CANAL, Paolo
Nacque a Venezia nel 1481 da una delle più illustri famiglie patrizie, primogenito di sei figli. Il padre, Alvise, del ramo dei Canal di S. Marina, dove abitava quando fece testamento il 1º giugno 1490, fu da quell'anno castellano ad Asola, dove morì nel 1492; la madre, che risulta già morta alla data del testamento del marito, si chiamava Maddaluzza, figlia di Paolo D'Arpin. Dalle genealogie veneziane di Marco Barbaro e dal registro ufficiale della nobiltà, la Balla d'oro, conosciamo i nomi dei due fratelli, Pietro e Benedetto, che ebbero in patria importanti pubblici uffici, mentre altri documenti informano dell'esistenza di tre sorelle e del nome di una di esse, Marietta. Non sappiamo se i figli di Alvise Canal lo abbiano seguito durante i due anni della permanenza ad Asola; comunque dopo la sua morte essi saranno vissuti a Venezia, dove qualche parente si sarà preso cura di loro (forse lo zio paterno Antonio, più tardi podestà di Belluno e di Feltre).
Il primo biografo del C., Giovanni Degli Agostini, ne assegnò la nascita al 1483. Questa datazione, accolta da quanti dopo di lui si occuparono del C., è certamente falsa, e la ragione dell'errore facilmente comprensibile. Quando il 21 nov. 1501 il giovane patrizio fu presentato agli avogadori per l'iscrizione alla Balla d'oro, egli aveva vent'anni compiuti (come è detto inequivocabilmente nel registro) e non diciotto (come più frequentemente avveniva e come di conseguenza credette il Degli Agostini, a cui l'anno della registrazione era noto solo dall'albero genealogico). Se si tien conto che l'iscrizione veniva fatta prima del 4 dicembre, giorno di s. Barbara, in cuisi sorteggiava chi poteva subito far parte del Maggior Consiglio, è chiaro che il C. dovette compiere i vent'anni tra il 5 dic. 1500 e il 21 nov. 1501, e quindi nascere nel 1481, o eventualmente negli ultimi giorni del 1480.Questo computo è del resto confermato anche dal testamento del padre, che nel 1490dice di avere ancora tutti i figli "in tenera età, peroché el mazor [cioè il C.] xe d'ani 9". È vero che Erasmo da Rotterdam ed il Valeriano affermano che quando il C. morì (nel 1508) era venticinquenne, e che in questa notizia il Degli Agostini dovette trovare una riprova della sua datazione. Ma di fronte alla forza dei documenti ricordati converrà vedere in quell'asserzione un dato approssimativo.Quasi nulla sappiamo degli studi giovanili del C., il cui ingegno molto precoce (come si legge negli elogi dei contemporanei) appare sorretto da una sicura vocazione umanistica e, più particolarmente, da un preciso interesse per la filologia latina e greca. A Venezia, sullo scorcio del Quattrocento, l'umanesimo in genere e la filologia in ispecie, anche per l'impulso che le veniva dalla diffusione della stampa, erano coltivati con eccezionale fervore: accanto alle due pubbliche cattedre umanistiche istituite presso la cancelleria ducale, dove si insegnava ovvìamente anche il greco, non mancavano maestri che leggevano a titolo privato. Basta dunque la situazione culturale e scolastica veneziana, oltre al rango sociale del C., a darci ragione (sia pure genericamente) delle sue conoscenze e delle sue scelte intellettuali, nell'impossibilità di documentare adeguatamente i tramiti concreti della sua iniziazione umanistica. Il solo dato sicuro è la partecipazione al corso su Giovenale tenuto nel 1500 da Giambattista Egnazio, che nelle Racemationes, definendo il C. con ridondanza enfatica "phoenicem unicum" per la dottrina, l'acutezza dell'ingegno e l'onestà dei costumi, ricorda il contributo dell'amico per l'interpretazione di un luogo delle Satire (I, 7-9).
Secondo testimonianze non documentarie, ma attendibili, il C. avrebbe pure studiato alla facoltà degli artisti di Padova, dove avrebbe avuto condiscepoli, fra gli altri, Gaspare Contarini, Vincenzo Querini e Tommaso Giustinian. Il suo nome non compare negli atti dello Studio patavino finora editi, relativi al periodo dal 1501 innanzi (a meno che egli sia da identificare, com'è possibile, con quel Paolo Veneto, "iuvenis non doctus sed doctissimus", che il 17 febbr. 1502 chiese ed ottenne la "gratia" di laurearsi in artibus); nulla si può invece dire per gli ultimi anni del sec. XV, i cui documenti sono tuttora inediti. Tuttavia, malgrado la reticenza e l'ambiguità degli atti, è certamente plausibile che il C. abbia seguito, almeno, corsi di filosofia (cui potrebbe riferirsi un generico accenno del Bembo) e di altre discipline umanistiche e scientifiche e forse anche teologiche a Padova, sede di studio normale per ogni giovane della nobiltà veneziana che nutrisse interessi ed ambizioni culturali. A partire dai primi del Cinquecento sembra comunque da escludere una stabile e durevole dimora padovana del C., la cui attività culturale appare piuttosto legata a Venezia ed all'ambiente dell'Accademia Aldina e la cui presenza è abbastanza fittamente documentata nella città lagunare; ed è certo che egli non conseguì mai il dottorato, perché, oltre al silenzio degli atti a questo proposito, in nessuna circostanza viene nominato col titolo di dottore. Occorre infine ricordare che, secondo la testimonianza del Valeriano (nel De litteratorum infelicitate e nel carme per la morte del C.), confermata da Pier Contarini (nel primo libro della sua Argoa voluptas), egli aveva pure buone conoscenze di ebraico, cosa non del tutto infrequente a Venezia in quell'età e congruente al programma culturale del Manuzio.
Al 1499 risale il primo testo sicuramente datato del C., un carme latino in asclepiadei in cui elogia il figlio adottivo di Giorgio Valla, Giampietro, per avere con la sua edizione di Plauto (che fissava nel testo e nel commento i risultati del magistero paterno) restituito il poeta latino nella sua purezza originaria. L'interesse del C. per il teatro plautino risulta pure dall'altra sua poesia latina a noi nota, un breve carine di otto faleci in lode di Giovanni Armonio, cui è attribuito il merito di aver fatto risorgere la commedia romana con il suo Stephanium, scritto e rappresentato a Venezia attorno al 1500: a questa data dovrebbe essere stato composto anche il testo del Canal. Nello stesso periodo, o poco dopo, egli attese alla preparazione di un'opera, Dedeorum genealogia, che, secondo un'affermazione dell'Egnazio, era quasi terminata nel 1502. Ma su questo lavoro del C. non disponiamo purtroppo di altre informazioni.
Gli interessi e la competenza di grecista del C. non potevano trovare stimolo ed espressione migliori dell'amicizia di Aldo Manuzio e dell'adesione appassionata alla sua impresa editoriale, volta a dar vita ad un nuovo umanesimo sulla base dei testi greci. Del celebre stampatore egli dovette essere uno degli amici più cari e dei collaboratori più assidui, se nel suo primo testamento, che Aldo vergò il 27 marzo 1506 e il C. sottoscrisse come teste, il Manuzio lo costituì, con altri amici e parenti, commissario ed esecutore delle sue volontà. Ma, soprattutto, il C. fa tra i fondatori dell'Accademia filellenica istituita dal Manuzio verso il 1500 o poco dopo, di cui approvò lo statuto come presidente o rappresentante di una delle sezioni in cui essa era divisa, quella dei nobili. Certo è che la presenza a Venezia di Aldo e della sua officina, attorno a cui si riunirono i maggiori ellenisti del tempo, costituisce uno dei fatti fondamentali dell'esperienza culturale del C.; e fu nel circolo del Manuzio che egli poté conoscere Erasmo da Rotterdam (ospite di Aldo dal dicembre del 1507 al settembre dell'anno seguente).
All'appartenenza all'Accademia Aldina ed alla condivisione dell'ideale unianistico, del Manuzio va ricondotta l'operosità del C. come trascrittore e correttore di codici greci. Èdi sua mano, come si rileva dalle due sottoscrizioni latine, il codice Palatino greco 47della Universitätsbibliothek di Heidelberg, proveniente dalla biblioteca dell'Egnazio e contenente i libri III-XV dei Dipnosofisti di Ateneo: il primo tomo (libri X-XV, per una curiosa trasposizione) fu terminato il 22 ag. 1505, il secondo (libri III-IX) il 21 apr. 1506, a Venezia. Benché nel testo vi siano numerosi errori, le congetture (spesso eccellenti) e le note latine che lo accompagnano indicano che esso non èil frutto di una semplice ricopiatura, bensì il risultato di una precisa operazione di filologia testuale. Le emendazioni del codice si ritrovano nella princeps aldina di Ateneo, curata dal Musuro e uscita nel 1514, che presenta con il manoscritto del C. lezioni e lacune comuni tali da far supporre uno stretto rapporto di parentela; non è chiaro tuttavia se il testo del C. sia fonte diretta dell'edizione, o se viceversa (come è stato proposto) esso derivi dal manoscritto preparato per la stampa dal Musuro. Sta di fatto che la fama di quest'ultimo e la scarsa conoscenza che ebbe del C. chi si occupò di questo problema fecero attribuire il merito delle correzioni esclusivamente al Musuro, e assegnare al C., forse discepolo a Padova dell'illustre grecista, un ruolo subalterno. In realtà è impensabile che il C., la cui perizia fìlologica non difetta di attestazioni autorevoli e che si esercitò con successo anche su altri testi greci, non abbia dato un contributo originale alla ricostituzione dell'opera di Ateneo. Bisognerà piuttosto vedere nell'edizione del 1514 ilrisultato di un'impresa almeno in parte collettiva, nata e preparata parecchi anni prima nell'ambito dell'Accademia Aldina, se è vero che il Musuro (come è detto nella prefazione di Aldo) collazionò diversi manoscritti e che già nell'aprile del 1505 ilManuzio era interessato all'acquisto di un codice di Ateneo in vista della stampa (De Nolhac, p. 43).
Fu pure copiato dal C. (la sottoscrizione questa volta è in greco: Παῦλος ὁ Δεκαναλεύς) e terminato il 28 genn. 1505 (o 1506, se la data fosse in stile veneto) a Venezia, il codice greco 546della Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, contenente l'Ipparchico di Senofonte e passi dei Carmi iliaci, con gli scolii, di Giovanni Tzetze, oltre a frammenti di Sofocle e di Eschilo. Per altri manoscritti greci, in mancanza della firma, l'attribuzione al C. si basa principalmente sull'analisi della grafia. A giudizio del Diller è opera sua il cod. Monacens. Graec. 566, che raccoglie i testi dei geografi greci minori: anche in questo caso il C. ha operato con notevole acribia filologica, emendando i passi corrotti e segnalando le lezioni errate incorreggibili. Della stessa mano di questo manoscritto furono pure ritenuti il cod. Monacens. Graec. 565, contenente opere di Pindaro e di Eschilo (cfr. I. Hardt, Nova appendix msc.rum graecorum Augusta Vindelicorum in bibl. regiam Monac. translatorum, in Beiträge zur Geschichte und Literatur..., IX, München 1807, p. 930), e il cod. gr. 14255 della Bibl. reale di Bruxelles, contenente il Synecdemus di Ierocle (cfr. Hieroclis Synecdemus, a cura di A. Burckhardt, Lipsiae 1893, p. X), che dovrebbero perciò essere del C.; ciò sembra dimostrato, nel secondo caso, dal confronto con la grafia dei due manoscritti firmati. Ancora a parere del Diller, infine, la mano del C. è presente, insieme con quella di un collaboratore, forse il suo amanuense, in altri undici codici Monacens. Graec. (404, 406, 445, 486, 491, 492, 493, 494, 533, 534, 567), provenienti tutti, con i tre Monacensi già cit. e con quello di Bruxelles, dalla stessa libreria privata.
Un altro testo greco al quale si applicò il C. è la Geografia di Tolomeo, che si studiò di emendare collazionandone molti esemplari per prepararne una nuova versione latina. Il lavoro doveva essere ad uno stadio molto avanzato quando, il 19 apr. 1506, il C.chiese ed ottenne il privilegio per la stampa della sua traduzione; non consta tuttavia che il suo proposito sia stato attuato né si è potuto reperire il manoscritto. Èpossibile che sia morto prima di aver condotto a termine la sua fatica. Essa conferma comunque l'interesse del C. per i testi geografici antichi, dimostrato con le trascrizioni (se davvero sono opera sua) dei geografi minori e del Synecdemus di Ierocle.
Distinti dall'esperienza propriamente umanistica e filologica, ma anch'essi segnati da quell'impegno e da quella ricerca di nuovi valori culturali e morali che furono propri, a Venezia, della sua generazione, sono gli altri aspetti fondamentali della personalità del C., il culto e la pratica della poesia e la forte tensione religiosa. Egli appartenne, con Tommaso Giustinian, Vincenzo Querini ed altri, al gruppo degli amici della giovinezza veneziana di Pietro Bembo. In questo sodalizio, formato da uomini di alto grado sociale e di condizione laica, coesistevano, con diverse accentuazioni, interessi poetici ed esigenze religiose. Del Bembo, che in alcune lettere lo ricorda col tono della più schietta amicizia, il C. condivise il gusto raffinato per la lirica amorosa volgare e l'ideale di un petrarchismo purificato, in una più rigorosa fedeltà al suo modello, che si proponesse come esperienza poetica d'avanguardia in contrasto con la tradizione quattrocentesca: proposta alla quale aveva acconsentito autorevolmente anche il Manuzio, estendendo l'ambito del suo programma editoriale con la stampa, per le cure del Bembo, del Petrarca volgare (1501). È significativo che un letterato come l'Augurelli, consigliere di Pietro Bembo ed anch'egli promotore della nuova poesia, in un carme latino non posteriore al 1503 celebrasse nel C. la condizione di vita esemplare di chi, pago della propria sorte, ha conseguito la felicità nel connubio armonioso di amore e otium poetico; e gli stessi motivi, poesia e amore, ricorrono nelle domande che Andrea Navagero, lontano da Venezia, rivolse in un carme al Bembo ed al C., associati nel ricordo affettuoso dell'amico per la comunanza dei loro ideali. L'amicizia fra il Bembo ed il C. è testimoniata particolarmente dal viaggio che essi fecero a Roma nella primavera del 1505, in occasione della legazione al pontefice di cui furono incaricati Bernardo Bembo, padre di Pietro, e sette concittadini. Nell'andata, dal 9 al 28 aprile, i due amici accompagnarono il gruppo degli ambasciatori; ma nel ritorno, iniziato il 14 maggio, essi se ne staccarono subito per sostare ad Urbino, a Ferrara (ospiti di Ercole Strozzi) e a Mantova: qui, esibendo una commendatizia di Antonio Tebaldeo che li definiva "lumi de tutte tre le lingue", furono ricevuti da Isabella d'Este, che molto si compiacque della loro compagnia. Giunsero a Venezia alla fine di giugno. Il viaggio romano e la breve dimora ferrarese sono ricordati anche nelle Prose della volgar lingua (II, 20).
Le propensioni del C. per la poesia e l'efficacia dell'esempio del Bembo su di lui sono dimostrate dalla sua produzione poetica volgare, che, nella linea del petrarchismo bembesco, rivela un discreto mestiere. Essa consiste di otto sonetti, tre canzoni ed una sestina, tutti di ispirazione amorosa, e di una stanza di canzone scritta per il venerdì santo; ma sulla paternità di un paio di questi testi, di nessuno dei quali è conservato l'autografa e che sono in buona parte inediti, sarà lecito sollevare qualche riserva, data l'attribuzione non sempre univoca nei manoscritti (che raccolgono per lo più le rime degli amici veneziani del Bembo). Nulla di certo si sa circa il tempo di composizione: essi dovrebbero comunque risalire ai primi anni del Cinquecento, e cioè ad una data piuttosto alta per quel genere di poesia. Le liriche del C. sono in complesso di accurata composizione e denotano senza dubbio un buon possesso dei mezzi linguistici e statistici, mentre un giudizio sul grado di toscanità fonetica e morfologica riesce difficile per le condizioni in cui esse ci sono state tramandate.
Il C. fu pure partecipe dell'ansia di rinnovamento religioso e delle sollecitudini teologiche che furono così forti nella sua età, aderendo all'azione di riforma, che si stava allora preparando, promossa e guidata da uomini di vigorosa tempra morale e di alta spiritualità quali Vincenzo Querini e, soprattutto, Tommaso Giustinian (meglio noto con il nome di religione, Paolo). Di quest'ultimo il C. fu amicissirno, com'è largamente testimoniato negli scritti del Giustinian, nei quali ricorre più volte il ricordo doloroso della morte prematura dell'amico: l'intrinsechezza col futuro fondatore della Congregazione camaldolese di Monte Corona basta a darci la misura del temperamento religioso del Canal. Egli fu certo tra i frequentatori più assidui della casa di Murano, dove, lasciata Padova e gli studi, il Giustinian s'era ritirato nel 1506 per una vita di meditazione e di preghiera, maturando a poco a poco il proposito tanto discusso di lasciare il mondo per farsi eremita a Camaldoli, e dove convenivano gli altri amici veneziani che con lui condividevano lo stesso fervore religioso. E fu il C., cui il Giustinian faceva parte del suo travaglio morale ed intellettuale e dell'elaborazione delle sue opere di teologia spirituale, che lo esortò, nel 1506, a conservare ed a trascrivere in una copia più accurata ma senza mutazione alcuna le sue Cogitationes quotidiane de amore Dei. Aquesta amicizia sono legati gli ultimi giorni di vita e la morte edificante del C., di cui il Giustinian ci ha lasciato in una lettera al fratello una descrizione di singolare valore umano. Per desiderio del C., il 17 apr. 1508, lunedì santo, i due amici s'erano recati nel monastero camaldolese di S. Michele di Murano, per prepararsi nella preghiera alla Pasqua. Qui le condizioni di salute del C. (già precarie per l'eccessìvo lavoro attorno al testo di Tolomeo, come riferisce il Valeriano) s'erano improvvisamente aggravate. Egli chiese allora di vestire l'abito camaldolese, per assolvere il voto fatto all'inizio della malattia. La vestizione ebbe luogo il lunedì di Pasqua, 24 aprile. Ma dopo soli ventidue giorni, il 16 maggio 1508, il C. morì, appena ventisettenne.
Per quanto frate non professo, e per brevissimo tempo, il C. ebbe sempre un posto di un certo rilievo nelle cronache camaldolesi, grazie a quel chedi lui aveva scritto il Giustinian, che poco dopo la sua morte, nel 1510, lo seguì nella decisione di farsi camaldolese. Ed è notevole che alcuni anni più tardi il vicario della Congregazione Paolo Orlandini associasse il C. all'altro amico divenuto camaldolese, Vincenzo Querini, nella richiesta al Giustinian di scrivere una biografia di entrambi. È da rimpiangere che l'opera desiderata non sia mai stata scritta o sia andata perduta.
Sul C. letterato ed umanista numerosi e lusinghieri furono, in vita ed in morte, gli elogi dei contemporanei; accanto agli autori già menzionati (l'Egnazio, il Valeriano, Pier Contarini, Erasmo da Rotterdam, l'Augurelli, il Tebaldeo), si ricorda G. Bologni, che compose due epitaffi ed un altro breve testo latino. Anche se spesso l'esagerazione appare scontata, sia per la condiscendenza ad un costume molto diffuso, sia per la brevità dell'esistenza di un personaggio come il C., pure attraverso questi scritti è possibile cogliere ciò che egli rappresentò agli occhi di molti. Sono singolarmente significativi i tre esametri che il Valeriano compose quando il C. era ancora molto giovane e nei quali egli viene addirittura indicato come l'unica speranza dell'umanesimo italiano dopo la morte di Ermolao Barbaro, di Giovanni Pico e di Angelo Poliziano: nel giudizio, malgrado l'evidente amplificatone encomiastica, si rispecchia bene la crisi di una generazione che, scomparsi nel giro di due anni i maggiori maestri, andava cercando chi fra i giovani potesse degnamente seguirne la lezione e racoglierne l'eredità. La lode più autorevole e prestigiosa è senza dubbio quella di Erasmo, che, presente a Venezia quando il C. morì, ne segnalò i meriti letterari e la fine precoce ad illustrazione di un proverbio sulla precarietà della vita umana, stampato nell'edizione aldina degli Adagia (settembre 1508), quando la morte dell'amico, era un episodio recente e doloroso; ma anche molti anni dopo, nel 1523, la memoria del C. doveva essere ben viva nella coscienza di Erasmo, che ne fa menzione in una lettera in cui ricorda gli amici conosciuti in Italia. Fra i testi scritti per la morte del C. si rammentano infine i versi latini (contenuti nel Marc. lat. XI66 [6730], f. 60v e nel Marc. lat. XIV221 [4632], f. 8r) di Giovanni Antonio Flaminio, il quale irride al destino di chi, desideroso di fuggire la tumultuosa vita cittadina per la pace del chiostro, ha trovato nel sepolcro la quiete agognata.
Opere latine. Il carme in lode di Giampietro Valla è in Plautinae viginti comoediae emendatissimae cum accuratissima ac luculentissima interpraetatione doctissimorum virorum Petri Vallae placentini et Bernardi Saraceni veneti, Venetiis 1499, f. [Aiv], e nel Vat. lat. 2874, f. 114r (esso fu pubblicato anche in M. Plauti ... Comoediae ... recognitae a Symone Charpentario..., s.l.né d. [ma Parigi c. 1512], sostituendovi al nome del Valla quello del nuovo editore, in modo che a lui fosse riferito l'elogio del Canal). I versi per l'Armonio sono stampati in I. Harmonii Marsi Comoedia Stephanium urbis venetae genio publice recitata, s.l. né d. [ma Venezia c. 1500], f. [fir]. Sono di dubbia attribuzione (cfr. E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, VI, Venezia 1853, p. 304) i tre versi assegnati al C. nel Marc. lat. XII211 (4179), f. 56v (autografo di Marin Sanuto), mentre non è certamente suo, ma del Sannazzaro, l'epigramma del Marc. lat. XII 210 (4689), f. 61v.
Opere in volgare. Quattro sonetti sono stamp. in Rime diverse di molti eccellentiss. auttori..., I, Vinetia 1546, pp. 138 s., e un altro in Rime di diversi nobili huomini et eccell. poeti nella lingua thoscana, II, Vinetia 1547, p. 38. La poesia per il venerdi santo è ed. da V. Meneghin, S.Michele in Isola di Venezia, I, Venezia 1962, p. 184. Contengono rime del C. i mss. seguenti, quasi tutti cinquecenteschi: Laur. XI, 50, ff. 61r-66r; Marc. It. IX 202 (6755), [I], ff. 96r-101r, 116rv; Marc. It. IX 203 (6757), ff. 129r-133v; Marc. It. IX 213 (6881), ff. 23v-24v, 35r-36v; Marc It. IX 307 (7564), ff. 32v-37v; Marc. It. IX 369 (7203), ff. 148rv (autografo di Marin Sanuto); Marc. It. IX 492 (6297), f. 39r; Marc. lat. XIV 165 (4254), ff. 201v, 279v; Camaldoli, Archivio del S. Eremo, ms. già 649 di S. Michele di Murano, [III], ff. 15r-18r, 19r-22v; Firenze, Bibl. naz., cod. Palat. 221, ff. 32v-35r, 40r; Padova, Bibl. del Seminario, ms. 163, ff. 13v-15r, 16r-18r, 23r-24n; Vienna, Österreich. Nationalbibl., ms. 2636, pp. 55-68 (autografo di Marco Foscarini).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, ms. 895: M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 221; Ibid., Avogaria di Comun, reg. 165/IV, Balla d'oro, ff. 135rv, 136r; Ibid., Archivio notarile,not. Domenico Groppi,Testamenti, b. 1186, n. 197; not. A. Savina, Testamenti, b. 1235, n. 101; Venezia, Civico Museo Correr, ms. Cicogna 2664: G. Bologni, Opere, IV[Promiscuorum libri XXI], ff. 195v [XI 61], 261v [XV 22, 23]; ms. Cicogna 2666: Id., Id., VI, ff. [38v-39r, 117r]; Firenze, Biblioteca nazionale, ms. II, I, 158: P. Orlandini, Eptathicum, II, De triplici theologia, f. 122v; Padova, Bibl. del Seminario, ms. 91, f. lxxviii v.
Per la biografia del C. in generale resta basilare G. Degli Agostini, Notizie istor.-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniz., II, Venezia 1754, pp. 549-55. Cfr., inoltre, I. A. Augurelli Iambicus liber primus, Venetiis 1505, ff. [bvr-bvir]; A. Naugerii Opera omnia, Patavii 1718, pp. 208 s.;I. B. Egnatii Racemationes, Venetiis 1508, ff. LXXIXr, LXXXIIv; D. Erasmi Operum omnium tomus secundus, Lugduni 1703, p. 502; Id., Opus epistolarum, a c. di P.S. e H.M. Allen, I, Oxonii 1906, p. 61; V, ibid. 1924, p. 245; I. P. Valeriani De litteratorum infelicitate libri duo, Venetiis 1620, p. 31;Id., Prosacerdotum barbis declamatio..., Lugduni 1621, pp. 16, 21, 25, 95, 98; P. Contareni Argoa voluptas, Venetiis 1541, f. 6v; [A. M. Quirini] Specimen variae literaturae quae in urbe Brixia... florebat, I, Brixiae 1739, pp. 44 s.;G. B. Mittarelli-A. Costadoni, Annales camaldulenses, VII, Venetiis 1762, pp. 396 s., 436; VIII, ibid. 1764, p. 140; IX, ibid. 1773, pp. VII s., 115 s., coll. 478, 480, 554; M. Foscarini, Della letter. veneziana, Venezia 1854, p. 323 n. 3; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, pp. 43, 215; V, ibid. 1842, pp. 63, 73 n. 1, 551 n. 1; VI, ibid. 1853, pp. 209, 289, 299, 304; V. Meneghin, S. Michele in Isola di Venezia, I, Venezia 1962, pp. 183-87, W. Ludwig, Ioannis Harmonii Marsi Comoedia Stephanium, München 1971, pp. 9 n. 1, 19 s., 21, 47 n. 23 (afferma che il C. fu discepolo di Giorgio Valla: l'asserzione, in sé non inverosimile, è fondata su un argomento inconsistente, perché il senatore veneziano cui il Valla dedica una sua traduzione dal greco, lodando il di lui figlio Paolo, suo allievo, non è il padre del C., come mostra la verifica sull'edizione).
Per i rapporti con il Manuzio vedi: A. P. Manutii Scripta tria longe rarissima a I. Morellio denuo edita et illustrata, Bassani 1806, pp. 42, 46, 49, 58-61; A. A. Renouard, Annales de l'imprimerie des Aldes, Paris 1834, pp. 386, 500 s., 503; R. Fulin, Documenti per servire alla storia della tipografia veneziana, in Archivio veneto, XXIII (1882), pp. 161 s. (a pp. 162 s. è pubblicata la richiesta del privilegio per la stampa di Tolomeo); P. De Nolhac, Les correspondants d'Alde Manuce, Rome 1888, pp. 40, 46, 97; C. Castellani, La stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio seniore, Venezia 1889, pp. 52, 94 s., 101. Per il cod. di Ateneo vedi: H. Stevenson, Codices manuscripti Palatini Graeci Bibliothecae Vaticanae, Romae 1885, pp. 24 s.;Athenaei Dipnosophistarum libri XV, a cura di G. Kaibel, I, Lipsiae 1887, pp. XIII s.;P. Lehmann, Eine Geschichte der alten Fuggerbibliotheken, I, Tübingen 1956, p. 96;J. Irigoin, L'édition princeps d'Athénée et ses sources, in Revue des études grecques, LXXX (1967), pp. 421, 423, 424 n. 1. Per i codd. Monacensi vedi: Beiträge zur Geschichte und Literatur..., München, IX (1807), pp. 855 s.; A. Diller, The Tradition of the Minor Greek Geographers, Oxford 1952, pp. 22, 23 ss., 48, 98, 100. Per i rapporti con il Bembo vedi: P. Bembo, Opere, IV, Venezia 1729, pp. 168, 170 s., 195; Id., Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino 1966, pp. 177 s.; V. Cian, P. Bembo e Isabella d'Este Gonzaga. Note e documenti, in Giornale storico della letteratura italiana, IX (1887), pp. 96, 99 s.;G. Bertoni, P. Bembo e Isabella d'Este Gonzaga, ibid., L (1907), p. 260. Per i rapporti col Giustinian vedi: Romualdina, seu eremitica Montis Coronae Camaldulensis ordinis historia... auctore Luca eremita Hispano, In eremo Ruhensi 1587, f. 47v; H. Jedin, Contarini und Camaldoli, in Arch. ital. per la storia della pietà, II (1959), pp. 56, 75 n. 4; E. Massa, I manoscritti originali del beato Paolo Giustiniani custoditi nell'eremo di Frascati, Roma 1967, pp. XXXII n. 1, LXV, LXXV, 10 s., 46 s., 61; G. Fragnito, Cultura umanistica e riforma religiosa: il "De officio viri boni ac probi episcopi" di Gasparo Contarini, in Studi veneziani, XI (1969), pp. 85, 87, 92, 134. In attesa dell'edizione degli scritti del Giustinian, a cura di E. Massa, i suoi testi sul C. si possono leggere nei seguenti mss. dell'Eremo di Frascati: cod. Tusc. F ✝, ff. 95r, 95v; cod. Tusc. F I, ff. 192r, 200r, 297r; la lettera al fratello sulla morte del C. è edita parzialmente da V. Meneghin, S. Michele in Isola…, cit., I, pp. 185 s.