DE BERNARDO, Paolo
Nacque a Venezia intorno al 1331, da Giovanni.
Figlio naturale, ebbe a suo dire una triste adolescenza, trascorsa errabonda tra la plebe di Venezia; nulla, in quanto illegittimo, avrebbe poi ereditato della pur modesta sostanza del padre. Buona parte di tali affermazioni, invero, appaiono puri topoi letterari, di un personaggio, come il D., particolarmente incline sia per moda umanistica, sia per natura al pessimismo e alle lamentele (Il notariato, p. 222). In realtà il padre., appartenente alla nobile famiglia dei De Bernardo di S. Polo, dovette preoccuparsi con molto zelo di assicurare al figlio naturale un'educazione e un futuro degni del proprio rango, indirizzandolo precocemente agli studi giuridici.
Nel 1349 il D. era già notaio della Quarantia, iniziando così giovanissimo la sua lunga carriera cancelieresca sotto la guida dell'amico del Petrarca Benintendi de' Ravegnani, che sempre il D. considerò suo maestro e modello, sia nell'ambito della cultura sia in quello della vita morale. Nel 1351 accompagnò il de' Ravegnani in una missione di pace presso il re d'Unglieria, Ludovico il Grande, che si preparava ad invadere i possedimenti dalmati di Venezia proprio nel momento in cui la Serenissima era duramente impegnata nella guerra con Genova.
Agli inizi del 1352 il D. rogava a Mestre; poi compare a Venezia, prima, nell'ottobre, al servizio del doge con lo stipendio di cinque lire di grossi, e in seguito, nel febbraio 1353, come notaio della Curia maggiore. Il 16 apr. 1354 fu al seguito di Pietro Morosin e di Niccolò Zeno, ambasciatori di Venezia presso la corte dei Gonzaga a Ferrara; e a Ferrara era nuovamente il 14 novembre di quello stesso anno, forse ancora al seguito di un'ambasceria. Nel marzo del 1356 fece parte di un'ulteriore ambasceria a Buda, tesa a trattare la pace con il re d'Ungheria per evitare l'invasione della Dalmazia e del Trevigiano.
Nonostante l'esito negativo della missione, al D. per il suo zelo fu aumentato lo stipendio a sette lire di grossi, e fu riconosciuta un'indennità di missione di venti ducati; inoltre, l'8 agosto, il Maggior Consiglio lo insigni del titolo di notalo "Veneta auctoritate", ovvero "notar grande". Quando Ludovico, conquistata la Dalmazia, si preparava alla conquista di Treviso, il D. si recò a Zara con Giovanni Gradenigo e Pier Trevisan, per trattare ancora una volta la pace: fu lui che riferì a Venezia le dure condizioni imposte dal sovrano e poco dopo, il 3 febbr. 1358, rogò a Zara il trattato di pace. La Signoria lo ricompensò dell'opera prestata con 25 ducati d'oro, e nell'anno seguente gli affidò nuovi incarichi diplomatici: agli inizi del 1359 il D. era infatti nuovamente presso Ludovico e, dopo un breve viaggio a Verona avvenuto poco dopo il 9 febbraio (Billanovich, 1974, p. 7), partì per Parigi con l'incarico di svolgere un'ambasceria presso il delfino Carlo. Alla fine di ottobre era tornato a Venezia, dove nel dicembre ricevette 25 ducati d'oro in ricompensa della missione, rivelatasi difficile e pericolosa. Dopo un bréve soggiorno a Verona, fu a Treviso, dove nel 1360 lo ritroviamo al servizio, come notaio, del capitano della città Luca Leoni; a Treviso rogò anche privatamente.
Nel 1362 era a Venezia, dove si unì in matrimonio con una Cecilia, da cui in seguito ebbe almeno un figlio, Franceschino, che risulta attivo nel 1389 (Gargan, p. 100 n. 3). Nello stesso anno tentò, secondo le tradizioni della classe dirigente veneziana, la mercatura: nel settembre infatti partì per Cipro con due galee comandate da due consanguinei. Non sappiamo quali siano stati gli esiti di tale impresa, ma è assai probabile che fossero insoddisfacenti, visto che il D. rinunciò ad ulteriori tentativi. Tra il giugno e il luglio del 1363 era di nuovo a Venezia, al Servizio del podestà Pietro Morosini (Gargan, p. III); poi, dal novembre, fu a Treviso, dove si trattenne fino alla metà del 1365. In seguito girovagò lungamente per i territori della Repubblica: fu a Conegliano tra il 1365 e il 1366, a Treviso tra il 1367 e il 1369, a Capodistria tra il 1369 e il 1371, data in cui risulta nuovamente a Treviso.
Da Capodistria intrattenne una polemica corrispondenza con l'ex amico Bernardo di Casalorzio, per motivi che restano oscuri: certo è che il D. lamenta che il Casalorzio, suo collega di notariato a Treviso, nonostante fosse stato da lui ampiamente beneficato, si era recisamente rifiutato di prestargli aiuto in un momento di grave necessità. Durante il soggiorno a Capodistria - peraltro amata dal D. per la vivacità della vita culturale - sono frequenti le lamentele relative a difficoltà economiche: ma è incerto, dato l'uso continuo nel suo epistolario di stilemi classicheggianti, se l'indigenza denunziata fosse reale, o fosse piuttosto la mancanza di quella totale sicurezza economica che gli avrebbe permesso di realizzare il suo sogno di dedicarsi unicamente agli otia letterari.
Nell'agosto 1371 era ancora a Treviso, donde scriveva a Stefano Ciera della sua intenzione di trasferirsi ad Asolo. In seguito non abbiamo notizie sul D. fino al 1375, quando soggiornava a Venezia; il 15 novembre di quell'anno si trasferì di nuovo a Treviso, dove gli incarichi affidatigli gli sembrarono troppo modesti. L'anno seguente tentò di migliorare la propria posizione concorrendo due volte, ma vanamente, alla prestigiosa carica di cancelliere della città. Il 1380 Segnò forse una svolta alla vita errabonda del D., che si recò a Negroponte, probabilmente come notaio al seguito di Andrea Zeno: in Eubea infatti, nonostante l'ambiente locale che giudicò incompatibile da un punto di vista culturale, riuscì a trovare, a quanto sembra, la tranquillità economica lungamente desiderata. Cessano, almeno nel suo epistolario, le continue lamentele sulla disagiata condizione economica. Nel 1381 tornò a Treviso, dove la sua presenza è testimoniata fino al 1392, quando ancora, insieme col figlio Franceschino, ricopriva per il primo trimestre la carica di notaio della curia minore; comunque doveva soggiornare talora anche a Venezia, dove nel 1388, in occasione di un viaggio a Roma, dettò testamento.
A Venezia, tra il 10 sett. 1388 e il marzo dell'anno successivo, il D. trascrisse la Prima Deca di Tito Livio, collazionando ed emendando con vivo senso critico i manoscritti a sua disposizione. L'opera, il cui rigore filologico dimostra che il rimpianto del D. per non essersi potuto dedicare interamente agli studi non era del tutto di maniera, giace inedita presso la Biblioteca nazionale di Parigi (cod. Lat. 5727).
Il D. morì nella città natale il 15 marzo del 1393.
Del D., fra i cui molti rimpianti era anche quello di aver trascorso tutta una vita nello studio della poesia senza aver mai composto un verso del suo, non è nota altra opera oltre la trascrizione critica della Prima Deca - che il vasto epistolario edito dal Lazzarini (P. D. e i primordi dell'umanesimo a Venezia) di sul cod. Vat. lat. 5233, che resta a testimoniare la cura del D. - che protagonista non poté diventare - di mantenere almeno assidui contatti con i principali rappresentanti della cultura settentrionale dell'epoca: il Petrarca in primo luogo, e poi Bonifacio da Carpi, Benintendi de' Ravegnani, Gabriele Dondi, Giacomino da Mantova, Stefano Ciera, Bernardo di Casalorzio, Filippo Cavallo, Giovanni di Conversino, Michele Alberti, Giovanni Girolamo Nadal, Pietro Nadal, Giacomino Robazzi. Per quel che riguarda il valore letterario dell'opera è certo inoppugnabile il giudizio secondo cui l'epistolario, tutto giocato sui soliti Leitmotiven umanistici dell'amicizia e del pessimismo, rientra anche formalmente "nello schema ... ufficiale ... adagiandovisi e cercando di imitare il più possibile i classici e i grandi del tempo" (Il notariato, p. 222): giudizio questo che ben può estendersi a tutta la biografia dei D. "umanista", tutto teso a vivere almeno di luce riflessa, attraverso una puntigliosa ricerca di corrispondenze letterarie. Tuttavia, pur restando all'interno del "genere" epistolografico trecentesco, talora le lettere del D. si distinguono per una sincerità tutta loro, quasi che rispondano più ad una esigenza di sfogo sincero dei propri sentimenti e delle proprie malinconie che a quella di costruirsi una maschera formale di uomo di lettere irrealizzatosi per colpa del destino: come bene intuì il Sapegno, per cui nel D. il "senso doloroso e scettico delle cose umane... non può essere sempre soltanto un'eco di ricordi classici".
Fonti e Bibl.: Per la biografia del D. il saggio fondamentale è L. Lazzarini, P. D. e i primordi dell'umanesimo a Venezia, Genève 1930 (su cui confr. la recens. di R. Sabbadini, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCV [1930], pp. 143-48), che pubblica l'epistolario del D. ed elenca la bibl. precedente. Assai utile inoltre, per un approccio critico al personaggio, risulta anche la voce dedicata al D. ne Il notariato nella civiltà italiana, Milano [1961], pp. 218-22. Cfr. inoltre: A. Massera, A proposito della Leandreide, in Arch. romanicum, IX (1925), pp. 194-97; L. Lazzarini. Amici del Petrarca a Venezia eTreviso, in Arch. venero, s. 5, XIV (1933), pp. 114; N. Sapegno, IlTrecento, Milano 1934, pp. 100, 164 n. 30; E. H. Wilkins, Petrarch's later years, Cambridge, Mass., 1959, pp. 138, 202; G. Billanovich, La prima lettera del Salutati a Giovanni di Montreuil, in Italia med. e uman., VII (1964), p. 342; L. Gargan, G. Conversini e la cultura letter. a Treviso nella seconda metà del Trecento, ibid., VIII (1965), pp. III ss., 115, 117, 125 s., 134, 149; R. Meneghel, La "Leandreide" di G.G. Nadal, ibid., XVI (1973), pp. 168 ss.; G. Billanovich, Terenzio, Ildemaro, Petrarca, ibid., XVII (1974), pp. 6 ss.; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 19, 21 s.