PUCCI, Pandolfo
PUCCI, Pandolfo. – Nacque a Firenze il 29 novembre 1509, da Roberto di Antonio e Dianora di Lorenzo Lenzi.
Il padre, di stretta militanza filomedicea in continuità con una lunga tradizione familiare, lo inserì fin da ragazzo nell’ambiente della corte dei Medici, dove fu in grande confidenza con i giovani esponenti della casata, in particolare Ippolito e Alessandro. Dopo il passaggio istituzionale di Firenze da repubblica a principato (1530-32) – nel quale il padre Roberto aveva avuto un ruolo di primo piano, facendo parte anche dei Dodici riformatori che sotto la guida di Francesco Guicciardini avevano scritto la nuova costituzione – divenne uno degli uomini più vicini al nuovo duca Alessandro.
Sposò nel 1534 Laudomia Guicciardini, figlia dello storico e politico Francesco; un matrimonio che ribadiva la vicinanza tra le due antiche e potenti consorterie patrizie. Nonostante la prematura morte di Laudomia (8 agosto 1541) dal matrimonio nacquero almeno cinque figli: Orazio, Roberto, Dianora, Virginia e Porzia. Due anni dopo la morte della moglie, Pandolfo avrebbe contratto un secondo matrimonio (18 aprile 1543) con Cassandra di Pierfilippo Da Gagliano, dal quale sarebbero nati altri quattro figli: Emilio, Alessandro, Ascanio e Cassandra, così chiamata in ricordo della madre, morta dandola alla luce (27 luglio 1557).
Dopo l’uccisione del duca Alessandro (7 gennaio 1537) Pandolfo fu, assieme al suocero Francesco Guicciardini, tra i maggiori sostenitori della candidatura di Cosimo de’ Medici a nuovo duca di Firenze. Nei primi anni del governo di Cosimo I occupò una posizione di primo piano tra i dignitari di corte, anche se nel 1541, per fatti legati sembra al suo stile disordinato di vita, fu incarcerato per qualche tempo nella fortezza di Volterra, dalla quale fu liberato per intercessione del padre Roberto, divenuto dopo la morte della moglie ecclesiastico, vescovo di Pistoia e cardinale.
Forse a partire da questo momento egli cominciò a nutrire sentimenti antimedicei, fino ad aderire al partito dei Farnese, i potenti nemici dei Medici, capeggiato dal papa Paolo III. Si deve con ogni probabilità ai Farnese e a Caterina de’ Medici regina di Francia – in contrasto con Cosimo I a causa dell’eredità del defunto duca Alessandro e protettrice dei fuorusciti antimedicei riparati in Francia – la spinta a mettersi alla testa della cospirazione interna contro il duca. Prese così corpo, forse già dal 1551, un progetto di congiura che avrebbe dovuto portare all’uccisione di Cosimo I.
Secondo Jacopo Riguccio Galluzzi, sarebbe stato il cardinale Alessandro Farnese a spingere Pandolfo con maggior decisione sulla strada della congiura, assicurandogli il sostegno del duca di Parma Ottavio, suo fratello (1781, pp. 5-7). Più di recente, l’eventualità di una gestazione così lunga del progetto di congiura è stata messa però fortemente in dubbio. Lo stesso Cosimo I, nella lettera del 14 dicembre 1559 con la quale informava dell’accaduto il genero Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, sembrò smentirla, affermando che essa risaliva a quattro anni prima (Campori, 1868, pp. 32 s.; Simoncelli, 1990, pp. 152 s.).
Quel che appare certo è che nei suoi numerosi viaggi a Roma e in Francia Pandolfo ebbe ripetuti incontri con esponenti di primo piano del fuoruscitismo antimediceo che gli assicurarono il loro sostegno, nei quali si discusse a più riprese dei modi più opportuni per conseguire il successo nell’impresa. I piani messi a punto per uccidere Cosimo furono diversi e i preparativi della congiura si protrassero per vari anni tra mille esitazioni senza mai arrivare a un esito concreto.
È stato rilevato da molti commentatori come Pandolfo non avesse in realtà il carattere e la determinazione necessari per portare a termine un simile progetto. Dedito a una vita di piaceri e assai ben inserito nei canali attraverso i quali si manifestava la sociabilità del ceto patrizio fiorentino, egli tese costantemente ad accreditare una tale immagine di sé, certo anche per sviare eventuali sospetti dalla propria persona. Fu sempre molto attivo all’interno di quelle numerose ‘congreghe’ di giovani che animavano la vita cittadina e che esprimevano però anche la frustrazione e la voglia di rivalsa di un ceto estromesso con l’avvento del principato cosimiano dai gangli del potere politico. Lo stesso duca Cosimo, pur considerando queste manifestazioni una quasi fisiologica valvola di sfogo per i giovani patrizi, non ne sottovalutava certo i sottintesi potenzialmente eversivi, sottoponendole a un’attenta sorveglianza. Anche nel primo dei suoi costituti resi in carcere dopo l’arresto del 7 ottobre 1559, Pandolfo cercò di costruirsi una linea difensiva basata su quella che era la sua immagine consolidata agli occhi dei concittadini, e anche con tutta probabilità dello stesso Cosimo I: «di cose d’importanza io non me ne sono mai voluto travagliare, e l’Eccellenza vostra sa che io non voglio governare» (Archivio di Stato di Firenze, Strozziane, s. 2, 97, c. 193).
Se pure si può ritenere possibile una prima genesi del progetto di congiura all’inizio degli anni Cinquanta, fu nella fase iniziale della guerra di Siena che esso venne ripreso con intenti più concreti, nella speranza, comune a tutto il mondo degli oppositori medicei, che una vittoria francese potesse portare anche alla ‘liberazione’ di Firenze dai Medici. Negli stessi atti del processo ai congiurati, il 1553 fu indicato come anno in cui il progetto eversivo contro il duca aveva preso forma.
Certamente il progressivo rafforzamento del potere di Cosimo I, che ebbe un eclatante suggello con il trionfo nella guerra di Siena, intralciò i progetti dei congiurati, il cui numero e determinazione andarono progressivamente diminuendo. Probabilmente il progetto di congiura era quasi completamente tramontato allorché Cosimo, che ne era venuto ormai a conoscenza e aveva sottoposto i principali adepti a stretta sorveglianza, impartì l’ordine di arresto. Il 4 ottobre 1559 Pandolfo e diversi suoi compagni vennero imprigionati nelle carceri del Bargello, mentre altri – come Ricciardo Del Milanese e Bernardo Corbinelli – riuscirono a trovar scampo almeno momentaneamente a Venezia e in Francia.
Dopo l’arresto, Cosimo I incaricò Lorenzo Corboli, cancelliere del tribunale criminale degli Otto di guardia e balìa, di istruire immediatamente il processo e condurre gli interrogatori. Abilmente, il Corboli fece intravedere a Pandolfo la possibilità di un perdono da parte del duca, purché mettesse per scritto i particolari della congiura e i nomi dei coinvolti; cosa che Pucci fece. Subito la vendetta del duca si abbatté sui congiurati arrestati, condannati a morte con esecuzione immediata della sentenza.
Rimangono molti dubbi circa la tempistica della congiura e la reale volontà dei congiurati, che il sommario processo non chiarì. Anche le carte del processo furono accuratamente tenute segrete e forse in gran parte fatte distruggere dal duca stesso. Contribuiscono poi ad alimentare le incertezze le ricostruzioni, viziate da evidenti scopi mistificatori o comunque aggiustate in base alle esigenze politico-propagandistiche della dinastia, dei vari storici di corte coevi, da Scipione Ammirato a Giovanbattista Adriani, a Giovanbattista Cini, nelle quali vengono associati alla congiura anche personaggi di spicco della galassia antimedicea che sicuramente non potevano in realtà avervi avuto parte, come Paolo del Rosso (Simoncelli, 1990, pp. 152 s.). Una copia di parte almeno delle confessioni rese da Pandolfo di proprio pugno nel carcere si è tuttavia conservata in quello straordinario «controarchivio dinastico» rappresentato dalle Carte strozziane dell’Archivio di Stato di Firenze (Contini, 1999, pp. 110 s.).
I costituti di Pucci sono datati dal 7 al 15 ottobre, e rappresentano il documento drammatico di una vicenda che sta rapidamente procedendo verso il suo tragico epilogo. Nel primo costituto, Pandolfo vuole dar mostra di non immaginare la ragione del suo arresto e fa gran professione di fedeltà a Cosimo; ma nei successivi la trama della congiura e i nomi delle persone compromesse vengono progressivamente in luce. Su una cosa Pandolfo rimane fermo: ogni progetto sarebbe stato accantonato con il trionfo cosimiano nella guerra di Siena, sebbene esponenti di spicco del fuoruscitismo fiorentino – come Bartolomeo Cavalcanti – avessero cercato di convincerlo a riprenderlo anche dopo (Archivio di Stato di Firenze, Strozziane, s. 1, 97, cc. 190-205). Malgrado il reiterato uso della tortura cui nel processo fu fatto ricorso, il quadro delle confessioni di Pandolfo e degli altri catturati non mutò sostanzialmente.
Terminato in breve tempo il processo, la sentenza fu emanata dal tribunale degli Otto il 29 dicembre 1559 (ibid., Otto di guardia e di balìa del Principato, 84, cc. 145v-147r). Pandolfo Pucci – individuato come principale «coniurante et instigante» – e i suoi «adherenti et consentienti», Stoldo di Tommaso Cavalcanti, Puccio di Rinaldo Pucci, Lorenzo di Iacopo de’ Medici, Guglielmo di Iacopo di Giunta, Vincenzo di Alessandro Antinori, Ricciardo di Raffaello Milanesi e Bernardino di Raffaello Corbinelli, più altri «che per degni rispetti si tacciano», vennero riconosciuti colpevoli di avere, fin dal 1553 «coniurato, cospirato et macchinato» in Firenze e fuori contro la persona del duca di Firenze, con il deliberato intento di ucciderlo. La sentenza fu di morte per i primi quattro, tutti detenuti nelle carceri del Bargello: mediante impiccagione per Pandolfo, per decapitazione per gli altri tre. Per tutti si deliberava inoltre la totale confisca dei beni. Riguardo a un altro fiorentino coinvolto, Giuliano di Raffaello Girolami, a carico del quale non era risultato un ruolo attivo nella congiura, ma la sua mancata denuncia, si stabilì la condanna alla detenzione perpetua, pena presto commutata in confino, sino al provvedimento di grazia che nel 1565 gli permise di rientrare libero a Firenze (ibid., 101, c. 118rv).
Nessun provvedimento di clemenza invece per Pandolfo Pucci, che il 2 gennaio 1560 terminò la sua esistenza impiccato a una finestra del Bargello, reo e prima vittima di un progetto di congiura troppo a lungo meditato, forse mai davvero voluto portare veramente a termine.
La tragica vicenda di Pandolfo ebbe un seguito un quindicennio dopo con il piano, anch’esso destinato al fallimento, ordito dal figlio Orazio contro il nuovo granduca Francesco I.
Fonti e Bibl.: Archivio di di Stato di Firenze, Mannelli Galilei Riccardi, 371, ins. 7; 383, ins. 8; 384; 437, ins. 9; Ceramelli Papiani, 3869; Sebregondi, 4334; Carte Strozziane, s. 1, 97, cc. 190-205; Miscellanea medicea, 514, ins. 8; Otto di guardia e balìa del Principato, 84, cc. 145-147 (condanna di P. P. e degli altri congiurati); ibid., 101, c. 118rv. Firenze, Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Fondo Nazionale, II.IV.321, cc. 167-173 (congiura di P.P.); Soprintendenza archivistica per la Toscana, Inventario fondo Pucci (1404-1930), a cura di D. D’agostino - F. Polidori, 2000, http://www.soprintendenzaarchivisticatosca na.beniculturali.it/fileadmin/inventari/Pucci.pdf (3 febbraio 2016).
G. Adriani, Istoria de’ suoi tempi. Divisa in libri ventidue, Firenze 1583, pp. 635-637; G. Cini, Vita del Serenissimo Signor Cosimo de’ Medici, primo Gran duca di Toscana, Firenze 1611, pp. 437-442; J.R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, II, Firenze 1781, pp. 5-7; C. Trevisani, La congiura di P. P., Firenze 1852 (romanzo storico); S. Ammirato, Istorie fiorentine, ridotte all’originale e annotate dal prof. L. Scarabelli, VIII, Torino 1853, pp. 270-271; G. Campori, Diciotto lettere inedite di Bartolomeo Cavalcanti, con un’appendice di documenti relativi al medesimo, Modena 1868, pp. 31-33; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, Milano 1868, Pucci di Firenze, tav. VI; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al Principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970, pp. 199-201, 205; F. Diaz, Il granducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 108 s.; R. Cantagalli, Cosimo I de’ Medici granduca di Toscana, Milano 1985, pp. 242-246; P. Simoncelli, Il cavaliere dimezzato. Paolo Del Rosso “fiorentino e letterato”, Milano 1990, pp. 151-154 e passim; J. Boutier, Trois conjuractions italiennes: Florence (1575), Parme (1611), Gênes (1628), in Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée, 1996, t. 108, 1, pp. 319-375: 327-342; A. Contini, Dinastia, patriziato e politica estera: ambasciatori e segretari medicei nel Cinquecento, in Cheiron, 1999, n. 30, pp. 57-131 C. Campitelli, Bartolomeo Cavalcanti (1503-1562). Diplomatico, esule e letterato, tesi di dottorato, Università di Roma3, http://dspace-roma3.caspur.it/bitstream/2307/3886/1/Bartolomeo%20Cavalcanti%20 (1503-1562)%20Diplomatico,%20esule%20e% 20letterato.pdf, pp. 292-306 (3 febbraio 2016).