CAGGIO, Paolo
Nacque a Palermo nel primo quarto del sec. XVI.
Della sua appartenenza a nobile famiglia dà testimonianza, in una lettera all'Aretino, Ottaviano Precone, vescovo di Monopoli, protettore del C.: "Signor dolce, fra li più chiari amici che io tengo in Sicilia mi è stato sempre carissimo il magnifico Paolo Chaggio gentiluomo palermitano, persona adorna (se l'affezion non m'inganna) de tutte quelle care parti et ottime qualità che possono far perfetto un nobil uomo…". Ma né dai suoi scritti né da altre fonti è data notizia della sua giovinezza e dei suoi studi. Un elenco dei suoi scritti fornisce egli stesso in una lettera del 1550 all'Aretino - "il signor Pietro Divino" -, le cui opere gli erano state "guida e maestri" in tutto quello che aveva scritto nei suoi anni giovanili. Vi si fa menzione della Iconomica, l'opera sua maggiore, dei Ragionamenti, della Flaminia prudente, nonché di un dialogo, il Rodomonte Sanese, rimasto finora ignoto.
La sua cultura giuridica fa pensare a un assai probabile dottorato in legge (il Mongitore lo chiama "iuris utriusque Doctor"), che avrà potuto conseguire nello Studio catanese, essendo la natia Palermo priva di una scuola di diritto (delle sue relazioni con Catania può esser prova probante l'amicizia con il catanese Giuseppe Morso, di cui tenne a battesimo una bambina). Partecipò, ancor giovane, alla vita pubblica della sua città, senza trascurare, tuttavia, la letteratura.
Nel 1545, per deliberazione del Consiglio civico, fu chiamato alla carica di segretario del Senato palermitano, che, di lì a poco, gli affidò l'incarico di riordinare e correggere le Consuetudini palermitane, ch'erano state raccolte e stampate per la prima volta nel 1478 dall'umanista siciliano Giovanni Naso. La pubblicazione della raccolta, dal titolo di Iura municipalia, seu consuetudines Felicis Urbis Panormi, con una prefazione in latino ricca di dottrina, avvenne nel 1547 (una seconda edizione fu stampata a Venezia nel 1575). Nello stesso anno 1547 il C. ebbe incarico dal Senato di recarsi a Siracusa per trattare, a nome della città, con il viceré don Giovanni de Vega intorno ad alcuni contestati privilegi; nel 1549 fu chiamato a sostituire Antonio da Vinci, nominato ad altro ufficio, quale notaro della Corte pretoriana. Si allontanò da Palermo, rinunziando alla carica di segretario del Senato, allorché don Pietro di Luna e Salviati, nominato nel 1554 duca di Bivona, lo assunse al suo servizio con l'incarico di riordinare l'amministrazione dello Stato in quegli anni in cui il viceré preparava la guerra contro i Francesi e gli Ottomani; nel 1558 è a Sciacca, sempre al servizio del duca, e in quell'anno si riprometteva di stampare alcuni discorsi accademici e alcune lettere di carattere filologico e letterario, rimasti inediti.
Si spense a Palermo il 25 dic. 1562.
Dall'attività politica e amministrativa il C. non disgiunse mai quella di letterato e di poeta, nonché di organizzatore di cultura, ansioso soprattutto di sollecitare la Sicilia a superare il suo isolamento culturale con la conoscenza e la diffusione delle opere dei maggiori scrittori della penisola, primi fra tutti, il Petrarca e il Boccaccio, l'Aretino e il Bembo. Fondò nel 1549 l'Accademia dei Solitari (ch'ebbe come impresa un usignolo cantante in un bosco con il motto Non solum), assumendovi il nome di Modesto. L'accademia raccolse attorno a sé letterati e scienziati (fra i quali basti ricordare il celebre medico Gianfilippo Ingrassia) ed ebbe il plauso dello stesso viceré de Vega, "che - scrive il C. - cotanto si diletta e tanto piacer ne prende, che par che altrove non trovi più dolce alimento per satiar quell'anima sua nobilissima, che nei discorsi nostri accademici". L'accademia ebbe pochi anni di vita, fino al 1554, né valsero a risuscitarla i tentativi del C., tra cui va annoverata l'appassionata esortazione a don Vincenzo del Bosco, conte di Vicari e magistrato della città, affinché, con la restaurazione di un "buon governo", risuscitasse, soprattutto nei giovani, il senso delle virtù civili.
Assegnava alle accademie una funzione civile ed educativa; le chiamava, perciò, "il lume degli occhi". Diversi discorsi il C. pronunziò nelle adunanze dei Solitari trattando quei temi dei quali si era interessato nelle opere già date alle stampe: particolarmente notevole è quello pronunziato nell'aprile del 1554, alla presenza di Giovanni de Vega, sulla "giustizia", in cui, rifacendosi alle teorie platoniche, disserta del fine che l'uomo ha nella società e dell'azione del principe, che guiderà il popolo a un perfetto fine, a tutti comune, con la virtù delle virtù, cioè con la giustizia, "che in sé tutte le virtù racchiude, e che è a capo di tutte le scienze e le arti". E qui è ripreso l'argomento fondamentale dei Ragionamenti, pubblicati nel 1551. Due lezioni, di contenuto petrarchesco, furono lette nell'agosto e nel dicembre del 1553: nella prima è commentato il sonetto "E questa humil fera, un cor di tigre, o d'Orsa" e vi si esalta la bellezza di Laura che non può essere se non angelica; nella seconda l'autore espone la sua poetica, a fondamento della quale egli pone, aristotelicamente, l'imitazione. L'artifizio retorico permette alla poesia di servirsi, per i suoi fini, di tutte le scienze: muove da qui la minuziosa esemplificazione tendente a dimostrare come tutti gli elementi del creato concorrano a formare la bellezza e le virtù di Laura.
Al C. spetta un posto anche tra gli studiosi cinquecenteschi di Dante: una sua lettera a Vincenzo Grataluce, dal titolo Delle macchie della luna, onde si cagioni e di che figura sia, è una esposizione e interpretazione del canto II del Paradiso sulla scorta delle teorie scientifiche e filosofiche del tempo. Dei suoi studi sulla lingua italiana sono un documento la lettera ad Agostino Gilulfo, giudice dei Maestri razionali, dal titolo Che s'ha a scriver Cicilia e Ciciliani, e non Sicilia e Siciliani, e massimamente in prosa, e la lettera a Marcantonio Balsamo, in cui egli sostiene che "si dee scrivere nella lingua nostra propria e non nella straniera. E che s'ha a scriver Escellenza e non Eccellenza" e in cui "si mostrano alcune regolette per la lettera x".
Ma dei suoi studi e della sua formazione letteraria, filosofica e giuridica la massima testimonianza è offerta dalle due opere maggiori: i Ragionamenti e la Iconomica.
I Ragionamenti sono un trattatello di dottrina politica sul governo delle città e s'inseriscono nella problematica politica cinquecentesca riecheggiando motivi comuni alla trattatistica postmachiavelliana, quali la superiorità del principato sulle altre forme di governo o la distinzione oppositiva tra la milizia cittadina e quella "mercantesca". Ma l'aspetto che va sottolineato nella concezione politica del C. è la vocazione sociale dell'indagine, vocazione che è, del resto, la fondamentale spinta di tutta la sua opera.
Nella prima parte del dialogo egli esamina la struttura delle varie classi che costituiscono il corpus sociale della città: la parte popolare, agricoltori e villani; gli artefici di vile condizione, dediti alle arti diverse; gli artigiani, senza i quali la città non sarebbe abitabile, e i musici, la cui "arte talvolta ne leva l'animo alla contemplazione della prima cagione del tutto"; poi la moltitudine dei forestieri e dei mercanti, necessari alla vita della città. Costoro, tuttavia, "cittadini propriamente non sono", il vero nerbo della città essendo costituito dai cavalieri, dai giudici, dai sacerdoti, e fi suo perfetto equilibrio dalla "mediocrità dei cittadini", da coloro, cioè, che non sono né ricchi né poveri e che sono guidati dalla virtù e dalla ragione. Nella seconda parte, dopo la definizione del perfetto amore, che trova la sua massima attuazione nel vincolo sacro del matrimonio, si discorre delle varie forme di governo: la oligarchia (i pochi che opprimono la plebe), la democrazia (i molti che opprimono i ricchi), l'aristocrazia (gli ottimati), virtuosa moltitudine che regge con vantaggio sia dei ricchi sia dei poveri; infine la "politia", ch'è il "retto governo dei molti". Comunque la miglior forma di governo è fra tutte il principato regio, che mira al bene della comunità eliminando le discordie, indirizzando i cittadini all'operare virtuoso e provvedendo alle "cose necessarie al vitto delle fami communi". A tal fine il principe re userà benignità e clemenza verso i sudditi e si preoccuperà della istituzione di "ordinati spedali e di Monti di pietà" nonché di essere esempio del culto di Dio. La tirannide, invece, è "cosa pessima, e fra tutti gli altri domini il più cattivo"; il tiranno tende al bene proprio, "quasi ch'ei regga e governi per potenza propria e non per dovuta giustizia". Il C., con spiccato senso di realismo politico, sottolinea che "non conviene un medesimo Principato a tutte nazioni" e vede la necessità del continuo adeguarsi del principato alle diverse esigenze dei tempi (preferibile "un dominio a tempo che un dominio perpetuo"). Fondamento, infine, del principato saranno l'educazione dei giovani e gli ottimi matrimoni. Qui è presente il tema della esaltazione della donna e della sua funzione nella famiglia e nella comunità, argomento fondamentale della Iconomica.
Questo trattatello, in forma di dialogo, è diviso in due parti. Nella prima l'autore sottolinea la differenza tra il principe e il padre di famiglia e disserta sulle varie virtù che deve possedere la moglie e dei suoi rapporti con il marito; sulle "eccellenze del matrimonio, e quanti beni altri conseguiti da quello"; sulla educazione dei figli e sulla pace "che nasce nella famiglia nella quale vien serbata la fede del matrimonio, e così all'incontro la guerra". Nella seconda parte si ragiona delle "vere e buone amicizie" e della loro utilità, nei rapporti umani della città; della necessità familiare degli schiavi e del modo di "comandarli e di renderlisi amorevoli", e vi si ragiona anche della remunerazione degli operai salariati: remunerazione che dovrà essere generosa affinché possa accrescere il loro rendimento. Ed è evidente che anche in questo principio il C. è guidato dalla "prudenza", considerata la fondamentale virtù del buon "economo" in ogni sua operazione. La prudenza sta alla base dell'acquisto e dell'accrescimento del patrimonio, che è attività non solo lecita ma doverosa, come quella che dà all'uomo la possibilità di raggiungere "il pacifico di quella vita, che si brama ogn'hora" e che gli "scioperati" perdono per mancanza di sana amministrazione del patrimonio. Il buon padre di famiglia deve aver gran cura di "conservarsi quelle cose ch'ei possiede… secondo che il largo della mano d'Iddio ci avrà donato" e deve "usar diligenza non poca in acquistar le robbe, onde per lo meglio traffico e per la più eccellente inventione di poter l'huomo accrescer le sustantie sue diremo, di sotto, che sarà l'arte dell'agricoltura". Il C., pur non escludendo la validità delle altre attività umane, se esercitate onestamente (quale il commercio), celebra, sopra tutte, il valore dell'agricoltura, "tanto necessaria alla vita dei mortali, quanto quella cosa che ci dà il respirar del fiato, causato per l'alimento, offertoci dalle biade produtte, hor in questo, hor in quell'altro luogo, e che sia così vedesi apertamente, perché simile arteficio è naturale, insegnatoci proprio e a noi conceduto dalla Natura per volontà del Fattor del tutto". Ma, vivendo a contatto della natura con l'esercizio dell'agricoltura, l'uomo ha anche la possibilità di coltivare gli studi e la meditazione: un aspetto, codesto, di quella vocazione alla pace ch'è caratterizzante, pur nella concezione dinamica delle attività economiche, di tutta la personalità del Caggio. Della quale, in definitiva, è aspetto fondamentale l'aspirazione a un ideale di dignità e di onore familiare per il raggiungimento del quale la ricchezza è soltanto uno degli strumenti, ché sono anche necessarie quelle virtù - quali la prudenza, la liberalità e la onestà della donna - che costituiscono la condizione indispensabile per l'accrescimento della fama della famiglia. La Iconomica occupa un posto interessante nella storia degl'ideali economici del Rinascimento: in essa l'autore afferma di rifarsi a Esiodo e Senofonte, ma soprattutto al "Prencipe Aristotele"; egli ha presente, però, la lezione dell'Alberti, come p. es. nell'avvertimento di cercare nel matrimonio una moderata sostanza.
Ma la Iconomica, come, del resto, le altre opere del C., è anche un documento delle condizioni storico-culturali della Sicilia intorno alla metà del Cinquecento: in essa, a parte il possibile accertamento della cultura dell'autore, si dà notizia non pure delle opere letterarie che in quegli anni circolavano nell'isola, ma dei costumi e della vita della città, della carenza, della venalità e dell'ignoranza dei pedagoghi, della disonestà dei governanti, della corruzione degli ecclesiastici e della ignoranza e malizia fratesca.
Si può apprendere che fin nei monasteri si leggeva e si disputava intorno al Petrarca e all'Ariosto e si leggeva la Raffaella del Piccolomini, il Boccaccio e il Sannazzaro.
Il C. è un petrarchista, ma si schiera contro i pedanti e i pedissequi imitatori del Petrarca: nella Iconomica, nei Ragionamenti e nel prologo della Flaminia prudente (una novelletta, di contenuto amoroso, in forma di dialogo) si scaglia contro i "letteratuzzi", i pedanti e i poeti d'amore petrarchisti, giudicati "matti da catene"; similmente mette alla berlina i prosatori imitatori del Boccaccio, "toscanelli e inflorentinati", e tutta la profluvie di componimenti letterari sui più futili argomenti. Modello inarrivabile è, per il C., l'Aretino, chegli difende strenuamente contro i detrattori e, in particolare, contro Niccolò Franco.
Il C. s'inserisce, per codesti vari interessi, nell'ambito della cultura italiana: una constatazione ch'è anche documentata dalla presenza di suoi componimenti poetici in alcune delle più importanti antologie cinquecentesche di petrarchisti, come quella curata dal Ruscelli (che il C., assai probabilmente, conobbe a Roma insieme con il Fenaruolo) e stampata nel 1553, in cui sono pubblicati tre suoi sonetti. Una lettera, a Giuseppe Morso, venne più volte stampata in alcune raccolte di lettere "facete e piacevoli". In essa è possibile accertare le migliori doti di prosatore del C.: la briosità e festevolezza, accoppiate a una semplicità e intensità espressive davvero notevoli, in cui si trascrive un forte senso realistico del linguaggio, assunto a segno immediato delle cose e delle idee (di qui l'esaltazione dell'Aretino).
Opere: Iura municipalia, seu consuetudines Felicis Urbis Panormi, Panormi 1547 (Venezia 1575); Ragionamenti di Paolo Chaggio, di Palermo, ne quali egli introduce tre suoi amici, che naturalmente discorrono intorno à una vaga fontana, in veder se la vita cittadinesca sia più felice, del viver solitario fuor le città, e ne le ville, in Venetia 1551; Flaminia prudente. Novelletta di Paolo Chaggio, composta per capriccio e a commun diletto degli Amici, in Venezia 1551; Iconomica, del signor Paolo Caggio, gentil'huomo di Palermo, nella quale s'insegna brevemente per modo di dialogo il governo famigliare, come di se stesso, della moglie, de' figliuoli, de' servi, delle case, delle robbe, e d'ogn'altra cosa a quella appartenente, in Venegia 1552. Sue rime in Ilsesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli, in Venezia 1553; Rime scelte da diversi autori, Venezia 1565; Tempio alla signora D. Giovanna d'Aragona fabricato da tutti i più gentili Spiriti e in tutte le lingue principali del Mondo, Venezia 1565; Lettera a M. Giuseppe Morso, in Delle lettere facete e piacevoli, di diversi grandi Huomini et chiari ingegni… raccolte per M. Francesco Turchi, in Venezia 1575, II, pp. 234-239 (sta anche nella raccolta L'idea del segretario dal signore Bartolomeo Zucchi gentil'huomo di Monza… III, in Venetia 1606); Scelta di lettere di huomini illustri, Venezia 1584.
Fonti e Bibl.: Palermo, Bibl. naz., ms. 12 A 3 (sec. XVI; lettere e discorsi del C.); Ibid., Arch. comun., Consigli Civici, registro degli anni 1540-60, f. 124; Ibid., Atti, Bandi e Provviste (del Senato di Palermo), anno 1547, VI Ind. ff. 427, 428-29; anno 1549, VII Ind. ff. 163r e 164; Lettere scritte a Pietro Aretino, in Scelta di curiosità letterarie inedite orare dal sec. XIII al XVII, Bologna 1875, II, 2, pp. 269-279; Palermo, Bibl. com., ms. Qq. D. 19: V. Auria, Teatro degli huomini letterati di Palermo, f. 81; S. Lancellotti, L'Hoggidì overo il Mondo non peggiore né piùcalamitoso del passato, Venezia 1658, II, pp. 396-397; A. Mongitore, Bibliotheca sicula, Panormi 1714, II, p. 121; U. Gobbi, L'economia politica negli scritt. italiani del sec. XVI-XVII, Milano 1889, pp. 24-26; L. Natoli, P. C., in Prosa e prosatori siciliani del sec. XVI, Palermo 1904, pp. 35-79; L. Sorrento, Il letterato palermitano P. C. ..., in La diffusione della lingua italiana nel Cinquecento in Sicilia, Firenze 1921, Ipp. 51-90; G. Barbieri, Ideali economici degli ital. all'inizio dell'età moderna, in Studi economico-giuridici pubbl. per cura della fac. di giurisprudenza (R. univ. di Cagliari), XXVIII (1940), pp. 344-351; G. Santangelo, Lineamenti di storia della letteratura in Sicilia dal secolo XIII ai nostri giorni, Palermo 1952, p. 52.