Paolo Emilio Santoro
Nei Ragguagli di Parnaso (II, 14) Traiano Boccalini rappresentò Tacito che lamenta l’assenza di storici moderni dotati di sale politico. La sola eccezione è quella di Santoro, «Tacito novello», «saporitissimo scrittor latino degli Annali de’ suoi tempi». Paolo Emilio nacque a Caserta nel 1560 e morì a Urbino nel 1635. Nipote del cardinale Giulio Antonio Santoro, che ne promosse la carriera, dopo la morte dello zio fu arcivescovo di Cosenza (1617) e di Urbino (1623). Il 7 settembre 1627 tenne il sinodo e più tardi facilitò il passaggio del ducato sotto il dominio dei pontefici con la fine dei Della Rovere. Gli sono attribuite le Memorie istoriche concernenti la devoluzione dello Stato d’Urbino (1723).
Nella Storia della letteratura italiana Girolamo Tiraboschi scrisse che, dopo Baronio, tra gli scrittori di martirologi e vite dei santi poche penne erano sfuggite all’agiografia: una era quella di Santoro. Tuttavia, egli era noto soprattutto per una «Storia generale dei suoi tempi» di cui non si videro «che alcuni frammenti fra le mani de’ dotti» (Storia, t. 4, 1833, p. 428). Tiraboschi alludeva agli Annales, che coprivano gli anni 1572-1609 e furono lodati da Gian Vittorio Rossi nella Pinacotheca imaginum (3 voll., 1645-1648). Dell’opera apparve a stampa solo un brano edito dall’amico Aldo Manuzio nelle Lettere volgari (1592, pp. 86-93). Scrivendo a Pietro Pisone Soazza, Manuzio lodò il testo e ne inviò la parte dedicata alla Napoli del Duecento e ai conti di Caserta, in cui Santoro criticava il Boccaccio delle novelle I, 5 e X, 6 e narrava la vera storia di Siligaita e Manfredi. Non sappiamo perché gli Annales non videro la luce, ma furono noti fino al 18° secolo. Nelle Memorie-storico critiche degli storici napolitani (t. 2, 1782, pp. 546-51) Francescantonio Soria riferisce poi che Francesco D. Sertorio possedeva un volume con parti dell’opera (Annalium fragmenta). Forse gli annali non furono finiti, o forse riferivano i fatti del tempo in modo spregiudicato; comunque sia, Santoro editò solo un’opera minore e due martirologi che i bollandisti non giudicarono bene e che, con ogni probabilità, gli furono sollecitati dallo zio che lo spinse a scrivere di storia sacra.
Dedicato a Clemente VIII, XII virgines, et martyres (1597) racconta le biografie di dodici martiri a pochi anni di distanza dalla circolazione delle storie dell’oratoriano Antonio Gallonio. Il testo inoltre è attraversato da una manierata polemica contro la filosofia aristotelica, il mondo antico e il paganesimo. Le lussuriose o stoiche eroine dell’età classica, per l’autore, non potevano eguagliare le gesta delle sante, raccontate sulla scorta degli scrittori antichi ai quali si aggiungono i moderni: Johannes Molanus, Laurentius Surius, Luigi Lippomano, Girolamo Vida. Importanti sono le pagine che chiudono la vita di Margherita (pp. 173-74), in cui afferma di non narrare favole o «rumores» e di non aver scritto mai nulla «contra dignitatem historiae, cuius anima in veritate consistit». Come in Baronio, che ricorda in un passo dell’opera (p. 58), è viva l’attenzione per l’antiquaria. Nello stesso anno Santoro pubblicò le Vitae beatorum apostolorum Petri & Pauli (1597), dedicate ad Agostino Valier con un’epistola di Manuzio. Le vite includono il racconto della storia della Palestina e dell’impero del 1° sec., e drammatizzano la vicenda degli apostoli contrapponendo a Pietro Simon Mago (che aizza l’odio di Nerone) e a Paolo un popolo ebraico intento a complottare contro i cristiani. Le biografie si chiudono con la storia dei corpi dei santi e con l’edificazione del Vaticano, in polemica con Martino Lutero e con Giovanni Calvino.
Pochi anni dopo, Santoro stilò una Historia monasterii Carbonensis (1601) in cui ricostruì, con tanto di fonti trascritte, il passato del cenobio. Tra i pochi testi citati (p. 14) figura il De antiquitate et situ Calabriae di Gabriele Barrius (1571), attribuito a Guglielmo Sirleto; e alla stregua di quel libro l’opera appare come una storia sacra della Calabria e della Lucania a partire dal 10° secolo. I Normanni sono lodati per aver restaurato il cristianesimo in Sicilia e per le crociate; ma alle loro conquiste risaliva il potere di quei «tyrannunculi» (i baroni) che iniziarono a vessare, e vessavano ancora, i monaci e le popolazioni locali (pp. 46-47). La storia del Regno di Napoli fa da sfondo alla narrazione fin dalla lotta tra Federico II e il papato, difensore dell’Italia dalla crudeltà germanica. L’opera fu tradotta e continuata nel 1859 da Marcello Spena (v. nuova ed. di L. Branco, 1998).