CORTESI (Cortesius, de Cortesiis), Paolo
Nacque a Roma nel 1465 da Antonio, abbreviatore pontificio di famiglia probabilmente originaria di Pavia successivamente stabilitasi a San Gimignano, e Tita (o Aldobrandina) degli Aldobrandini, di Firenze.
Quasi tutti gli studiosi concordano nell'attribuire la nascita del C. al 1465. Recentemente la Graziosi (De homin ..., 1973, p. VII) fondandosi sopra un passo del De cardinalatu (c. XIII), in cui il C. asseriva di essere nato cinque anni dopo la morte del cardinale Ludovico Scarampi, avvenuta nel 1465, ha proposto di spostare al 1471 la data della nascita del Cortesi. Tuttavia il Reg. Vat. 658, f. 157, prodotto dal von Hofmann (II, p. 118) e dal Paschini (Una famiglia, p. 27), accenna al C. come diciassettenne al momento della sua nomina a "scriptor apostolicus", avvenuta nell'ottobre 1481. Essendo impensabile che il C. fosse chiamato undicenne a questa carica, per essere definito diciassettenne doveva aver già compiuto il sedicesimo anno, cosa che rende probabile l'assegnazione della sua nascita alla prima metà del 1465. Inoltre il testo citato dalla Graziosi si può intendere nel senso che il cardinale Scarampi si era distinto come senatore sei anni prima della nascita del C.: "Ludovicus..., quo nemo affluentior in senatoria dignitate fuit sexennio ante me natum, est mortuus...".
Il C. ricevette un'accurata educazione nell'ambiente famigliare, sotto la guida del padre e del fratello Alessandro, che era di lui più anziano, nato nel 1460. Egli stesso ricorda con vivacità le visite che compieva in compagnia del fratello maggiore nelle case degli uomini illustri di Roma (De cardinalatu, c. CXIC), cosìcome la forte impressione e il desiderio di emulazione che suscitarono in lui le lezioni di Pomponio Leto (ibid., c. CIV).Frequentò inoltre la casa di Lucio Fazini, detto Fosforo, vescovo di Segni dal 1481, studioso erudito ed elegante, e quella di Bartolomeo Platina, scrittore apostolico e storico, del quale lodò nel De hominibus doctis "tanto il modo di vivere e di agire quanto l'espressione oratoria" e l'integrità dei costumi. Favorito senza dubbio dallo ambiente famigliare e dalle amicizie influenti ed altolocate, il C. proseguì nella carriera di Curia iniziata dal padre. Nell'ottobre 1481, per interessamento del fratello Alessandro, che così fu risarcito da Sisto IV per essere stato ingiustamente carcerato, fu nominato "scriptor" apostolico in sostituzione del defunto Platina, senza dover versare i 300 scudi d'oro che avrebbe dovuto pagare trattandosi di ufficio venale, e mantenne l'incarico sotto Innocenzo VIII e Alessandro VI. Come tale è ricordato nella lista degli "scriptores" trascritta dal Burckard nel suo Liber notarum, il 5 giugno 1493 (presente) e il 23 maggio 1497, in cui figura assente in occasione della processione del Corpus Domini.
Forse non a torto il Paschini (Una famiglia, p. 27) riconnette la sua assenza con le trattative private che si svolsero tra la famiglia Cortesi e la Repubblica di Siena, culminate con un salvacondotto del 12 ott. 1497 che garantiva ai Cortesi il transito nel territorio senese fino a San Gimignano.
Il 7 apr. 1498 il C. fu nominato segretario apostolico da Alessandro VI, in sostituzione del rinunciatario G. Alimenti (Arch. Segr. Vaticano, Reg. Later. 1031, f 48 v), e tenne questa carica fino all'8 giugno 1503, quando rassegnò le dimissioni ritirandosi a vivere nella sua villa di San Gimignano, costruita sulle rovine di un antico castello e ripristinata con mura e fossati. Sui motivi dell'allontanamento del C. dalla corte pontificia non si può dire niente di sicuro. Sembra che il C. avesse già presentato ad Alessandro VI la sua richiesta di dimissioni, e che il papa per ragioni che ci sfuggono fosse restio ad accettarle (Paschini, Una famiglia..., p. 37). Un suo eventuale dissapore con Cesare Borgia non trova conferma nel fatto che il C., dopo la sua partenza da Roma e la morte del pontefice (agosto 1503), non vi fece più ritorno ed attese esclusivamente ai propri studi letterari ed eruditi nella quiete di San Gimignano. Così lo presenta Raffaele Maffei nella prefazione del De cardinalatu: un uomo lontano dalle ambizioni curiali, ormai forse irreparabilmente deluse.
Falsa è la notizia raccolta da alcuni biografi, ripetuta ancora dal Guicciardini (Cusona, p. 112) e dal Cosenza (Dict. of the It. ..., p. 1121), di una sua nomina a vescovo di Urbino verso il 1510 (ingenerata probabilmente dalla confusione con Gregorio Cortese, che fu vescovo di quella diocesi).
La famiglia del C. fu per tradizione amante delle lettere e degli studi, a cominciare dal padre Antonio, e raccolse intorno a sé una scelta schiera di amici e di poeti. La massima fioritura di questo cenacolo è da riportare al 1490-1500. Tra gli ospiti della casa del C. si annoverano scrittori di primo piano, come il poeta Serafino Ciminelli (Serafino Aquilano), il bibliotecario apostolico Giovanni Lorenzi, il greco Manilio Rallo, il poeta Pietro Gravina di Palermo, Leonardo Corvino, vescovo di Montepeloso, il poeta Michele Marullo, il grammatico cremonese Bartolomeo Lampridio, il poeta-improvvisatore toscano Giacomo Corso. Anche se non direttamente il C. fu inoltre in rapporto con alcuni degli esponenti più noti del mondo umanistico: Ermolao Barbaro (Epistolae, p. 86), Pico della Mirandola, Angelo Poliziano. A quest'ultimo egli inviò una silloge delle proprie lettere, che si riprometteva di pubblicare, per sollecitarne l'opinione in merito. La risposta del Poliziano (Epist., VIII, 16)fu lapidaria: "pudet bonas horas male collocasse". Tuttavia non si trattò di una risposta scortese, ma di un appunto critico, da maestro a discepolo, allo stile del C., troppo dedito all'imitazione di Cicerone. Inutile scrivere lettere, intendeva dire il Poliziano, e raccoglierle per la pubblicazione, se l'unico scopo, e dichiarato, era quello di "liniamenta Ciceronis effingere". Per questo, era più opportuno risalire agli originali. Il C. controbatté a sua volta con una lunga lettera (ibid., VIII, 17, s.d., ma anteriore al 1490) con la quale ebbe inizio una delle polemiche più note, e più annose, dell'intero umanesimo italiano.
Di fronte alla concezione della libertà stilistica, che era poi libertà creativa ed estetica, propugnata coerentemente dal Poliziano in merito alla scelta e all'elaborazione dei modelli letterari nell'ambito dell'intera latinità (neanche il Poliziano si discosta dalla teoria dell'imitazione-emulazione, ma rivendica l'intervento soggettivo dell'autore in sede di trattazione artistica), il C. rifiuta a priori l'esplorazione stilistico-grammaticale degli esemplari latini in senso diacronico, per accordare il suo assenso e la sua entusiastica adesione a una dottrina di tipo formale-descrittivo. La risposta del C., in rapporto alle rapide metafore e agli incisivi accostamenti dell'epistola del Poliziano, appare alquanto scialba e prolissa. Tuttavia sembra accettabile e sensata la sua distinzione tra l'imitazione dello stile ciceroniano, momento culminante della lingua latina, valida e legittima se nutrita dello stesso nerbo che ispirava Cicerone, pedantesca e stentata se si risolve in una futile riproduzione fraseologica. Al Poliziano, che affermava di preferire "tauri facies aut item leonis quam simiae", il C. obiettava di voler essere simile, "non ut simiam hominis sed ut filium parentis". Qui si coglie la differenza dei due temperamenti. La grandezza scontrosa del Poliziano rifiutava il presupposto stilistico di un successo letterario a portata di chi avesse la pazienza, e la diligenza, di riprodurre Cicerone, in nome di una risentita rivendicazione della propria autonomia artistica; il C. cercava di salvarsi dall'accusa di essere un plagiaro di Cicerone invocando quei "nervos et aculeos" che costituivano la forza dell'eloquenza del romano, ma dimenticando che qualsiasi imitatore avrebbe potuto difficilmente farli rivivere, per la differenza di personalità e di condizioni storiche. Anche in seguito il C. rimase delle sue idee, senza aderire alla geniale latinità del Poliziano, poi ripresa e convalidata da Erasmo da Rotterdam nel suo Ciceronianus;tuttavia riconobbe che la sua lettera fu pubblicata "apologetica ratione" e poté sembrare importante "non tam... maturitate... quam aetatis spe et ingenii significatione".
Lo scambio polemico tra il Poliziano e il C. ebbe una risonanza che superò la loro stessa esistenza: nel primo si riconobbero in germe Erasmo e tutti coloro che propugnavano libertà assoluta nelle scelte artistiche, nel secondo i fautori di un anacronistico, se pur fascinoso, ritorno a una latinità decorosa e solenne, ma prevedibile e irrigidita in stereotipi che probabilmente lo stesso Cicerone avrebbe respinto. Molto acutamente, il Garin (Polemiche, p. 21) vede nella posizione del Poliziano la formulazione appassionata di una scienza dell'antichità che coinvolge comprensivamente tutti gli aspetti della molteplice attività umana, e contrappone questa concezione, intesa quale "modo di vita", a quella del C. "che riduce l'impegno umano nell'ambito della retorica". Senza arrivare a uno schematismo così radicale, si può comunque, sempre restando nell'ambito della disputa letteraria, assegnare al Poliziano una visione dinamica ed evolutiva (tanto più notevole in quanto impegnava in questo processo una lingua morta), al C. una statica e ripetitiva dell'arte e della creazione letteraria. Che la polemica con il C. restasse ristretta all'ambito accademico senza conseguenze personali, dimostrano i rapporti intrattenuti dal Poliziano con Alessandro, fratello del C., e la sua partecipazione al lutto per la morte dello stesso Alessandro, avvenuta nel 1490. Il C., scrivendo in quell'anno a Pico, chiama il Poliziano "amores et délitiae nostrae" e invidia a Pico la consuetudine di vita con lui e con tanti ingegni (Garin, Carteggio, p. 590). Anche il Marullo, vecchio amico di famiglia, fece le condoglianze per il grave lutto, provocando la risposta del C., che si rammaricò di non averne avuto di persona i conforti (Marullo, Carmina, pp. 220 s.). Il C. fu inoltre in rapporti epistolari, se non di amicizia, con Lorenzo e Piero de' Medici, come mostrano alcune lettere scambiate nel 1491 (De hom. doctis…, 1973, p. IX).
L'attività letteraria del C. fu varia e importante. Egli fece inizialmente qualche concessione ad opere di intrattenimento e di svago. Si ha infatti notizia di un suo sonetto volgare mandato nel 1493 da Roma a Piero de' Medici (Cian, Per B. Bembo, p. 363); 7 strambotti in volgare - i primi 5 di argomento amoroso e stretta imitazione petrarchesca, gli altri due di contenuto sentenzioso - furono pubblicati nella Comp. di cose nuove di V. Calmeta …, Venezia 1507 e inseriti in seguito nel "Parnaso Italiano", XII, Venezia 1851, col. 135-137 (cfr. Menghini, pp. 17-27); si conosce dal manoscritto Panciatichiano 117 (219) della Biblioteca nazionale di Firenze, la rielaborazione in prosa latina della novella di L. B. Alberti Historietta amorosa fra Leonora de' Bardi e Ippolito Buondelmonti (L. B. Alberti, Op. volgari, III, pp. 439 ss., ed. Bonucci) con il titolo Historia vera Hippolyti de Bondelmontibus et Deianirae de Bardis, che fu scritta quando il Fazini era già vescovo di Segni, dato che così si qualifica nella prefazione (Panc. 117, f. 2), quindi dopo il 1481. Carmina vulgaria del C. contengono inoltre i codici Urb. lat. 729 della Vaticana e il II. X. 54 della Nazionale di Firenze. Non sembra che, a differenza del fratello Alessandro, il C. fosse profondo conoscitore della cultura greca, cosa che contribuisce a restringere il suo orizzonte culturale.
Negli anni tra il 1490 e 1491 il C. attese a scrivere, a imitazione del Brutus ciceroniano, un dialogo De hominibus doctis che dedicò a Lorenzo de' Medici, e che con il De poetis di Lilio Giraldi è uno dei primi e maggiori documenti di storiografia letteraria umanistica. Tale opera, rimasta a lungo inedita, ma conosciuta in codici del sec. XVIII, fu pubblicata per la prima volta a Firenze da Bernardo Paperini nel 1729 (riedizione a cura di G. C. Galletti, Firenze 1847); recentemente ne sono state date due edizioni critiche: da M. T. Graziosi (Roma 1973) e da G. Ferraù (Palermo 1979).
Seguendo illustri modelli classici, il C. immagina di riferire un dialogo svoltosi tra Alessandro Farnese, futuro Paolo III, se stesso e "Antonius quidam maior natu" (De hom. doctis, 1973, p. 6), che la Graziosi propende a identificare con il grammatico Giovanni Antonio Sulpizio di Veroli, vissuto anche a Roma, maestro del C. e del Farnese per testimonianza dello stesso C. (De cardinalatu, cc. LXVIIIv, CXCVI). Lo sfondo del dialogo è l'isola Bisentina sul lago di Bolsena, possedimento della famiglia Farnese, frequentata dal C. e da altri dotti. La cornice dialogica, come nelle opere ciceroniane, è tuttavia poco più che un pretesto per delineare una specie di storia letteraria. Manca ogni caratterizzazione degli interlocutori (tranne la marcata prevalenza di uno di essi sugli altri due come da maestro a discepoli), e la trattazione si snoda corretta, ma sostanzialmente fredda, giustificandosi come una esemplificazione delle teorie retorico-formalistiche che erano state esposte dal C. nella lettera al Poliziano.
Nell'opera sono passati in rassegna, a partire dal Crisolora, novantatré scrittori della epoca del C. o del secolo precedente, come Dante, Petrarca, Boccaccio, analizzati in funzione della loro minore o maggiore aderenza al modello ciceroniano, e in base alla regolarità con cui applicarono le sue indicazioni stilistico-retoriche. A volte, come nel caso degli storiografi, lo scolastico criterio formale può connettersi con la raccomandazione, di tipica ascendenza ciceroniana, a distinguere tra "res" e "verba" e ad armonizzarli nella narrazione dei fatti e nell'esposizione dei discorsi diretti. L'interpretazione moraleggiante della storia in funzione educativa si unisce nel dialogo, senza particolare originalità, al concetto di poesia come estrinsecazione percettibile di un contenuto per mezzo di adeguate risorse linguistiche e stilistiche. L'intervenuta polemica con il Poliziano spiega l'assenza dal catalogo dei letterati fiorentini più vicini al C. nel tempo (ad esempio, Ficino e il Poliziano stesso), mentre l'ambiente romano, il clima dell'Accademia e della scuola del Leto, gli studiosi e i filologi della cerchia pontificia sono tratteggiati con la vivacità propria dell'esperienza diretta.
Il dialogo, benché manoscritto, venne accolto con particolare favore dai contemporanei dell'autore, e utilizzato e citato anche nei secoli successivi. Una analisi critica ancor valida ne diede il Sabbadini (Storia, pp. 33 ss.). Il Ferraù, che lo ha esaminato di recente, tende a negare il valore tecnico dell'esposizione del C., il cui linguaggio mancherebbe di incisività critica e pregnanza terminologica. Pur costituendo un capitolo della "querelle des anciens et des modernes", la opera del C. risente di pregiudizi classicistici, quale la netta divisione tra il medioevo barbarico e l'umanesimo-rinascita, che ne appiattiscono la dimensione storico-critica. Secondo il Ferraù, la sottintesa polemica del C. non investe soltanto la libertà creativa reclamata dal Poliziano, ma riguarda anche, con la prevalenza accordata all'ars sul furor creativo, la speculazione estetica di derivazione platonica, caratteristica del Ficino (il "De homin.", 1971, p. 287).
Negli ultimi anni del suo soggiorno romano il C. attese ad alcune opere che rielaborò e portò a termine nella quiete di Castel Cortesiano. Aveva progettato un trattato sull'educazione del principe (a imitazione forse della Ciropedia di Senofonte), ma ritenne opportuno ad un certo punto separare la parte riguardante le sentenze dei teologi, da quella contenente la precettistica. Nel 1504 furono pubblicate a Roma le In quatuor libros Sententiarum... disputationes, precedute da una dedica a Giulio II, in cui il C. seguì i consigli del monaco Severo di Piacenza nel tentativo di eliminare il dissidio tra "sapientia" teologica ed "eloquentia" profana (Cantimori, Questioncine, p. 277), e sottopose a una revisione stilistica le "sententiae" di Tommaso d'Aquino e Giovanni Scoto (ossia la "theologia" di Pietro Lombardo, rivista dai suoi commentatori).
Che in questa compilazione, in cui alla secchezza terminologica e allo schematismo sillogistico della scolastica medioevale è sostituito un fluente periodare ciceroniano, sia da scorgere una risposta indiretta alle posizioni teoretiche della cerchia umanistica di Firenze, fautrice di una individuazione intellettualistica del divino, è opinione abbastanza probabile degli studiosi più recenti. Di sicuro, cercando di applicare alla veste puramente dottrinale della terminologia scolastica l'ornamento del latino classico, il C. viene a trovarsi su posizioni simili a quelle di Ermolao Barbaro, che aveva avuto a questo proposito uno scambio polemico con Pico della Mirandola. Non a torto quindi il Farris (Eloquenza, p. 13) riconosce nel proemio alle Disputationes il"completamento essenziale della lettera al Poliziano". L'opera fu ristampata nel 1513 a Parigi da Badius Ascensius e a Basilea dal Frobenius, nel 1540 a Basilea da Henricus Petrus insieme ad opuscoli del Savonarola.
Prima di completare il suo progetto letterario, il C. scrisse un trattato rimasto inedito, il De astrologia, che si conserva nel codice Vat. lat. 3923.A questo rispose il Pontano che gli dedicò il libro XII del De rebus coelestibus e alluse ai suoi studi astronomici nel libro IV dell'Urania. Intanto, procedendo faticosamente e con estrema cautela, il C. rifiniva, il De cardinalatu, dedicandolo a Giulio II. Lo incarico della stampa fu affidato dal C. al tipografo Simeone Nardi di Siena, che a questo scopo si trasferì nel 1510 a Castel Cortesiano (Fumagalli, p. 71). Per l'improvvisa morte dell'autore l'edizione, che reca i segni di una composizione conclusa febbrilmente, fu terminata da Raffaele Maffei, richiestone dal fratello del C., Lattanzio, e porta tre prefazioni: quella del C., la seconda del Maffei, l'ultima del monaco Severo; si divide in tre libri per un totale di trentaquattro capitoli. Sul cambiamento di rotta del C. potrebbe aver influito il suggerimento del cardinale Ascanio Sforza, e una speranza non troppo infondata di ottenere più facilmente la dignità cardinalizia, se avesse raccolto le norme dei comportamenti e dei doveri del perfetto principe della Chiesa, invece che di un principe del mondo. Una non trascurabile motivazione storico-contingente è inoltre fornita dalla caduta di Cesare Borgia (1504), in cui molti potevano vedere il modello del "principe" rinascimentale, per quanto sul mutamento di piano possa aver influito la mai obliata natura curiale del Cortesi.
Nel primo libro, "ethicus et contemplativus", il C. delinea la peculiarità della funzione cardinalizia, ed enumera le virtù e le conoscenze necessarie all'espletamento della stessa. Nel libro II "oeconomicus", il galateo che il cardinale deve seguire nei rapporti della vita privata e di quella pubblica viene esemplificato con citazioni e aneddoti. Il libro III "politicus" è una trattazione sistematica dei doveri e delle prerogative della carica, e pone una serie di problemi e risoluzioni pratiche, che il cardinale deve affrontare con successo negli atti ufficiali, ordinari (concistori, conclavi) e straordinari (eresie, scismi).
Il De cardinalatu ebbe favorevole accoglienza negli ambienti ecclesiastici elevati, a cui forniva un prezioso codice di comportamento; senza dubbio influì su Alessandro Farnese, che in esso viene spesso nominato. Che nell'opera sia da cogliere un sintomo dell'aspirazione tipica delle cerchie umanistiche romane e fiorentine di pervenire a un beneficio ecclesiastico (Dionisotti, Chierici, pp. 183 s.), è deduzione non dimostrabile, ma certo acuta. L'opera non dà mai l'impressione di sollevarsi all'altezza aristocratica, sociale e intellettuale, del suo corrispondente laico, il Cortegiano di Baldassar Castiglione. Ma nel complesso si presenta come lavoro lungamente meditato, equilibrato nelle formulazioni, prudente nelle conclusioni: l'abito del principe della Chiesa corrisponde a un ideale di compostezza classica e curiale, rilevata dalla veste ciceroniana dello stile e dei concetti e continuamente confermata e ravvivata dall'inserzione di narrazioni in funzione paradigmatica.
Il C. morì prima del 15 nov. 1510, senza aver potuto ottenere la dignità di cardinale a cui egli segretamente aspirava, lasciando suo erede il fratello Lattanzio.
Ebbe due fratelli: Alessandro, nato nel 1460 e morto nel 1490, che dal 1487 fino alla morte fu "magister registri supplicationum" pontificio, oltre che "scriptor sollicitator" (von Hofmann, II, p. 85), scrittore e poeta; Lattanzio, nato dopo il 1460, che militò sotto Alfonso duca di Calabria e scrisse una parafrasi, perduta, dei Commentari di Cesare (De cardinalatu, c. LXXXXVv). Lattanzio ebbe un figlio, Antonio, che continuò il nome dei Cortesi. La famiglia si estinse nella seconda metà del 1600 e con essa decadde fino a sparire del tutto anche la dimora di Castel Cortesiano.
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