MALATESTA (de Malatestis), Pandolfo
Secondo di questo nome nel casato, fu primogenito di Malatesta detto Malatesta Antico e Costanza Ondedei; nacque intorno al 1325, data avvalorata anche da un'anonima orazione funebre attestante che il M. morì nel 1373 a 48 anni (Abati Olivieri Giordani, pp. 24-27).
Il M. emerge nel casato malatestiano come personaggio complesso, animato dal coraggio del guerriero - specialmente nel periodo della giovinezza, trascorso principalmente come condottiero alle dipendenze delle maggiori potenze - ma percorso, forse più profondamente, dal sacro fuoco dell'amore per le lettere.
A soli sei anni il M. fu promesso in matrimonio a Lapa (Puppa) Francesca, di Bernardo Bulgarelli dei conti di Marsciano, con un breve pontificio, che il 17 apr. 1331 assegnò la dispensa ai futuri sposi, in quanto parenti per terzo e quarto grado di consanguineità.
Lo storico riminese Tonini (IV, 1, p. 328) avanzò perplessità sull'effettiva celebrazione di queste nozze, ma allo stato attuale delle ricerche non sembra sussistere alcun motivo per dubitarne, tanto più che l'11 sett. 1361 il M., da poco vedovo, riceveva da Venezia, in risposta a una sua missiva, una lettera di Petrarca che lo invitava a risposarsi (Fam. 22, 1). Poco dopo (1362) egli prese in moglie Paola Orsini di Roma, che nel corso degli anni gli dette il figlio Malatesta detto Malatesta dei Sonetti, futuro signore di Pesaro, e due femmine, Elisabetta - che sposò Rodolfo di Gentile Varano da Camerino - e Paola Bianca, moglie prima di Sinibaldo Ordelaffi di Forlì e poi del consanguineo Pandolfo (III) Malatesta, signore di Fano. Da donne ignote (ne sono citate almeno due nel suo testamento) il M. ebbe altri discendenti illegittimi, Giovanni, Francesco e Andriola, e forse anche altri non ufficialmente riconosciuti.
Fin dalla giovinezza il M. fu impegnato come condottiero e condivise con il fratello minore Galeotto, detto Malatesta Ungaro, la formazione militare alle dipendenze del padre e, più frequentemente, dello zio Galeotto. La sua prima impresa conosciuta è quella che lo vide nel 1335 difendere Guido da Carignano, in opposizione comune ai Montefeltro, nel tentativo, poi riuscito, di sottrarre Fano all'allora signore della città, Antoniuccio della Tomba.
A Fano lo ritroviamo nel 1342, quando il centro marchigiano si ribellò ai Malatesta: il M., a fianco del padre, riconquistò la città, ottenendo - secondo la Cronaca malatestiana - il cavalierato. Ricevuto il vicariato imperiale da Ludovico il Bavaro (1343), i Malatesta si ripartirono i domini fra i membri della famiglia, per cui al M. toccò Pesaro, a Galeotto Fano, a Malatesta Antico e a Malatesta Ungaro Rimini. Tale riconoscimento consolidò in ambito pesarese il ruolo del M. che ottenne nell'amministrazione comunale una posizione di privilegio con l'esercizio della carica podestarile (documentata nel 1347, 1349, 1368), acquistando di fatto le funzioni di signore della città.
Determinante nell'evolversi del potere malatestiano e dei suoi rapporti con la S. Sede fu l'assegnazione del vicariato apostolico, che l'8 luglio 1355 papa Innocenzo VI conferì ai Malatesta su Pesaro, Rimini, Fano e Fossombrone. Sia prima sia dopo aver assunto la carica di vicario papale, il M., più che amministrare personalmente Pesaro - la formalità del governo spettò ai quattro capitani del Popolo, ma la sostanza della politica rimase nelle mani dello zio Galeotto, che in sua assenza lo sostituì - continuò a prestare le mansioni di condottiero al servizio dei grandi Stati italiani.
Nel 1352 fu chiamato a Ferrara per appoggiare Francesco d'Este nel tentativo di sottrarre il potere ad Aldobrandino (III), legittimo successore di Obizzo (III) d'Este. L'aiuto portato dal M. non servì, anzi, è probabile che, a causa di una sua improvvisa infermità, Francesco abbia riportato una pesante sconfitta; l'episodio, comunque, non turbò i rapporti tra le due casate, che continuarono a essere rafforzati da un'oculata politica matrimoniale. Nel Senese, invece, il M., ingaggiato da Firenze, riuscì con successo ad allontanare la temibile compagnia di Corrado di Landau (1353). Ancora come capitano di ventura, il M. fu a Milano nella primavera 1356 al servizio di Galeazzo Visconti, impegnato nella penisola su diversi fronti difficili da gestire. Presso la corte lombarda il M. fece l'incontro più significativo e foriero di frutti della sua vita, quello con Petrarca, di cui era da tempo grande ammiratore, e nell'occasione ebbe pure l'opportunità di apprezzarne la biblioteca.
Gli incombenti impegni militari, tuttavia, non gli impedirono, seguendo una prassi familiare ormai consueta, di recarsi in pellegrinaggio in Terrasanta per adempiere a un voto (febbraio 1356) e sul sepolcro di Cristo volle che gli fosse imposto il cingolo della milizia. Sulla via del ritorno, la nave che lo trasportava incorse in una tempesta, durante la quale il M. sognò la morte di Michelina Metelli di Pesaro, terziaria francescana morta il 19 giugno 1356. Per gratitudine verso la pia donna, alla cui intercessione attribuiva lo scampato pericolo, egli, giunto a Pesaro, ordinò la costruzione di un sarcofago, adorno dello stemma malatestiano, all'interno della chiesa di S. Francesco; qui venne deposto il corpo di Michelina il cui culto si diffuse nella città.
Dopo aver portato a termine un altro incarico fiorentino, il M. fu di nuovo presso la corte milanese (1356-57) coinvolto, suo malgrado, nell'ostilità che intercorreva fra Bernabò e Galeazzo Visconti. Quale protetto di Galeazzo, il M. si ritrovò incarcerato e condannato a morte; fu poi salvato da Galeazzo e da sua moglie che lo aiutarono a fuggire. Alcuni cronisti imputarono l'incidente a una relazione amorosa che il M. aveva stretto con una favorita di Bernabò, Giovannina Montebretto; altri, invece, e lo stesso Coluccio Salutati (Cardinali - Maiarelli - Lombardi, p. 78) - scrivendo il 25 ott. 1385 ad Andreolo Arese - sostennero che, punendo il M., Bernabò volesse mandare un chiaro messaggio a Galeazzo, che stava guadagnando troppo potere. Allontanatosi da Milano, il M. andò prima a Praga e poi a Londra (1357), con il proposito di perorare al cospetto dell'imperatore Carlo IV e del re Edoardo III la causa di Galeazzo contro Bernabò, ma, in entrambi i colloqui, l'ambasciatore visconteo Sagremors de Pommiers, amico di Petrarca, si contrappose alle iniziative del M. e dinanzi al sovrano inglese lo sfidò persino a duello. Di fronte al rifiuto del M. di accettare il confronto armato, il re inglese ordinò di redigere un documento ufficiale in cui si disapprovavano i risentimenti del M., ritenendoli non consoni alla lealtà di un cavaliere.
Vanificata presso le corti europee la sua missione a sfavore del signore di Milano, il M. tornò in Italia (autunno 1357) e, dopo aver rifiutato il generalato delle milizie venete, entrò di nuovo al servizio della Repubblica di Firenze. Restò, come capitano della città, fino all'agosto 1359, guidando l'esercito prima nella guerra contro Pisa e poi, ancora una volta, contro la compagnia di Corrado di Landau che minacciava la Toscana e le terre della S. Sede. Al termine della condotta fiorentina, il M. fu chiamato dal card. Egidio de Albornoz con il padre, lo zio Galeotto e il fratello Malatesta Ungaro a dirigere in Romagna e nella Marca le operazioni militari antiviscontee, che furono vittoriose. Forlì e Forlimpopoli vennero strappate a Ordelaffi (1359-61) e nel 1362 Bologna fu riconquistata.
La fama di condottiero che si era guadagnato sul campo condusse il M., nel 1361, presso Francesco Novello da Carrara, signore di Padova; qui rivide Petrarca e gli raccomandò più volte il giovane fiorentino Francesco Bruni.
Evidentemente il M. aveva lasciato un buon ricordo di sé a Firenze, se nel 1363 la città gli conferì l'ennesimo mandato di capitano. Ma in tale circostanza le mire del M. erano ben altre: in accordo con i suoi familiari, egli voleva costringere le magistrature fiorentine, lacerate da dissidi interni, a conferirgli poteri straordinari sulla città toscana. Queste ambigue manovre si rivelarono palesemente durante la direzione della guerra, sia nella difesa di Incisa contro le truppe inglesi assoldate da Pisa, sia nelle operazioni belliche del Mugello, per cui i Fiorentini, rimasti insoddisfatti, esonerarono il M. dall'incarico, sostituendolo con lo zio Galeotto (ottobre 1363). In ogni caso le relazioni del M. con Firenze non si interruppero definitivamente, talché per via epistolare (12 nov. 1363) papa Urbano V chiese al M. di raccomandare Marco da Viterbo, ministro generale dei frati minori, per la conduzione delle trattative di pace, sancite poi nel settembre 1364, tra Pisani e Fiorentini (Tonini, IV, 2, p. 259).
Pur se negli ultimi lustri della sua vita il M. dimorò quasi stabilmente a Pesaro, fu ancora impegnato su più fronti al servizio delle grandi signorie italiane. Riavvicinatosi - ma solo per un breve periodo (1366-67) - a Bernabò Visconti il M., nell'estate 1366, fu richiamato alla corte di Pavia, ove ritrovò l'affettuosa amicizia di Petrarca ed ebbe modo di conoscere Giovanni Malpaghini, amanuense di Petrarca e amico di Coluccio Salutati.
Nell'agosto 1368 il M. era a Roma, presso Urbano V: egli seguì le trattative di pace riguardanti Perugia e Città di Castello, occupando poi (1( nov. 1368) militarmente quest'ultima a nome della Chiesa. Il M. fu, inoltre, presente alla riconciliazione pubblicata a Venezia, il 13 febbr. 1369, tra i Visconti, Cangrande Della Scala, il papa, l'imperatore, il marchese d'Este, i Gonzaga da una parte, e i Comuni di Siena e Perugia dall'altra. In veste di soldato, invece, il M. si distinse a fianco dei Brancaleoni di Piobbico e della Rocca nella difesa di Urbino (1370), divenuto possesso papale, contro le milizie inglesi di John Hawkwood, inviate da Visconti a sostegno dei Montefeltro esiliati.
Il 6 febbr. 1371 il M. rimase vedovo di Paola Orsini e il 17 luglio 1372 morì Malatesta Ungaro. Il M. ricevette allora il testimone dallo zio Galeotto. Si trattava di una gravosa eredità che il M. fece appena in tempo a gestire: nel gennaio 1373, dopo una breve malattia e a pochi mesi di distanza dalla stesura del suo testamento (11 ott. 1372), nel quale aveva dichiarato erede universale il figlio Malatesta, il M. morì a Pesaro; volle essere sepolto nella chiesa di S. Francesco, divenuta anche qui, come a Rimini, mausoleo di famiglia.
Gli ideali umanistici del M., e in particolare i suoi rapporti con Petrarca, costituiscono un importante aspetto per delineare la sua singolare personalità. La più recente storiografia ha, soprattutto, messo in luce l'altra natura del M. che acquista forza di mano in mano che egli ascende come condottiero e uomo di Stato: l'indole del letterato e del mecenate. Il M. e, in modo minore, il fratello Malatesta Ungaro furono gli artefici di un riscatto culturale e politico della dinastia: il potere ottenuto con la forza poteva essere arricchito, una volta consolidato, attraverso i nuovi ideali di poesia e di humanitas, che entrambi professavano e che avrebbero portato il M. a formare, in Pesaro, l'embrione di una corte umanistica. Il senso del bello aveva guidato il M. fino a Petrarca che ammirava prima di conoscerlo personalmente, al punto che mandò un pittore a ritrarlo per avere, se non altro, una sua immagine. All'indomani dell'incontro milanese, le relazioni tra i due si infittirono e, appurato che il ritratto che aveva fatto eseguire era poco somigliante, il M. riuscì a commissionarne un secondo, con uno stratagemma poi benevolmente scoperto dallo schivo poeta. L'ambientazione di quest'ultimo dipinto, suggerita dal M., appare chiaramente umanistica: Petrarca fu effigiato seduto tra i suoi libri, e persino la scelta del pittore risulta interessante, dato che il M. aveva chiamato uno dei più celebri artisti dell'epoca, già strettamente legato alla corte malatestiana, Iacopo Avanzi. E furono proprio gli ideali umanistici a fare da collante all'autentica amicizia fra il soldato e il poeta: in effetti Petrarca indirizzò al M. un sonetto (Canzoniere, 104), il cui inizio "Pandolfo mio" fa presumere una certa familiarità, alimentata costantemente da scambi epistolari, che rivelano l'apprensione di Petrarca per la salute e i lutti familiari dell'amico. Per di più, alla morte di Malatesta Antico (1364), il M. chiese a Petrarca di scrivere un epitaffio in onore del suo congiunto; il poeta, già malato di peste, declinò l'incarico, consigliandolo di rivolgersi a Cecco di Meleto Rossi. Il diniego - riguardo pure a due inviti del M. a recarsi a Pesaro, dove avrebbe trovato dimora salubre e sicura - non ruppe le relazioni fraterne anzi, in una successiva lettera del 12 genn. 1373 (Sen., XIII, 11), Petrarca promise di inviare all'amico, per la sua biblioteca, una copia del Canzoniere, che, denominata malatestiana, divenne la capostipite di una ricca tradizione quattrocentesca. Ma la morte impedì al M. di vedere quello che sarebbe stato per lui il libro più desiderato.
La figura del M. bibliofilo emerge, oltre che nell'anonima orazione funebre latina, anche nella richiesta da lui inoltrata a Ludovico Gonzaga di un codice contenente le opere di Paolo Diacono e Giordane, per stilarne una copia. Sulla biblioteca del signore di Pesaro, brevemente accennata in un'epistola di Petrarca (Sen., XIII, 11), non disponiamo di altre informazioni. Si può supporre che in quegli anni la corte malatestiana fosse frequentata da artisti e letterati di un certo rilievo, come il fiorentino Francesco Bruni, il conte Roberto di Battifolle, il ferrarese Antonio Beccari e, soprattutto, Francesco da Fiano, che il M. mandò alla scuola bolognese di Pietro da Moglio e raccomandò a Petrarca. A Francesco da Fiano, rimasto a fianco del M. fino alla sua scomparsa, va attribuito un breve carme latino, in cui viene anche descritto un dipinto, perduto, effigiante il M. con l'abito di frate minore insieme con s. Francesco, Cristo e la Madonna.
Nell'ambiente colto pesarese, ove maturavano gli interessi sia per la poesia volgare - lo stesso M. compose versi in tale lingua (Parroni, p. 216) - sia per il mondo classico, fu redatto l'epitaffio per Paola Orsini. L'epigrafe latina, di cui ignoriamo l'autore, è stata scolpita sul fronte dell'arca sepolcrale a timpano, tuttora nella chiesa di S. Francesco (oggi S. Maria delle Grazie). Due anni dopo, l'iscrizione funebre composta alla morte del M. lasciò una preziosa testimonianza di questa singolare figura del casato malatestiano.
Fonti e Bibl.: Pesaro, Biblioteca Oliveriana, Fondo diplomatico, pergg. nn. 200, 205, 250, 252, 263, 265; Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVIII, 1, vol. III, ad ind.; Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A.F. Massera, ibid., XV, 2, pp. 15, 28, 35; F. Petrarca, Epistole, a cura di U. Dotti, Torino 1978, pp. 634 s.; Id., Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano 1996, p. 483; A. degli Abati Olivieri Giordani, Orazioni in morte di alcuni signori di Pesaro della casa Malatesta, Pesaro 1784, pp. 15, 19, 24-27; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, IV, Rimini nella signoria de' Malatesti, 1-2, Rimini 1880, ad indices; R. Weiss, Il primo secolo dell'umanesimo, Roma 1949, pp. 73-75, 77-87, 90-92, 99-102, 134-154; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 133-144; P. Parroni, La cultura letteraria a Pesaro sotto i Malatesti e gli Sforza, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, a cura di M.R. Valazzi, Venezia 1989, pp. 203-206, 215 s.; P. Ertheler, P. II M. e la beata Michelina da Pesaro, in Atti della Giornata di studi malatestiani a Recanati, Rimini 1990, pp. 67-75; C. Cardinali - A. Maiarelli - F.V. Lombardi, La signoria di P. II M. (1325-1373), Appendice documentaria di A. Falcioni, Rimini 2000; G. Patrignani, Le donne del ramo di Pesaro, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, pp. 793-798, 800, 806, 813-819, 832, 850; A.G. Luciani, Paola Orsini, ibid., pp. 923, 925, 927 s., 930.