divisa in quattro fasi, delle quali non contano tanto le date, ma il suggerimento interpretativo che le loro denominazioni contengono: 1) 1945-48: «formazione istituzionale»; 2) 1948-58: «egemonia della società politica»; 3) 1958-68: «periodo della società civile»; 4) 1968-72: «fusione tra società politica e società civile» (Introduzione a Il sistema politico italiano, cit., p. 6).
Nel libro, uscito postumo, Il sistema dei partiti in Italia: 1946-1979, Farneti prolunga il tragitto della sua periodizzazione ma, più che altro, introduce nella sua analisi una componente modellistica (che fino allora aveva utilizzato in modo prevalentemente descrittivo), destinata a inserirsi in quello che è stato probabilmente il dibattito politologico-accademico (ma anche politico-culturale perché molto seguito e partecipato dalla pubblica opinione) più intenso di quell’epoca. Tra due notissime e suggestive immagini proposte, l’una, da Giorgio Galli (n. 1928), ideatore del «bipartitismo imperfetto» (che è anche il titolo del libro che lo divulgò, 1966), e l’altra da Sartori, che a quello oppose il «pluralismo polarizzato» (esposto per la prima volta nel 1967 in Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?), Farneti inserisce a sua volta una terza soluzione, il «pluralismo centripeto». Per Galli, l’«eccezione» italiana consisteva nell’abnorme (anche se disuguale) preponderanza di due partiti politici su tutti gli altri (Democrazia cristiana e Partito comunista italiano) che non potevano bilanciarsi perfettamente per il semplice fatto che, seppure per motivi diversi, nessuno dei due poteva accettare la superiorità dell’altro. Ciò avrebbe indotto quella sorta di immobilismo del sistema politico italiano mille volte denunciato. Secondo Sartori, invece, il sistema non era immobilizzato perché, anzi, i due partiti maggiori avrebbero vissuto una situazione di distanziamento radicale (tipica dei bipolarismi) che si sarebbe andata estremizzando per contrapposizione e nel tentativo di sbaragliare il fronte opposto: sempre bipolarismo, dunque, ma tutt’altro che immobile perché foriero invece di contrapposizioni e scontri sempre più duri e schematici.
L’idea di Farneti prende qualcosa sia dal bipartitismo sia dalla polarizzazione, ma egli individua nel sistema italiano un andamento alternativo: né paralisi né estremizzazione, ma al contrario tendenza dei partiti verso il centro. Più precisamente, il pluralismo polarizzato di Sartori corrispondeva al ventennio della ricostruzione italiana (1945-65), mentre la tendenza opposta si sarebbe verificata a partire dal momento in cui il Partito socialista italiano (che era entrato in un governo per la prima volta nel 1963) si era alleato più o meno strettamente con la DC, con uno slittamento di quel partito verso il centro (nello stesso momento, l’estrema destra si era ritrovata progressivamente emarginata e «fuori dal sistema», cosicché la destra liberale per distanziarsene doveva tendere a sua volta verso il centro). Ed ecco che
l’idea di fondo del pluralismo centripeto è che il centro sociale e politico è alimentato, nella sua qualità di punto di riferimento costante di ogni maggioranza governativa, dall’eterogeneità, dalle contraddizioni e dalle tensioni dei due poli del sistema dei partiti, della destra e della sinistra (Il sistema dei partiti…, cit., p. 229).
Ma leggiamo quella che Bobbio segnala come la prima formulazione (9 agosto 1978) del modello. In essa, dopo aver fatto cenno all’ennesima polemica tra PSI e PCI, Farneti commenta:
Sono contrasti di fondo che, storicamente, derivano dalle caratteristiche di struttura del pluralismo centripeto: da un lato l’impossibilità e l’incapacità del partito leninista di fare quello per cui è nato e cresciuto cioè la rivoluzione, e dall’altro l’impossibilità-incapacità del socialismo non-leninista, e cioè la socialdemocrazia (compreso naturalmente il PSI), di fare quello per cui è nato e cresciuto, e cioè un coerente e globale riformismo (Diario italiano, cit., 141).
Secondo Bobbio, l’ipotesi (o la speranza) di Farneti («commentatore distaccato ma non indifferente», Prefazione a Diario italiano, cit., p. XI) era che, pur senza scardinare il pluralismo, potessero determinarsi in Italia le condizioni per l’apparizione di un governo ‘di alternativa’, ossia qualche cosa di più di un «centro-sinistra» classico (come se ne sono poi visti molti, in Italia) e qualche cosa di meno di una sinistra autoritaria. Ma negli ultimi anni, Farneti era andato riflettendo sulla capacità del pluralismo centripeto di spiegare l’andamento della politica italiana e aveva scoperto che qualche cosa stava cambiando e dunque il modello andava rivisto. Infatti, l’erosione del centro (precondizione per quello sbilanciamento che avrebbe dovuto spostare l’asse del sistema verso sinistra) non era avvenuta, mentre l’elettorato risultava particolarmente sclerotizzato sulle sue posizioni: il sistema era stato infine sfidato dall’apparizione del ‘partito armato’ di fronte al quale in quel periodo, inevitabilmente, gli elettori avevano finito per restare attaccati ai loro valori precostituiti. La scossa data dal rapimento e dall’omicidio di Aldo Moro (che era stato il massimo sostenitore dell’apertura da parte del centro verso il PCI) era stata poderosissima e il terzo governo Andreotti aveva finito per crollare proprio nel momento in cui, con il movimento del PCI verso il centro (ecco il momento «centripeto» del meccanismo ipotizzato), l’ipotesi del «compromesso storico» stava per realizzarsi.
Si sarebbe trattato allora di risolvere la controversa questione di quale fosse il più preciso dei tre modelli di sistema. Ma negli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Farneti, il compromesso storico si arrestò (o arretrò) nel dibattito interno alla sinistra. La conseguenza italiana di quegli avvenimenti sarà la cosiddetta fine della prima Repubblica, un evento che Farneti (il quale, come ricorda Bobbio, al momento di partire «aveva in mente molti progetti di studio, sia nel campo dei partiti politici e del sistema politico in generale, sia in quello, a lungo da lui coltivato, delle élite», in Fiducia nella ragione, 2000, p. 13) non poté vedere. Resta il rimpianto che non abbia potuto sapere che, in fondo, di quei tre modelli politici, il suo ‒ che vedeva i partiti politici spostarsi tendendo sempre piuttosto al centro che non verso le zone estreme (non scomparse, ma considerate a un certo punto ininfluenti) ‒ era quello che aveva meglio colto le peculiarità del caso italiano, confortando ancora una volta un’altra delle sue idee-guida: l’esistenza di una traccia di continuità insuperabile e immodificabile nella storia politica italiana.
Theodor Geiger e la coscienza della società industriale, Torino 1966.
Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, Torino 1971.
Il sistema politico italiano, Bologna 1973.
Teorica della società civile, 1° vol., Lettura di Durkheim, Torino 1974.
La crisi della democrazia italiana e l’avvento del fascismo: 1919-1975, «Rivista italiana di scienza politica», 1975, 5, 1, pp. 45-82.
I partiti politici e il sistema di potere, in L’Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Torino 1976, pp. 61-104.
La democrazia in Italia tra crisi e innovazione, con prefazione di N. Bobbio, Torino 1978.
Partiti, stato e mercato: appunti per un’analisi comparata, in La crisi italiana, a cura di L. Graziano, S. Tarrow, 1° vol., Torino 1979, pp. 113-78.
Politica e società, in Il mondo contemporaneo, 9° vol. diretto da N. Tranfaglia, Firenze 1979 (in partic. i seguenti lemmi: Classe politica, pp. 199-233; Classi sociali, pp. 255-85; Democrazia e dittatura, pp. 333-67; Intellettuali, pp. 485-518).
Stato e mercato nella sinistra italiana: 1946-1976, Torino 1980.
Diario italiano, Milano 1983.
Il sistema dei partiti in Italia: 1946-1979, Bologna 1983.
Dimensioni della scienza politica, «Teoria politica», 1985, 1, 2, pp. 75-115.
Democrazia diretta e rappresentativa, «Teoria politica», 1988, 4, 3, pp. 73-89.
La classe politica italiana dal liberalismo alla democrazia, Genova 1989.
Lineamenti di scienza politica, Milano 1990.
Fiducia nella ragione. La formazione intellettuale di Paolo Farneti nel suo carteggio con Norberto Bobbio, Milano 2000.
G. Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, Bologna 1966.
G. Sartori, Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, «Tempi moderni», 1967, 31, pp. 4-34.
A. Mastropaolo, I partiti e la società civile, in Il sistema politico italiano, a cura di P. Farneti, Bologna 1973, pp. 311-28.
G. Sartori, Il pluralismo polarizzato: critiche e repliche, «Rivista italiana di scienza politica», 1982, 12, 1, pp. 3-44.
Centro studi di scienza politica “Paolo Farneti”, Il sistema politico italiano tra crisi e innovazione, Milano 1984.