EMILIANI GIUDICI, Paolo
Nacque il 3 giugno 1812 a Mussomeli (Caltanissetta) da Salvatore Giudice e Antonia Cinquemani. Di salute cagionevole, non frequentò alcuna scuola ma compi i primi studi in paese, sotto la guida di don Cataldo Lima prima e sviluppando poi un programma di studi da autodidatta. Sembra componesse a sedici anni alcune scene drammatiche e due tragedie (Il conte Ugolino, Alessandro Di Fere) che egli stesso provvide a bruciare insieme con i versi che andava componendo. Fu avviato dalla famiglia, contro la propria volontà, alla vita religiosa, entrando nel convento di S. Zita dei domenicani di Palermo, dove prese il nome di fra' Vincenzo. Qui, nella ricca biblioteca, ampliò e approfondi gli studi imparando anche l'inglese, il francese e lo spagnolo attraverso l'assidua frequentazione dei classici che vi erano conservati.
Conclusi dunque gli studi, dal 1838-39 fu addetto all'insegnamento della filosofia nello stesso convento, svolgendo insieme incarichi di insegnamento privato presso nobili famiglie palermitane. Contemporaneamente, dal 1836 al '40, sviluppò il suo interesse per la pittura e l'incisione (ebbe come maestri V. Riolo e S. Lo Forte) e scrisse anche alcuni articoli per le Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia.
Della sua attività di pittore e di incisore, che coltivò anche negli anni seguenti, ci rimangono due quadri conservati nella chiesa di S. Domenico a Palermo e una incisione che rappresenta il Foscolo durante il soggiorno in Inghilterra. Sono di questi anni la traduzione (andata perduta) dei versi di Emilia Mogg, poetessa inglese (alla quale è dedicata la prima edizione della Storia delle belle lettere) e una poesia di argomento patriottico composta il 14giugno 1839 (riportata in Pitré, p. 62). Ma Più che per la letteratura, molto blandamente praticata, l'E. si segnalava allora per le sue idee politiche liberali che indussero la polizia borbonica a sorvegliarlo. Scrivendone molti anni dopo la biografia, la moglie Ann Alsager sostenne la tesi che l'E. manifestasse opinioni eretiche di tipo luterano già negli anni del convento, rimanendo in quella fede fino alla morte; circostanze tuttavia contraddette entrambe dai biografi più attendibili e disinteressati. Certo è che l'E. non si sentiva ben integrato nella comunità conventuale, per ragioni di temperamento e di convinzioni più politiche che religiose; sicché, avendo presentato nel '40 domanda all'Ordine di secolarizzazione temporanea, nel luglio dell'anno successivo i superiori gliela concessero in perpetuo; abbandonò quindi il convento, adottando l'abito di prete secolare che mantenne fino alla partenza dalla Sicilia. Tentò invano di ottenere l'istituzione nell'università di Napoli di una cattedra di estetica, facendo conto su una serie di amicizie che aveva allacciato in quegli anni; tra gli altri, vanno ricordati Enrico e Michele Amari, Francesco Crispi, Francesco Paolo Perez, che erano tutti più o meno compromessi politicamente e controllati dalla polizia. Soprattutto, in questo frangente attirò su di lui il sospetto delle autorità la pensione annua di lire 2.000 che gli aveva assegnato Annibale Emiliani, un livornese esule da molti anni in Sicilia per le sue idee liberali.
Il 18 apr. 1843 l'E. riuscì finalmente a partire da Palermo dirigendosi a Napoli e di qui a Livorno, da dove si trasferì, per risiedervi, a Firenze. L'anno successivo fu adottato legalmente da Annibale Emiliani, che lo nominò anche erede; da quel momento l'E., che già aveva anni prima cambiato la lettera finale del cognome paterno, vi premise stabilmente quello del padre adottivo. Nello stesso 1844 pubblicò a Firenze la Storia delle belle lettere in Italia, iniziata a scrivere, secondo la dichiarazione dello stesso autore, a ventisette anni, cioè negli anni palermitani (Prefazione all'ediz. del 1855, p. V).
Come altri eventi della sua vita, anche questo è stato riportato da alcuni biografi in una versione inesatta: a spingerlo a scrivere l'opera sarebbe stato, secondo costoro, Giovanbattista Niccolini che l'E. conobbe al suo arrivo in Toscana e che gli dimostrò sempre grande stima. Un controllo sulle date, e la considerazione dell'impegno notevole che la composizione della Storia inevitabilmente comportava, rendono non credibile questa tesi come ha inoppugnabilmente dimostrato E. Scolarici, che fissa decisamente agli anni del soggiorno in Sicilia l'inizio della composizione, senza nulla togliere alla funzione stimolante che certamente il Niccolini esercitò nei confronti del giovane studioso.
Il punto di riferimento costante ed esplicito del metodo e dell'impostazione dell'E. è qui, come sempre del resto, il pensiero e l'opera di U. Foscolo, del quale soprattutto si avverte l'influenza nel concepire come "inseparabilmente connesse" (I, p. 40) la storia letteraria e la storia politica della nazione italiana nel suo svolgimento secolare da Dante fino al romanticismo. "La fusione della dottrina politica con la letteraria che noi desiderammo negli storici tutti della nostra letteratura fu per la prima volta ammirata negli scritti di Foscolo, che ancora rimangono - non so se inimitabili - certo inimitati in Italia" (p.54). Dunque Foscolo come modello dichiarato e come ispiratore insieme della aperta polemica nei confronti dei letterati che si erano cimentati con le vicende passate della nostra vita letteraria. La Storia infatti nella sua prima edizione era preceduta da un Discorso preliminare che scomparirà nella seconda edizione (pubblicata a Firenze nel 1855, con il titolo Storia della letteratura italiana, che alla IV ediz. nel '66 aveva venduto 20.000 copie) in quanto premessa e sarà solo in parte rifuso nel testo; una lunga e accesa tirata polemica che coinvolge Tiraboschi come Maffei, Crescimbeni e Quadrio e Ginguené, in un giudizio complessivamente negativo derivante dalla considerazione che mai in precedenza gli storici della letteratura avevano trattato lo sviluppo secolare delle lettere italiane secondo una prospettiva organica e d'insieme, limitandosi piuttosto a compilare aridi annali o commentari, ovvero meri elenchi di biografie e di opere valutate sulla base di criteri pedantemente formalistici e del tutto avulse da un inquadramento storico-politico. Mancava "alle lettere italiane un'opera più succosa, più pingue e più breve di mole, un lavoro che ritraendoli a tratti grandiosi non trascuri i tratti individui di nessuna delle parti costituenti il generale concepimento, insomma di vera Storia della letteratura" (p. 43). Sulla scia della svolta impressa da Foscolo alla ricostruzione della letteratura italiana nei secoli, l'E. individuava nella letteratura delle origini (due-trecentesca) l'espressione migliore delle ragioni congiunte e intrecciate della fondazione letteraria e del rigoglio sul terreno politico; cosi come nei tre secoli successivi ('400-'500-'600) dominerà la decadenza politica e parallelamente letteraria, dovuta al prevalere assoluto dell'imitazione in arte, ossia l'abbandono della spontaneità e della originalità, un periodo in cui "la letteratura cessava di essere una facoltà piena di vita e potentemente motrice de' popoli e .. il letterato non fu più l'istituzione dei cittadini e il poeta non fu più il motore degli affetti delle plebi, ma divenne l'addobbo di corte" (p. 641). Dove si sente forte l'impronta del ragionamento e della passione che animavano il trattato Del principe e delle lettere di V. Alfieri.
Non a caso nel giudizio dell'E. solo con Alfieri e poi con Foscolo, Leopardi, Monti e Niccolini risorgono le sorti letterarie e civili della vita nazionale, insidiata però dalle nuove correnti romantiche (le "nuove metafisicherie d'oltremonte"), il cui difetto principale sta nel loro carattere straniero e quindi lontano se non addirittura opposto all'"indole italiana". La scuola romantica italiana viene sostanzialmente ignorata nel quadro storico dell'E. poiché "la scuola che ha menato cotanto rumore, oggimai dechina, e in breve sarà ridotta al nulla, e vivrà ne' registri delle cronache e nell'inclite glorie de' giornali" (p. 1246); ostracismo dunque nei confronti del romanticismo italiano con la rimarchevole assenza dei nomi di Manzoni, Berchet, Giusti, ecc., mentre sugli esponenti più illustri del romanticismo europeo non manca qualche apprezzamento positivo (è il caso di Schiller, Goethe, Byron, W. Scott, ecc.). Una visione quella dell'E. che già C. Tenca trovava, pure nel quadro di espliciti e motivati elogi all'impianto dell'opera, viziata da una ideologia pregiudiziale che appiattiva l'esame delle cause degli squilibri e dei diseguali andamenti delle nostre vicende letterarie, ritrovando in modo unilaterale e meccanico nel solo principio politico la fonte dei fasti come dei guasti della cultura letteraria italiana. In questo il Tenca accomunava l'E. agli esponenti dell'"antica scuola", che, "occupati, come sono, a cercare nelle manifestazioni del concetto letterario le fasi dell'esistenza politica della nazione", "non sanno vedere altro punto diverso o più elevato, a cui si diriga l'attività dell'intelligenza": "da ciò l'importanza esagerata attribuita all'elemento politico, e il subordinare i grandi periodi della civiltà nazionale alle brevi e mutevoli vicende degli Stati, od alla preponderanza degli individui e delle fazioni" (p. 296). Dalla medesima ristrettezza di visuale, dei resto, derivava quel giudizio cosi drasticamente negativo sul romanticismo italiano che il Tenca non poteva certo accettare né condividere.
Esaminando i giudizi formulati dall'E. sulle singole opere, si può osservare che raramente questi presentano qualche carattere di originalità, ricalcando spesso valutazioni ed osservazioni rintracciabili negli storici precedenti; più in generale colpisce la dissonanza tra le dichiarazioni di principio e il concreto andamento del lavoro sul terreno critico. Nonostante infatti il richiamo costante all'ispirazione qivile e politica e nonostante la polemica esplicita contro l'intonazione erudita e formalistica della critica precedente, il prodotto letterario viene esaminato dall'E. ricorrendo ai più tradizionali strumenti di ordine linguistico e retorico, senza riuscire a cogliere in concreto quella compenetrazione di forma espressiva e di contenuto materiale che pure lui stesso dichiara ripetute volte come caratteristica del metodo moderno da Foscolo in poi. In questo senso sarà inutile cercare nelle singole analisi delle opere e degli autori i modi specifici della elaborazione letteraria che distinguono gli uni dagli altri; gli attributi rilevati dalla sensibilità dell'E. si dispongono attorno alle varietà espressive della lingua, intese nel senso più superficiale ed esteriore, in modo che, com'è stato puntualmente sottolineato (Russi, p. 406), autori distanti come il trecentesco ser Giovanni e Giacomo Leopardi risultano, in ultima analisi, definiti da capacità analoghe di eleganza, splendore, lucidità, efficacia, attributi tutti della lingua delle loro opere, intesa nel suo senso più formale.
Di contro alla sostanziale fragilità dell'indole critico-letteraria dell'E. acquista ancora maggior peso la sua capacità storico-politica che impronta in modo deciso lo svolgersi della vicenda nazionale, segnata in modo netto dalla sotterranea aspirazione ideale alla libertà, nei periodi in cui si manifesti, ovvero dall'immagine della oppressione e dell'asservimento degli scrittori. Una concezione evidentemente sulla linea di quel ghibellinismo che nel primo periodo risorgimentale caratterizzò una schiera ampia di intellettuali di ispirazione laica e liberale, soprattutto in Toscana.
In conclusione la Storia dell'E. rappresenta il primo tentativo di dar vita a una organica ricostruzione della letteratura italiana nel riferimento alle concezioni storiografiche moderne che imponevano l'individuazione di un forte connettivo ideale che rendesse conto di una storia appunto e non di una somma di elementi più a meno omogenei. Esattamente su questa linea si collocherà, pochi anni dopo, la storia letteraria di F. De Sanctis che però seppe, al contrario dell'E., concretare la solida architettura dell'edificio storico con la puntuale, profonda e sensibilissima analisi del fatto poetico e letterario riconosciuto nella sua intrinseca indole.
La pubblicazione della Storia procurò all'E. elogi e considerazione soprattutto in quell'ambiente liberale toscano che faceva capo a G. Capponi, N. Tommaseo, G. Rosini, F.D. Guerrazzi, oltre lo stesso Niccolini; stabili cosi una rete di rapporti che passava tuttavia molto più per la stima reciproca sul piano degli studi e dell'opinione ideologica che per un concreto impegno politico, al quale del resto l'E. non fu mai interessato. Furono proprio alcuni di questi amici ed estimatori che nel febbraio 1849, durante il governo provvisorio della Toscana, gli fecero attribuire l'incarico dell'insegnamento di eloquenza italiana presso l'università di Pisa, in qualità di supplente di G. Rosini. Fu un incarico che l'E. tenne pochissimo tempo, dato che il 4 maggio dello stesso anno volle dimettersi, essendo caduto il governo provvisorio ed essendo di conseguenza tornato il granduca. In quel ridottissimo scorcio di tempo aveva tuttavia già attirato le accuse delle autorità ecclesiastiche che gli imputavano la colpa di "predicare il protestantesimo" (De Castro, p. 205), un rilievo, come si vede, ricorrente e che si spiega probabilmente con l'ispirazione antiguelfa e antipapale che l'E. mantenne costante per tutta la vita sul terreno specificamente politico. Nel decennio successivo si concentrò esclusivamente sui suoi studi, ai margini delle vicende politiche del movimento indipendentistico nazionale. Nel giugno 1859, incitato da V. Salvagnoli, cominciò a collaborare ad alcuni giornali inglesi per illustrare al pubblico della nazione amica i problemi nazionali. Nello stesso anno fu nominato segretario dell'Accademia fiorentina di belle arti e poco dopo professore di estetica nella stessa Accademia, ruolo che abbandonò nel novembre 1863, poiché come membro di una commissione ministeriale per la riforma degli studi nell'Accademia aveva formulato conclusioni che non furono accolte dalle autorità. Nella commissione per il restauro della facciata di S. Croce istituita nel '59 ebbe l'incarico di segretario; nel '61 fu nominato membro della commissione reale per giudicare le opere di scultura presentate all'Esposizione italiana.
Nel nuovo Stato unitario decise di impegnarsi attivamente nella politica; presentatosi candidato nelle elezioni del 1865, per il collegio siciliano di Serradifalco, fu battuto dal rivale dello schieramento clericale; ma nella successiva tornata elettorale (marzo 1867), presentatosi nello stesso collegio, ottenne la vittoria e in Parlamento andò a sedere tra i seguaci di Rattazzi, al governo prima e all'opposizione in seguito. Scaduto il mandato, non ottenne la designazione per rinnovare la candidatura ('70).
Sono indicative del suo tempo le parole con cui se ne lamentò con il fratello: "E se io vorrei [sic!] essere deputato non avrei che a dire una parola d'accettazione a qualcuno dei cinquanta collegi elettorali delle elezioni rispettive. Ma io per ora non voglio saper nulla; e senza la deputazione sono sempre lo stesso cioè uno dei più grandi scrittori del tempo (senza superbia)" (lettera al fratello Giuseppe, 23 dic. 1870, in Ghidetti, 1970, p. 29).
Nel '67 fu nominato commendatore. In seguito al matrimonio con una ricca proprietaria terriera inglese, Ann Alsager, celebrato a Tonbridge il 16 dicembre 1862, risiedette sempre più a lungo in Inghilterra, pur mantenendo il domicilio legale a Firenze. In questi anni realizzò molti viaggi visitando Olanda, Belgio, Germania, Austria, Spagna.
Morì il 14 ag. 1872 a Glenmoor, vicino ad Hastings, in Inghilterra, e fu seppellito a Ore, nei pressi di Hastings.
Come si è detto, la fase più intensa degli studi storici e letterari si colloca nel quindicennio che va dalla pubblicazione della Storia alla fine degli anni Cinquanta. È del 1845 I quattro poeti italiani (Firenze; prima ristampa Venezia '47 e molte successive riedizioni), ovvero Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Seguono: Florilegio dei lirici più insigni d'Italia (ibid. 1846), che comprende una scelta di composizioni annotate e commentate da Ciullo d'Alcamo a T. Tasso; Continuazione della Storia d'Italia di Giuseppe Borghi (ibid. 1847); la traduzione dall'inglese di La narrazione delle fortune e della cessione di Parga di U. Foscolo (ibid. 1850, vol. V delle Opere); la traduzione dall'inglese della Filosofia politica di H. Brougham (ibid. 1850-51), un lavoro in verità dovuto quasi interamente a R. Busacca, rimanendo merito precipuo dell'E. la promozione della stampa dell'opera; Compendio della letteratura italiana (ibid. 1851; poi riveduto da C. Teoli, pseudonimo di E. Camerini, Milano 1864), una versione della Storia rivolta alle scuole; Storia politica dei Municipi italiani (ibid. 1851, 2 voll., poi ampliata in 3 voll. E pubblicata con il titolo Storia dei Comuni italiani, ibid. 1864-66), dove tornava pienamente dispiegata la motivazione profonda della spinta allo studio del passato storico in quanto stimolo alla riflessione sul presente politico: lontana dall'E. ogni intenzione di obiettività, veniva ribadita qui una concezione della storia fortemente impregnata di motivi ideologici, civili e politici. La Storia dei Municipi, condotta sulle fonti e i documenti (alcuni dei quali riportati in appendice), conferma il duplice impegno dell'E. come studioso, nell'erudizione da un lato e nella passione civile dall'altro. Da un'analoga intenzione mediatamente politica nasceva la traduzione dall'inglese della Storia d'Inghilterra di T. B. Macaulay (ibid. 1852-1853), un testo fondamentale del pensiero liberale che infatti suscitò, alla comparsa in Italia, le reazioni degli ambienti conservatori e reazionari. Un'attività come si vede intensissima alla quale va aggiunta la cura delle edizioni della Divina Commedia di Dante Alighieri (ibid. 1846), di Il secreto e le rime di F. Petrarca (ibid. 1847), delle Prose di G. V. Gravina (ibid. 1857), del Decameron di G. Boccaccio (ibid. 1875), dei Drammi scelti di P. Metastasio (Milano s.d.), nonché Cenni sopra Alessandro Tassoni, in Ricordi di famiglia per le nozze di Eugenio Michelozzi con la marchesa Eleonora Tassoni (ibid. 1854, pp. 75-94) e la Storia del teatro in Italia (ibid. 1860, ristampato nel '69), un'operazione ambiziosa, dato che l'uffico precedente era una Storia di P. Napoli Signorelli, che si arrestò tuttavia al primo volume (Poliziano), dove erano ripresi molti dati già utilizzati nella Storia della letteratura.
A questo ampio impegno editorale vanno affiancate le collaborazioni ai periodici italiani (La Perseveranza, Il Crepuscolo, oltre le Effemeridi già citate), francesi (Gazette des beauxarts, 1858-61), e inglesi (Tuscan Athenaeum, stampato a Firenze, Contemporary Review e vari quotidiani).
Risulta solo apparentemente ai margini di questo tipo di produzione il romanzo dal titolo Beppe Arpia che l'E. pubblicò a Firenze nel 1851, come sostiene E. Ghidetti nell'introduzione alla ristampa (Bologna 1970, p. 8), che contesta la data 1852universalmente accreditata, attribuendola, in via di ipotesi, a una seconda stampa del libro immediatamente successiva alla prima. Nel romanzo è presente ed anzi esibita la medesima attitudine moralistica e polemica che anima le opere storiche e storico-letterarie; già nel Dialogo premesso alla narrazione sono fissate le ragioni dell'E. nel riferimento alla sua attività narrativa e critica, come nel confronto polemico con la situazione letteraria contemporanea in Italia. Si fronteggiano figure-simbolo del passato come l'Accademico, del presente respinto come l'Anglomano e il Gallomano che raccolgono l'avversione dell'E. nei confronti della letteratura romantica, qui ribadita in chiusa di romanzo; e ancora l'Ipocrita, l'Editore, il Critico, ecc., e finalmente l'Autore insieme con lo Strozzino e lo Strozzato. Perché il Beppe Arpia protagonista del romanzo è appunto uno strozzino modellato sull'immagine stereotipata dell'avidità e della sordidezza tipica della sua attività, a cui qui fa da contraltare l'amore per il figlio, lo stupido Babbiolino. La storia consiste nei traffici che intercorrono tra lo strozzino e una corrotta marchesa per arrivare a concludere un matrimonio che procurerà vantaggi ad entrambi, attraverso però il sacrificio della bella e virtuosa figlia della marchesa, Amalia (che ama riamata il valoroso conte Cavalcanti, destinato a morire da eroe nella battaglia di Curtatone), costretta a sposare il deficiente figlio dello strozzino. I personaggi e le situazioni richiamano i tratti tipici del romanzo popolare e d'appendice (era recente il successo dei Misteri di Parigi di E. Sue), con i contrasti netti e privi di sfumature, i colpi di scena, le peripezie, la caratterizzazione dei personaggi di contorno, la ripresa di motivi canonici, come la fanciulla perseguitata, la prepotenza dei vizioso, ecc. Ma l'interesse principale dell'E. è trasparentemente per la pittura d'ambiente, per la denuncia, tinta di moralismo, di figure e viluppi di eventi segnati da una forte carica di negatività; sicché il romanzo, a cui la critica non ha riconosciuto alcun effettivo valore estetico e letterario, presenta tuttavia qualche interesse, se si colloca nel quadro dei tentativi di rinnovamento del genere dopo la grande stagione manzoniana, nella direzione di quel romanzo sociale che qualche anno dopo si svilupperà anche in Italia con esiti più felici. In questo senso anche l'adozione del fiorentino come trama linguistica non si richiama - ha notato la critica - alla lezione manzoniana, ma piuttosto riprende e conferma la linea classicistica e antiromantica teorizzata e praticata, per esempio, da G. B. Niccolini. La volontà dell'E. di aderenza al "vero" esplicitata nell'introduzione, come i ripetuti strali lanciati contro la soffocante atmosfera imposta dal Granducato leopoldino, spinsero i primi lettori del romanzo a ravvisare nei personaggi e nelle situazioni della finzione allusioni a persone e fatti della cronaca fiorentina contemporanea; lo scandalo fu grande e l'autore fu costretto a ritirare il romanzo e a non ristamparlo più.
Va aggiunto all'elenco delle opere, per completezza d'informazione, che l'E. si attribui in varie occasioni la paternità di lavori di cui non esiste traccia, come tra gli altri una Storia di Michelangelo e dei suoi tempi, Essays on Sicilian painters, Spagna, Olanda; un tratto questo che contribuisce alla definizione della figura dell'E., una figura significativa e rappresentativa di una certa nostra cultura risorgimentale, per quanto riesce a ben rappresentare la commistione di allargamento all'Europa e radicamento insieme nella provincia, ma ancora più la miscela di forti componenti innovative e moderne con la persistenza di attitudini e di atteggiamenti mentali legati al passato.
Fonti e Bibl.: C. Tenca, A proposito di una Storia della letteratura italiana, in Il Crepuscolo, III (1852), 5, pp. 69-72; 6, pp. 85-88; 8, pp. 120-123; 10, pp. 149-153; 12, pp. 181-185 (ora in Id. Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze 1969, pp. 289-327); V. De Castro, Della vita e dell'opera di P.E., in Riv. contemp. naz. ital., XIV (1866), t. XLVII, pp. 185-215; G. Pitrè, in Nuovi profili biogr. di contemporanei italiani, Palermo 1868, pp. 61-69; A. Alsop, Brief memoir of P. E. by his widow, Hastings 1873; A. Aleardi, Due parole di commemor. sopra P. E., Firenze 1873; M. Villareale, Della vita e delle opere di P. E., Palermo 1873; Biografia del comm. P. E., Firenze 1874 (trad. inglese, Memoir of the comm. P. E., Hastings 1874); E. Camerini, in Nuoviprofili letterari, II, Milano 1875, pp. 226 ss.; C. Collodi, in Divagazioni, Firenze 1892, pp. 219 ss.; F. Guardione, Scritti, II, Palermo 1897, pp. 294-308; Onoranze a P. E. nella R. Università di Palermo per la solenne dedicazione di un busto il 7 giugno 1903, Palermo 1903; E. Scolarici, P. E. (con un'appendice di 160 lettere inedite), Palermo 1916; G. A. Borgese, in Storia della critica romantica in Italia, Milano 1920 pp. 312-330; A. Russi, P. E. e la storia letteraria dell'età romantica, in Convivium, XI (1939), 4, pp. 402-409 (ora in Id., Poesia e realtà, Firenze 1962, pp. 239-252); G. Getto, Storia delle storie letterarie, Milano 1946, pp. 178-221; B. Croce, in Storia della storiografia ital. nel sec. XIX, I, Bari 1947, pp. 267 ss., 276 s.; G. Getto, La storia letteraria, in Problemi ed orientamenti critici, II, Milano 1948, pp. 24-28; G. Mazzoni, L'Ottocento, II, Milano 1949, p. 1128; C. Cappuccio, Critici dell'età romantica, Torino 1961, ad Ind.; E. Ghidetti, Un romanzo dimenticato di P. E., in La Rass. della letterat. ital., LXVIII (1964), 2-3, pp. 410-418; G. Orioli, Teorici e critici romantici, in Storia dellaletter. ital. (Garzanti), a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, VII, Milano 1969, p. 499; E. Ghidetti, Introd. a P. Emiliani Giudici, Beppe Arpia, Bologna 1970, pp. 5-29; N. Tedesco, Strutture conoscitive e invenzioni narrative, Palermo 1972, pp. 290-295; M. Dillon Wanke, Per una storia del romanzo: da "Beppe Arpia" alle soluzioni rosa del Farina, in Studi di filologia e letteratura, 1975, n. 2-3, pp. 355-389.