CAPPELLO, Paolo
Nato nel 1452, terzogenito di Vettore e di Lucia Querini, apparteneva ad una grande famiglia del patriziato veneziano, e si imparentò poi con la potente casata dei Cornaro, sposando nel 1479 Elisabetta di Marco, sorella di Caterina regina di Cipro. Non abbiamo notizie della sua giovinezza, ma la tradizione marinara e mercantile della famiglia (il padre, dopo aver trafficato insieme con i suoi fratelli nel Levante, nelle Fiandre e in Inghilterra, era stato capitano generale da mar durante la guerra contro i Turchi) lascia supporre che, come tanti giovani della sua condizione sociale, dedicasse le sue più fresche energie ai commerci e agli affari.
E ancora, già vecchio, dettando il suo testamento, lasciava 1.000 ducati ciascuno alla figlia Lucia, al nipote Piero (del figlio Filippo) e a Carletto e Domenico Bon del fu Francesco, suoi parenti, con la condizione che questi capitali fossero riuniti in "un corpo" e "navegadi et trafegadi per anni quindexe continui in nome de mi Polo Capello Kavalier et procurator et che li conti etiam siano tenuti in mio nome, et finì li dicti anni quindexe sia partido el tutto sì cavedal come guadagno tra li dicti legatari a soldo per lira". Se poi gli esecutori testamentari avessero deciso "far navegar i dicti ducati tremillia più dei dicti anni quindexe, questo metto in sua libertà de poterlo far per quanto a loro parerà: et questo fazo azò dicti Carleto et Domenego che hora sono puti, habino tempo de poter navegar".
Coscienza mercantile tenace e radicata, dunque, che tende quasi a proiettarsi oltre i limiti della vita individuale attraverso i discendenti, e che intende il commercio come essenzialmente marittimo, sicché "navegar" diviene sinonimo di "trafegar". E tuttavia questa tradizione non impediva al C., come del resto agli altri grandi patrizi-mercanti, di possedere cospicue proprietà fondiarie in Terraferma: una a Rosà di Bassano, dove aveva una lussuosa villa, e un'altra in quel di Piove di Sacco, nel Padovano, che venderà nel 1528 per 3.000 ducati. Una seconda villa possedeva, forse, a Noventa Padovana.
Giunto a matura età, il C. intraprese il consueto cursus honorum, emergendo presto negli incarichi politici, diplomatici e più tardi militari. Nel 1480 fu ufficiale all'armamento e nel 1492 venne inviato ambasciatore in Ungheria assieme a Marco Dandolo per stringere alleanza con re Ladislao contro i Turchi. Pare che nel 1495 si trovasse con l'esercito veneto alla battaglia di Fornovo. Eletto ambasciatore alla corte di Napoli, partì da Venezia il 19 febbr. 1496 per unirsi a Ravenna col marchese di Mantova e le sue genti, che al soldo della Repubblica scendevano verso il Regno per partecipare alla campagna contro i Francesi.
La missione del C. finì per essere insieme diplomatica e militare, svolgendosi quasi costantemente al campo, dov'era anche il re, tra conversazioni politiche e consigli di guerra, cui l'oratore veneto partecipava regolarmente.
Sostituito alla fine del 1497 da Marino Zorzi, il C. tornò a Venezia il 12 maggio e dieci giorni dopo rese conto al Senato della sua legazione.
Il 15 sett. 1498 il C. fu eletto oratore a Roma in luogo di Girolamo Donato, ma raggiunse la sede soltanto il 23 maggio 1499, rimanendovi sino al 19 sett. 1500, quando venne sostituito da Girolamo Lion.
Fu questa indubbiamente, sotto l'aspetto politico, una legazione assai più difficile della precedente. Complessa e delicata era la posizione di Venezia, presa nelle ambagie d'una alleanza con la Francia e il papa, fondata su d'un rischio mal calcolato, viziata da gravi riserve mentali e dalla crescente preoccupazione per l'incalzante espansionismo borgiano nella Romagna e per l'insediamento dei Francesi nel cuore dell'Italia settentrionale, cui del resto gli stessi Veneziani avevano incautamente cooperato. Contemporaneamente la Repubblica doveva misurarsi in una nuova sfortunata guerra contro i Turchi (1499-1503).
I dispacci del C., ampiamente riportati dal Sanuto, ce lo mostrano occupato a contrastare le mire di Alessandro VI e del Valentino su Rimini e Faenza, per le quali nondimeno alla fine la Repubblica dové lasciare mano libera, e a respingere anche la pretesa del pontefice d'investire il figlio del feudo di Ferrara. Frequenti pure gli appelli al papa per sollecitare aiuti politici, militari e finanziari per la guerra contro i Turchi, nulla ottenendo peraltro - ma era già un successo - se non la concessione d'imporre una decima straordinaria al clero.
La relazione che il C. fece al Senato il 28 sett. 1500 (Sanuto, III, coll. 842-48) ci pone innanzi ad un politico maturo, sicuro e franco nel giudizio, quale egli si dimostrò del corso restante della sua lunga carriera. Con chiarezza, in particolare, egli avvertiva che la Repubblica era "odiata" alla corte di Roma per il recente acquisto di Cremona e della Ghiara d'Adda e per la lega con la Francia ("...e tengono overo il re o la Signoria nostra sarano signori de Italia") e infine per il conferimento dei benefici ecclesiastici, "maxime li minimi", denunciando con una franchezza che certo doveva spiacere a molti in Senato, "che lui orator havea forzieri pieni di lettere di recomandation e di benefici, e letere di la bancha [cioè della Signoria] contraditorie". Notevole il fosco quadro della Roma borgiana.
Il C. assunse subito l'ufficio di savio di Terraferma, cui fu rieletto anche nel marzo 1501. Nello stesso anno fu pure avogador di Comun, e nell'ottobre venne designato vicedomino di Ferrara. Dal 1502 al 1506 fu ininterrottamente al governo della Repubblica, alternandosi di volta in volta nelle cariche di savio del Consiglio, savio di Terraferma, membro del Consiglio dei dieci, di cui fu spesso capo, e infine di consigliere ducale. Nel luglio 1506 fu eletto capitano di Cremona, ove fece eseguire importanti lavori alle fortificazioni del castello. Tornato a Venezia il 21 sett. 1508 entrò subito nel Consiglio dei dieci. Cominciava intanto nella primavera del 1509 la guerra della lega di Cambrai contro Venezia.
Il 16 maggio, mentre una folla ansiosa e sgomenta di patrizi e popolani sostava presso il palazzo ducale, dove andavano giungendo le prime drammatiche notizie della disfatta di Agnadello, il Senato pensò di ricorrere all'energico patrizio eleggendo il C. provveditore in campo, assieme a Giorgio Emo. Ma il coraggio e il senso del dovere, che pure non gli mancavano, non gli bastarono per assumersi tanto grave responsabilità, mentre tutto il dominio di Terraferma andava crollando come un castello di carte. Così rifiutò, come l'Emo, adducendo a pretesto il suo mal francese (di cui del resto più volte accusò in seguito le sofferenze) e l'importante compito che gli incombeva di membro del Consiglio dei dieci deputato a sovraintendere alle artiglierie.
Il rifiuto sollevò viva indignazione nel Collegio e in tutto il patriziato, che coinvolse con particolare severità il C. nell'ondata d'impopolarità che fece cadere in quei mesi, durante le rielezioni dei Consigli, numerosi membri del governo. Più volte, avvertendo che non era "in bona gratia" della nobiltà, il C. preferì sottrarsi all'alea delle elezioni, facendosi porre in nota tra i debitori della Repubblica allo scopo di risultare ineleggibile. Tuttavia era così alto il suo prestigio che il Senato lo elesse a far parte della solenne ambasciata, composta di sei tra i più esperti e autorevoli patrizi, incaricata di recarsi a Roma con lo scopo di spezzare la coalizione antiveneziana accogliendo tutte le condizioni poste da Giulio II.
Le vicende di questa difficile e ingrata legazione sono note. Partiti da Venezia il 19 giugno, dopo lunga anticamera e faticose trattative, gli oratori ottennero il 24 febbr. 1510 l'assoluzione della Repubblica dall'interdetto e l'accordo di pace, premessa all'alleanza veneto-pontificia. Ritornati a Venezia, toccò al C. fare il 1º aprile al Senato la relazione (Sanuto, X, coll. 71-75), nella quale si rispecchia il realismo e la consumata esperienza del diplomatico.
Eletto nuovamente provveditore in campo (18 maggio 1510), questa volta il C. accettò, partecipando al fianco di Andrea Gritti alla riconquista di Vicenza. Avendo il Senato ordinato che una parte dell'esercito si portasse sul Polesine, assunse il 3 ott. 1510 il comando d'un corpo di 3.000 uomini d'arme, 1.000 cavalli leggeri e 2.000 fanti, con cui l'8 ottobre conquistò il castello di Ficarolo, e, gettato un ponte di barche sul Po, passò il 30 ottobre nel Ferrarese. Presa Concordia e forzato il passaggio del Secchia, rompendo le forze francesi che gli si opponevano, andò a riunirsi alle milizie pontificie che assediavano Mirandola.
Le numerose lettere del C. al Senato e al figlio Filippo, trascritte o riassunte dal Sanuto, costituiscono una viva testimonianza di quella campagna militare e dei problemi che quotidianamente assillavano in quei tempi i provveditori in campo della Repubblica, sempre alle prese con le indocili milizie mercenarie, rese ancor più irrequiete dai consueti ritardi delle paghe.
Stretta e cordiale appare in quei mesi la collaborazione del C. e del legato veneto Girolamo Lippomano con l'energico Giulio II che, com'è noto, si trovava al campo per animare e controllare i suoi fiacchi e infidi condottieri. Caduta Mirandola (20 genn. 1511), i Veneto-pontifici si volsero contro Ferrara, ma fallito il tentativo d'impadronirsi d'una bastia sul Po per bloccare l'afflusso dei viveri, l'impresa fu abbandonata. Ritiratosi dietro il Panaro (maggio 1511), sotto la crescente pressione dei Francesi, il C. condusse abilmente le operazioni difensive, cogliendo diversi successi tattici in scontri limitati. Ma l'improvvisa caduta di Bologna e la precipitosa e disordinata fuga dei Pontifici coinvolsero nella disfatta anche i Veneti, che stavano accampati a Ponte di Reno, a poche miglia da Bologna. Assalito di sorpresa con grande impeto dai nemici e da grosse bande di contadini, il C. riuscì a stento a porsi in salvo con una parte della cavalleria, perdendo molti uomini, l'artiglieria, i carriaggi e perfino tutti i bagagli personali (22 maggio 1511). Ritiratisi a Cesenatico, i Veneti furono raccolti e posti in salvo dalla flotta inviata in loro soccorso.
Al valoroso comportamento del C., oltre che alla sua influenza e ad un'offerta di 1.500 ducati alla Repubblica, si deve probabilmente la grazia ottenuta allora dal figlio Filippo, condannato alcuni mesi prima a dieci anni di confino a Treviso per aver aiutato il cognato Alvise Soranzo a sottrarsi con la fuga ad un suo creditore: vicenda questa che aveva angustiato non poco il C., costretto ad assistere da lontano alla disgrazia del figlio e del genero.
Benché il C., provato dalle fatiche, chiedesse d'essere sollevato dalla carica, il Senato non volle rinunciare ai servizi d'uno dei suoi pochi uomini sperimentati nella guerra terrestre, e non gli concesse neppure di tornare per un giorno a Venezia. Giunto a Chioggia da Cesenatico, il C. dovette raggiungere direttamente il campo a Lonigo, per affiancarsi ad Andrea Gritti nella condotta della campagna che si combatteva tra il Vicentino e il Veronese contro i Francesi.
Finalmente, avendo il Senato deciso di richiamare uno dei due provveditori in vista della stasi invernale, il C. poté ritornare a Venezia il 17 novembre, entrando subito savio nel Consiglio. Quando nell'imminenza della primavera si delineò la ripresa delle operazioni da parte d'un forte esercito francese guidato da Gastone de Foix, egli venne nuovamente nominato provveditore in campo assieme a Domenico Contarini (5 febbr. 1512). L'ardore e l'energia non l'abbandonavano, ma l'inferiorità militare lo costringeva ad assistere impotente alla caduta e al sacco di Brescia (19 febbr. 1512). Sfogava la sua amarezza con severe recriminazioni verso l'imprevidenza del Senato, invano sollecitato a prendere gli adeguati provvedimenti finanziari e militari per fronteggiare l'offensiva nemica. Indebolitisi intanto i Francesi nonostante la vittoria di Ravenna, mentre nuove milizie affluivano a rafforzare l'esercito ispano-pontificio, i Veneti, affiancati dagli Svizzeri, potevano prendere l'iniziativa in Lombardia, costringendo i nemici a ripiegare dalla Romagna e ad abbandonare progressivamente l'Italia. La guida dell'esercito, caduto a Brescia il Gritti nelle mani dei Francesi, restava ora affidata principalmente al C., che poté condurre senza eccessive difficoltà i Veneziani al recupero di Bergamo e di Crema, alla conquista di Pavia e di Cremona, cui risparmiò il sacco facendo offrire agli Svizzeri una taglia.
Mentre il C. si trovava ancora con l'esercito nel Bresciano, Leonardo Emo, tornato dal campo, levava contro di lui il 28 dicembre in Senato alcune pesanti accuse: che non si era avuta Brescia per sua negligenza e incapacità, avendo egli fatto piazzare le artiglierie troppo lontano; che pure alla sua negligenza si doveva la rotta subita in Romagna; ed infine che era responsabile di malversazioni per migliaia di ducati e di indiscriminate razzie di animali e di beni nel Bresciano, con cui aveva riempito le sue possessioni di Rosà, ed in conclusione: "è la ruina dil campo, di pocho governo, pocho amado da le zente d'arme, non ha cuor...".
I due sindaci in Terraferma, inviati ad istruire il processo, assolsero pienamente il C. da ogni addebito (13 genn. 1513), ma egli, ormai stanco e provato anche dalle disgrazie familiari (il fratello Alvise era perito in luglio nel naufragio d'una galea che lo portava ad assumere la carica di duca di Candia) ottenne di essere sostituito e poté tornare a Venezia il 6 marzo 1513.
Nella relazione esposta ampiamente al Senato il 10 marzo, denunciò coraggiosamente le responsabilità del governo: "non è condutier in campo non habi il suo protetor in Colegio, e cargò il Colegio assai: è facili a creder; danno conduta e non hanno pratica di le zente" (Sanuto, XVI, coll. 24 s.).
Per espresso desiderio di Leone X il C. venne eletto tra i dieci ambasciatori per l'elezione del nuovo papa, ma la legazione non ebbe poi luogo in seguito al rovesciamento delle alleanze che vedeva Venezia nuovamente collegata con la Francia, mentre il pontefice restava, strettamente legato alla Spagna e all'Impero. A questa svolta politica il C. s'era opposto invano in Senato, come più volte in quei due drammatici anni 1513 e 1514, in cui Venezia praticamente sola dovette fronteggiare gli eserciti ispano-imperiali, rimanendo inascoltato consigliere d'una condotta militare prudente, che evitasse la battaglia campale nella quale le milizie venete rischiavano, come infatti avvenne a Motta, di venire travolte. Pronto però alle risoluzioni più decise nell'esortare all'offensiva per il recupero del Friuli (ottobre 1514) e alla riconferma dell'alleanza francese con un deciso impegno militare, quando finalmente nel 1515 il nuovo re Francesco I si dimostrò deciso a scendere in forze per riconquistare il ducato di Milano. Come più tardi, nel gennaio del 1525, consigliò di restare fedele all'alleanza con l'Impero.
Non vi era insomma nel C., come del resto nella maggioranza del patriziato, un'adesione pregiudiziale ad una posizione filofrancese o filospagnola. Ma nell'insieme dei suoi atteggiamenti è dato di cogliere una tendenza costante, ispiratagli forse dalla sua esperienza politico-militare, a privilegiare il calcolo delle opportunità immediate e contingenti basato sulla valutazione delle forze in campo, a scapito d'una prospettiva di largo respiro, che induceva invece la maggioranza del Senato, con più matura visione politica, ad affrontare tutti i rischi e i sacrifici necessari a contrastare il consolidamento d'una potenza egemone in Italia.
Dal 1513 fino alla morte il C. sedette praticamente senza interruzione al governo della Repubblica, come savio del Consiglio o membro del Consiglio dei dieci, partecipando assiduamente ai dibattiti del Senato. Degni di nota alcuni suoi interventi per sollecitare energiche misure volte a difendere dai Turchi i possedimenti del Levante, rievocando immancabilmente la memoria del padre suo capitano generale da mar. Le cronache ci ricordano anche diversi cospicui prestiti offerti alla Repubblica. Ricoprì pure vari uffici minori; nel 1516 rifiutò per ragioni di salute l'elezione a bailo a Costantinopoli, e nel 1522 non accettò una nuova legazione a Roma.
Era certo uno dei più autorevoli esponenti del patriziato, tanto che nel 1521 nell'elezione del doge raccolse qualche voto al primo scrutinio dei Quarantuno, e nel 1523, morto il Grimani, fu tra i candidati al corno ducale, che toccò però ad Andrea Gritti. Il 6 ott. 1524 il Maggior Consiglio gli conferì il massimo onore dopo quello dogale, eleggendolo procuratore di S. Marco de Ultra.
Morì il 26 ott. 1532 e venne sepolto nella chiesa della Scuola della Carità. Il suo ritratto, effigiato dal Tiziano nella galleria degli uomini illustri che decorava la sala del Maggior Consiglio, andò distrutto durante l'incendio avvenuto nell'anno 1577.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, I-LVII, Venezia 1879-1902, ad Indices (isommari delle due relazioni di Roma del 1500 e 1510, tratti dal Sanuto, sono pubbl. anche in Relazioni degli ambasc. veneti al Senato, s. 2, III, Firenze 1846, pp. 1-24); Dispacci degli ambasciatori venez. alla corte di Roma presso Giulio II (25 giugno 1509-genn. 1510), a cura di R. Cessi, Venezia 1932. Altre notizie in Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, pp. 243, 245, 262; G. Degli Agostini, Notizie istor. critiche degli scritt. veneziani, II, Venezia 1754, pp. 284 s.; P. Bembo, Rerum Venetarum historiae, in Opere, I, Venezia 1729, pp. 208, 267, 291 s., 324; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 240 s.; F. Nicolini, Frammenti veneto-napoletani, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926, p. 261. Il C. è ricordato in molte fonti coeve e in numerose opere storiche riguardanti la sua epoca, ma è sufficiente rinviare a due profili biografici: E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Venez., III, Venezia 1830, pp. 376-378; e al più ampio A. L. Zorzi, Ricordi biografici intorno a P. C., cavaliere e procuratore di S. Marco, Verona 1914, il quale ne pubblica anche il testamento.