FARINATI, Paolo
Figlio del pittore Giovanni Battista di Cristoforo e di Lucia Bonato, nacque a Verona nel 1524; fu pittore, incisore, probabilmente scultore e architetto.
Il padre Giovanni Battista nacque intorno al 1493. Oltre che nei registri anagrafici (Archivio di Stato di Verona, Anagrafe S. Paolo in Campomarzio, Comune, n. 898 [1545], n. 905 [1583]) è indicato come pittore nel testamento di Francesco Morone, del 1529 (Simeoni, 1907). Si sa inoltre che aveva una bottega, nella quale stette Vincenzo Picegaton "per imparar l'arte" (Farinati, Giornale..., p. 130). Nulla si conosce dell'opera di Giovanni Battista, che fu probabilmente il primo maestro del figlio.
La data di nascita del F. si desume dalle anagrafi veronesi della contrada S. Paolo in Campomarzio, dove abitò, dapprima con il padre e il nonno Cristoforo (la madre dovette morire molto presto, secondo Ridolfi [1648] addirittura partorendo il figlio), poi con la moglie Benassuta di Angelo Volpin e i figli Orazio (vedi la relativa voce in questo Dizionario), Giambattista (nato tra il 1566 e il 1570, morto dopo il 1633; sposò Virginia Cattani), che collaborarono nell'esercizio della pittura, Cristoforo e Vittoria. Da quanto ci risulta il F. ebbe una vita tranquilla e fu completamente dedito alla gestione della sua avviata bottega, che gli consentì di raggiungere un buon livello di agiatezza. Negli ultimi anni di attività tentò di nobilitare le proprie origini, appropriandosi dello stemma e del nome di una nobile famiglia di origine fiorentina, Farinata degli Uberti, di cui esisteva una lapide trecentesca nel chiostro di S. Zeno a Verona. Per la prima volta nel codicillo del 31 marzo 1598, apposto al testamento del 20 giugno 1594, il pittore completò il cognome con "de Uberti".
Nel testamento aveva dato precise disposizioni circa il suo funerale e la sua sepoltura in S. Paolo in Campomarzio (tuttora esistente; per i documenti, cfr. Farinati, Giornale..., e Brenzoni, 1972).
La formazione e la prima maturità del pittore presentano ancora lati oscuri e suscettibili di ulteriori approfondimenti. L'esser nato a Verona appena quattro anni prima di Paolo Caliari (detto il Veronese) mise il F. nella felice condizione di poter immediatamente recepire tutte le novità insite nella pittura del suo geniale concittadino. Tuttavia dobbiamo supporre che prima dell'affermazione, pur precoce e subitanea, del Caliari il F. dovesse aver già raggiunto una sua maturazione e una sua fisionomia. Purtroppo questa fase iniziale è sconosciuta, mancando dipinti e disegni riferibili con sicurezza al quinto decennio del Cinquecento ed è solo possibile supporre che il giovane, iniziato un primo apprendistato nella bottega paterna, sia successivamente andato a bottega, se si vuol dar credito a Vasari, da N. Giolfino. Di una eventuale dipendenza giolfinesca non esiste comunque traccia nel giovanile fregio di palazzo Verità ai Leoni di Verona, raffigurante Iltrionfo di Tomiri e il Ratto delle Sabine.
Il F. difatti. superata l'inflessione mantovana alla Giulio Romano, che, a partire dalla metà degli anni Trenta, aveva condizionato tanta parte della pittura veronese, appare orientato verso la pittura emiliana, nei modi di Nicolò Abbati al tempo della decorazione del palazzo pubblico di Modena (1546). Nel fregio, da datarsi verso la fine degli anni Quaranta, ricco di colori chiari e acidi, di un'abbondante verzura e caratterizzato da un generale tono svagato e piacevolinente narrativo, si nota altresì una desunzione michelangiolesca, nelle possenti figure di ignudi che pausano le scene.
Gli affreschi di palazzo Verità e alcuni disegni giovanili quali il Noè ebbro (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, n. 4806) e Ilsacrificio di Abele e Caino (n. 4805, dello stesso fondo) costituiscono le prime prove del F. dove il dato Inichelangiolesco viene tradotto in un assaporato e fluido andamento lineare, che sguscia le forme in morbidi trapassi di luce. La stringente affinità tecnica che i disegni mostrano con i fogli giovanili del Veronese, insieme con alcuni riscontri di ordine formale, fanno ritenere che in quegli anni di passaggio dal quinto al sesto decennio, il F. lavorasse ormai sulla scia di Paolo Veronese, traendone gli stimoli più nuovi. Il primo dipinto datato, il S. Martino del duomo di Mantova, è del 1552.
Il dipinto fa parte di quel gruppo di tele, ordinate a diversi pittori, fra cui i veronesi Domenico Brusasorci, Battista D'Angolo (detto del Moro) e Paolo Veronese, dal cardinale Ercole Gonzaga, per la decorazione del duomo. Nel S. Martino (e nel relativo disegno del Louvre, Départ. d. arts graphiques, n. 4874) il dato michelangiolesco è in crescita. Abbandonati i ritmi fluidi e lineari legati al mondo emiliano, il pittore adotta una costruzione serrata e spigolosa, con forme articolate nella breve profondità del piano, una resa in chiave plastica sottolineata dal chiaroscuro accentuato. Nell'audace disegno la cubatura delle forme e della massa del cavallo è tacitata dal dinamico moto della linea, che riconduce a un disegno superficiale il groviglio dei corpi e dell'animale.
Poiché responsabile della ristrutturazione del duomo fu l'architetto Giovanni Battista Bertani, reduce da un viaggio a Roma, è plausibile pensare che questa personalità abbia fatto da tramite tra il pittore e la cultura romana di questi anni. Secondo Vasari, del resto, fu il Bertani a fornire ai pittori impegnati nella decorazione degli altari le idee di base sulle quali impostare i loro dipinti.
Il rinvenimento delle date 1555 e 1559 nel corso del recente restauro delle due pale con la Madonna e santi della chiesa di S. Tommaso Cantuariense a Verona e l'identificazione delle Cinque teste dei Museo capitolare della stessa città, frammenti della decorazione di casa Fumanelli, hanno consentito nuove valutazioni dell'attività del F. nella prima metà degli anni Cinquanta, soprattutto in rapporto alla coeva attività di Battista D'Angolo (Baldissin Molli, 1993).
Nel corso del sesto decennio il F. accentuò la componente michelangiolesca della sua pittura, toccando il punto più oltranzista ed estremo del suo gusto prepotentemente plastico, caratterizzato dalla delineazione di figure possenti e molto chiaroscurate, dove il colore è generalmente inteso come appendice della forma scultorea. Opera cardine di questi anni è il ciclo di quattro tele del presbiterio e del coro di S. Maria in Organo a Verona, raffiguranti La strage degli innocenti e Costantino ordina la strage dei bambini ebrei, del 1556, La cena di s. Gregorio e Cristo che cammina sulle acque del 1558.
I dipinti sono caratterizzati dal gigantismo delle figure, dalle anatomie caricate. In generale manca nelle tele uno spazio precostituito: esso viene generato dai gruppi di figure, realizzati con colori spenti, smorzati e attutiti. Le figure, soprattutto nelle due tele del 1558, assumono una inconfondibile struttura cubica e sono articolate con pochi e bruschi scarti degli arti. L'atmosfera dei dipinti è spettrale, i colori sono lividi e dissonanti, i particolari superflui e gli elementi descrittivi, se non funzionali al racconto, sono stati eliminati. La temperie generale delle opere riconduce al clima artistico romano del sesto decennio, allorché si creò un clima di scambi incrociati e reciproci che aveva alla base l'affermazione delle ultime opere pittoriche di Michelangelo.Le affinità che la cultura pittorica del F. mostra di avere con quella elaborata da pittori che lavorarono a Roma in quegli anni, quali Daniele da Volterra o Taddeo Zuccari, induce ad ipotizzare un viaggio del pittore in quella città di cui peraltro mancano riscontri documentati. D'altro canto, è per certi versi di avallo a questa ipotesi il fatto che il F, , a differenza dei suoi compatrioti veronesi, rimanga al di fuori dell'entourage di Palladio, che, come è noto, impiegò i pittori veronesi - da Battista D'Angolo a Paolo Caliari - nella decorazione dei suoi edifici. Si ha cioè l'impressione che il pittore, in questi anni, sia stilisticamente distaccato dalla cultura pittorica veronese. Oltre all'Annunciazione della chiesa dei Ss. Nazaro e Celso (1557), tanto spoglia e disadorna da sembrare un'anticipazione ossequiente al dettato della Controriforma, e all'Allegoria di Verona di proprietà privata (1558), di questo momento è anche il fregio con Le Muse e allegorie, che è quanto rimane della decorazione della facciata di casa Marogna, prossimo stilisticamente alle due Stragi in S. Maria in Organo. La possibilità di disporre di opere firinate, che costituiscono due caposaldi cronologici al 1560 (La Natività, Dio Padre appare ai ss. Francesco e Antonio abate, Peschiera, santuario della Madonna del Frassino) e al 1562 (Ecce Homo, Verona, Museo di Castelvecchio), ha consentito di datare, per via stilistica, nel momento di passaggio da un decennio all'altro uno dei capolavori del pittore: il ciclo di affreschi della chiesa dei Ss. Nazaro e Celso di Verona, raffigurante Storie dei santi titolari.
In questo momento il F. recupera schemi e motivi veronesiani, guardando con particolare attenzione i coevi affreschi del Caliari nella chiesa di S. Sebastiano a Venezia. Caratteri principali del ciclo (due lunette, due riquadri, la volta a crociera del presbiterio e la volta dell'abside) sono: una organizzazione spaziale sicura, l'articolazione delle figure in architetture di buona profondità, l'impaginazione serrata, la riuscita concatenazione dei personaggi in rapporto ad un nucleo unificatore, un disegno scorrevole, libero da impacci, capace di indulgere su particolari di gusto veronesiano (stendardi, baldacchini, elmi, copricapi) senza appesantire o distogliere l'attenzione dall'azione principale. Se certe figure possenti e molto scorciate, come la raffigurazione dei due santi nel catino absidale, richiamano ancora le figure del Giudizio universale di Michelangelo, il pittore ha immesso nelle forme un'ideale bellezza che distacca la citazione dal modello originario.
Con questo ciclo di affreschi il F. mostra di aver concluso la serie delle esperienze giovanili, essendo pervenuto a quella personale cifra stilistica che lo rende così ben riconoscibile, tanto nelle pitture come nei disegni, temperando con schemi e citazioni veronesiane la fondamentale esperienza michelangiolesca nella metà del sesto decennio. Da questo momento in poi la sua carriera è ricostruibile con maggiore chiarezza. Di poco posteriore all'Ecce Homo del 1562 dovrebbe essere la bella Adorazione dei magi di Amsterdam (Rijksmuseum), opere entrambe replicate nel 1574 (Verona, Museo di Castelvecchio). Del 1565 sono gli affreschi nella cappella Marogna in S. Paolo in Campomarzio di Verona (Elia sul carro di fuoco, Giana gettato in mare, Angioletti con i simboli della passione intorno a un ovale con Cristo risorto) e la pala con l'Assunta della chiesa di S. Maria del Paradiso. Il quinquennio 1565-1570 lo vede impegnato in una serie di pale d'altare, di impianto monumentale (Il battesimo di Cristo in S. Giovanni in Fonte, 1568; I ss. Girolamo, Bartolomeo e Anna del Museo di Castelvecchio, Le ss. Maddalena e Margherita del Museo capitolare di Verona.
In queste pitture, nobili e grandiose, il F. modera le marcature risentite e le forme raggomitolate e allunga e rende più sdutte le figure. Queste caratteristiche, insieme con l'accresciuta importanza conferita al paesaggio e a un generale tentativo di schiarire il colore, conferiscono ai dipinti una monumentalità pacata e senza enfasi, un accento naturalistico e una chiarezza formale che resta tipica di questi anni.
L'attività del F. è eccezionalmente ben documentata per il periodo 1573-1606. Difatti è pervenuto, pur privo di un certo numero di pagine, il Libro di conti della bottega del pittore, comunemente noto come Giornale. Il manoscritto, rinvenuto nell'Archivio di Stato di Verona e reso noto dal Simeoni (1907) all'inizio di questo secolo e pubblicato integralmente dal Puppi nel 1968, è un minuzioso diario dell'attività del F. e fornisce innumerevoli informazioni sui committenti, gli accordi economici, le opere, le spese e i guadagni dell'artista e, più generalmente, sull'andamento di una bottega di pittori della seconda metà del Cinquecento. Grazie a questo manoscritto la produzione matura del pittore può essere agevolmente ricostruita; le opere superstiti sono numerose, spesso datate o databili grazie alle registrazioni del Giornale: pale d'altare sparse nelle chiese della città e della provincia di Verona e affreschi nelle ville del territorio veronese. Talora, se anche le opere non sono firmate, recano in un angolo il contrassegno della chiocciola, simbolo che il pittore adottò fin dalle opere giovanili.
Del 1573 è una delle sue opere più famose, il trittico con La deposizione dalla Croce, già nella chiesa dei cappuccini di Verona. Oggi è smembrato tra il Museo di Grenoble (comparto centrale: La deposizione dalla Croce) e la chiesa dei Ss. Gratiniano e Felino di Arona (comparti laterali: Le pie donne, Gli apostoli che aprono il sepolcro).
Il dipinto, probabilmente per l'intervento del vicario dei cappuccini, padre Gregorio, che fu in rapporti di amicizia con il F. (Ridolfi, 1648), è una sorta di unicum nella produzione del pittore: egli arriva ad una riformulazione del linguaggio michelangiolesco, che nella semplificazione compositiva, nell'abbandono di ogni compiacimento formale e descrittivo, si connota di tutti gli elementi caratteristici della Controriforma.
Dello stesso anno è il S. Michele arcangelo della chiesa di S. Eufemia, ispirato alle incisioni del cartone di Raffaello, già di proprietà estense e oggi perduto, per il S. Michele destinato al re di Francia. Del 1574 è il bel disegno dell'Ermitage di San Pietroburgo raffigurante La Pietà, databile grazie ad una scritta autografa. Il foglio riprende lo schema piramidale della composizione del dipinto per i cappuccini, con in più la bella invenzione della Madonna svenuta e piegata su se stessa nell'angolo sinistro del foglio. Nel 1575 il pittore completò la decorazione della chiesa dei Ss. Nazaro e Celso, aggiungendo, sotto gli affreschi, quattro grandi tele raffiguranti altrettanti Fatti dei santi titolari.
Le tele sono piuttosto affastellate e confuse e mostrano i primi segni di un cedimento che diverrà evidente nell'ultimo decennio dei secolo, quando subentrerà il lavoro della bottega; devono evidentemente aver dato qualche problema nell'organizzazione di un racconto privo di una assestata iconografia.
Per contro le pale d'altare e gli affreschi degli anni successivi (La Madonna e i ss. Francesco e Sebastiano e il beato Andrea da Peschiera, Peschiera, santuario della Madonna del Frassino; La Natività con s. Giovannino, Pozzolo, parrocchiale, 1576; La cavalcata di Carlo V, affreschi, casa già Quaranta a Verona; I ss. Giacomo apostolo, Sebastiano e Fabiano, Lonato, chiesa di S. Giovanni Battista, 1582; La Natività, L'Annunciazione, Salò, chiesa di S. Bernardino, 1584; La Sacra Famiglia con i ss. Elisabetta e Giovannino, Peschiera, santuario della Madonna del Frassino, 1586; La Madonna con i ss. Nicolò e Francesco, Verona, S. Paolo in Campomarzio, 1588) mostrano il pittore attivo ad un dignitoso livello qualitativo, che nei due casi più felici, la pala di Lonato e quella di S. Paolo in Campomarzio, lo vedono attingere al repertorio veronesiano, squadernando con sicurezza le figure vigorose su vasti paesaggi.
Nell'ultimo decennio del secolo il F., ormai anziano, lasciò nella bottega uno spazio più consistente al figlio Orazio. Pur continuando la produzione di pale d'altare, si ha l'impressione che venga lentamente sostituito, presso la committenza veronese di rango più elevato, dal manierismo di sapore rudolfino di Felice Brusasorci. Le pale del F. sono ora per lo più destinate alla provincia o a località più lontane, come nel caso dei tre dipinti per Piacenza raffiguranti I miracoli di s. Giacinto (S. Giovanni in Canale, 1597). Le ultime opere (Iss. Giovanni Battista, Rocco ed Elisabetta, S. Giovanni Lupatoto, parrocchiale, 1598; La Madonna con i ss. Francesco e Antonio da Padova, Verona, Museo di Castelvecchio, 1600; Il matrimonio mistico di s. Caterina, ibid., 1602; Il matrimonio mistico di s. Caterina con s. Francesco, Pavia, Museo civico; La moltiplicazione dei pani e dei pesci, Verona, S. Giorgio in Braida; La Pentecoste, Cadidavid, parrocchiale, opere tutte del 1603) sono sostanzialmente autografe, ma ripetono, ormai senza varianti, schemi consunti e sfruttati, e non rinvigoriti dagli apporti più nuovi immessi da Felice Brusasorci nella cultura artistica veronese.
La maggior parte dei dipinti e degli affreschi del F. è documentata anche a livello grafico. Il pittore fu difatti un grandissimo disegnatore, spesso impegnato nella realizzazione di disegni molto finiti, validi come modelli prossimi all'opera da dipingere, eseguiti a penna e acquarello con ritocchi di biacca, secondo quella prassi di lavoro originaria degli artisti dell'Italia centrale e caratteristica dei Veneti che a quell'ambito di cultura guardarono.
Tra i disegni del F. si trovano fogli di altissima qualità, quali lo Studio per un angolo di soffitto del Louvre (Département des arts graphiques, n. 4889); L'allegoria della Dialettica (relativo alla facciata di casa Marogna) delle collezioni della Witt Library di Londra; lo Studio per la decorazione di un caminetto del Gabinetto delle stampe e dei disegni degli Uffizi (n. 1492 Orn), circa 1556-58; Il battesimo di Cristo del Louvre (Départ. des arts graphiques, n. 4827), relativo all'omonimo dipinto in collezione privata, datato 1591. Il Louvre conserva un ricchissimo fondo di fogli del pittore; raccolte consistenti hanno pure l'Albertina di Vienna, la Royal Library di Windsor Castle e il British Museum di Londra.
La notorietà del F. in questi ultimi decenni è collegata al rinvenimento del Giornale, cosa che, paradossalmente, non ha giovato alla sua rivalutazione, in quanto è certamente nella prima parte della sua carriera che il pittore fornisce le sue prove migliori e più originali. L'indagine su questa prima produzione è molto recente e si lega, in generale, all'interesse per l'arte veronese del quinto e del sesto decennio, in parallelo a quello per la prima formazione e l'attività veronese di Paolo Caliari. Di recente è stata altresì indagata la sua attività incisoria (Albricci, 1980). Le incisioni del F., acqueforti raramente ritoccate a bulino, sono una decina, e tutte di invenzione dell'artista, di tema mitologico o religioso. Altri aspetti di questa versatile personalità sono altresì attestati dal Giornale: il documento registra l'esecuzione di alcune miniature, come ad esempio quella eseguita nel 1574 sul libro dello Statuto dei cavalieri, ed ancora lavori di doratura di mobili, decorazioni su cuoio, approntamento di costumi da carnevale. La bottega del F. mantenne quindi quella prassi artigiana, probabilmente ereditata dal padre, che non disdegnava l'esecuzione di lavori di modesta entità. Il Giornale informa altresì che il F. esercitò anche la scultura: nel 1582 realizzò per don Fabiano Mercanton di Lonato un Crocifisso. Non si sa di quale materiale fosse la scultura, ma si tratta in ogni caso di una testimonianza diretta che convalida quanto già indicò la storiografia settecentesca circa un'attività in tal senso dell'artista. Ancora il Giornale informa che ricevette, nel 1586, su commissione del parroco, l'incarico di stendere il progetto della chiesa di Padenghe. Grazie al rinvenimento di un fondo di disegni architettonici del F. in collezione privata, è stato possibile al Puppi (1971) articolare una convincente ipotesi circa l'attività di architetto dell'artista. Tale fondo comprende infatti alcuni schizzi, denotanti una cultura di carattere postsanmicheliano, che con tutta probabilità sono relativi alla chiesa di Padenghe. Inoltre Puppi (ibid.) ha convincentemente proposto l'attribuzione al F. del monumento funebre di Marco e Pierantonio Verità, del 1566, oggi sulla fiancata destra della chiesa di S. Eufemia a Verona.
Il F. fu dunque una figura di artista poliedrico. Capace di attingere, nei decenni centrali della sua attività, ad opere di qualità artistica di tutto rilievo, fu altresì una figura emblematica in quanto la particolare documentazione che accompagna la sua opera consente di ricostruire, di comprendere e valutare i metodi di lavoro di una bottega di pittori della seconda metà del Cinquecento.
La morte del F. avvenne probabilmente poco dopo la stesura del codicillo testamentario del 23 luglio 1606.
Nel testamento del 1594 il F. aveva ricordato i figli Orazio e Giambattista, "molto inclinati" alla pittura, ma successivamente, nel codicillo del 1598, diseredò Giambattista e Cristoforo, in quanto non avevano ben coltivato l'arte. Nel codicillo del 1606 infine il patrimonio venne nuovamente suddiviso fra i tre figli, ma nel documento Giambattista figurava avere abbandonato l'esercizio della pittura (Farinati, Giornale...). Il nome di Giambattista ricorre nel Giornale quale esecutore di commissioni di vario genere e in due casi (1595, villa Giuliari Erbici e villa Della Torre a Mezzane; cfr. la voce Orazio Farinati in questo Dizionario) direttamente come pittore, a fianco del fratello Orazio, nell'esecuzione di affreschi (solo in parte conservati) su disegni del padre. Nel testamento del 14 genn. 1630 Giambattista lasciò i propri beni per metà al nipote Paolo, figlio di Orazio, e per l'altra metà a Uberto e Gentile, figli di Cristoforo; peraltro Giambattista si dedicò alla pittura in modo saltuario e discontinuo.
L'altro figlio del F. Cristoforo nacque tra il 1568 e il 1571, si sposò con Cecilia di Adolfo Maffeo, ebbe per figli Uberto, Gentile e Arianna ed era ancora vivo nel 1633. Il suo nome compare nel Giornale quale esecutore di commissioni di carattere pratico; non risulta una sua attività nell'ambito della pittura. Cristoforo nel 1628 fornì a Ridolfi le notizie per la biografia del F. che lo storico inserì nelle Maraviglie del 1648.
Vittoria è citata nella sola anagrafe nel 1583, diciottenne. P assai dubbio che fosse dedita alla pittura, non solo perché non è nota alcuna sua opera, ma anche perché il testamento del F. non ricorda un'attività pittorica della giovane. La notizia della sua attività come pittrice venne dapprima data da Dal Pozzo (1718), quindi ripresa dalla storiografia veronese sette-ottocentesca e riportata infine da von Hadeln (1915).
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