MALATESTA (de Malatestis), Pandolfo
Unico figlio maschio nato dal matrimonio di Malatesta detto Malatesta da Verucchio con Margherita Paltonieri, sua seconda moglie, il M. è completamente assente dalle fonti documentarie sino agli inizi del XIV secolo quando, ormai già adulto, iniziò a partecipare con crescente intensità alla vita pubblica.
La mancanza di informazioni relative alla sua infanzia e adolescenza ha consentito di trarre solo alcune argomentazioni logiche dall'analisi degli scarsi elementi a disposizione. Considerando che il contratto di matrimonio fra Malatesta e Margherita risale al 1266, è ragionevole collocare a breve distanza la celebrazione delle nozze. Pressoché concordemente si è giunti ad assegnare la primogenitura al M., la cui nascita, sempre in via congetturale, dovrebbe all'incirca risalire al 1268, prima delle due femmine Maddalena e Simona. Quanto alla scelta del nome è presumibile che Malatesta da Verucchio decidesse di omaggiare la famiglia della moglie rinnovando, alla nascita del primo erede, il ricordo di Pandolfo Paltonieri, padre di Margherita: per questo il M. fu il primo a portare questo nome nel casato.
La quasi esclusiva gestione delle transazioni commerciali, esercitata dal M. agli inizi del Trecento, induce a ritenere che Malatesta da Verucchio gli avesse delegato l'amministrazione delle "terre malatestiane": l'acquisizione di nuovi fondi riguardò principalmente l'area territoriale compresa nella pieve di Santarcangelo e nelle cappelle di Camerano e di Castel dell'Uso.
La prima apparizione pubblica del M. risale al 1302, anno in cui aderì con il padre, con Malatesta detto Malatestino dall'Occhio e Ferrantino Malatesta alla lista dei quaranta riminesi deputati a sostenere la lotta dell'inquisitore di Romagna Guido "de Tuscis de Bonomia" contro il proliferare di dottrine ereticali.
L'iniziativa rientrava, evidentemente, nei tentativi atti a consolidare la presenza della Chiesa nella regione, inefficaci senza il contributo di fedeli collaboratori come Malatesta da Verucchio. Il M., dunque, si inseriva nel solco della linea politica tracciata dal padre e unanimemente assunta dal suo casato.
Si suppone che, sempre su disposizione paterna, il M. fosse incaricato di sostituire il fratellastro Giovanni nel controllo di Pesaro, fondamentale testa di ponte per l'espansionismo malatestiano nella Marca d'Ancona. La morte di Giovanni (1304) che, di fatto, deteneva la signoria della città dal 1296 aveva risvegliato le sopite lotte di fazione, creando un pericoloso vuoto di potere. Il M., sfruttando tale situazione, riuscì a imporsi autorevolmente su Pesaro, in continuità con l'operato del fratellastro: la stessa carica podestarile passò direttamente al M. che, per mandato del fratellastro Malatestino, governava anche a Fano.
Il raggio di influenza malatestiana nella Marca era in netta espansione e da Pesaro occupava vaste propaggini su Fano, Senigallia, Fossombrone con i rispettivi comitati e distretti. L'imponente presenza malatestiana nella regione è indirettamente testimoniata da un documento del dicembre 1305, recante un'istanza di ricorso avanzata dal Comune di Matelica che, promotore di un assalto armato contro la città di Fano, era stato condannato al pagamento di una multa onerosa. L'intervento, tuttavia - sosteneva il Comune incriminato - presentava carattere difensivo e non offensivo, in quanto scaturito dalla volontà di liberare Fano dalla tirannia del Malatesta. Del resto, l'intraprendenza di cui egli forniva evidenti dimostrazioni non allarmava solo i Comuni della Marca, ma destava anche le preoccupazioni della Chiesa, la cui autorità poteva essere indebolita da eccessive concentrazioni di potere. Neppure la fitta trama di rapporti diplomatici imbastita da Malatesta da Verucchio riuscì a impedire la reazione del legato apostolico Napoleone Orsini, con il sostegno del quale i ghibellini marchigiani, organizzati in lega (la cosiddetta Societas amicorum Marchie) sotto la guida dei conti Speranza e Federico da Montefeltro, contrastarono il potere del Malatesta. Nel luglio 1306 i Fanesi insorsero e, con l'ausilio delle truppe pontificie di Bertrando di Got, costrinsero il M. ad allontanarsi dalla città; nell'agosto si ribellarono Pesaro e Senigallia mentre Fano, Forlì, Imola e Faenza si stavano predisponendo in funzione antimalatestiana.
Anche in Romagna le precarie postazioni guelfe erano allarmate dall'avanzata ghibellina. In una lettera del 30 genn. 1306 lo stesso M. denunciava alla Chiesa l'occupazione di Forlì da parte di Masio da Pietramala e Tano da Castello che, con l'aiuto dei Pisani e degli Aretini, mettevano in pericolo Cesena. Si profilava, pertanto, indispensabile ripristinare, in funzione antighibellina, i rapporti con la S. Sede, e, nonostante l'avanzata età, Malatesta da Verucchio appariva ancora la persona più adatta per la difficile mediazione. Recatosi personalmente ad Arezzo per chiedere udienza a Napoleone Orsini, riuscì a restaurare l'antico sodalizio, consentendo al M. di fare ritorno nelle città perdute e assumere la defensoria.
Il ruolo di indiscussa rilevanza, che il M. deteneva da tempo in seno alla famiglia, fu legittimato dalle ultime volontà paterne. Emancipato dalla patria potestà sin dal 16 dic. 1306, nelle disposizioni testamentarie di Malatesta da Verucchio (1311) il M. fu prescelto per la gestione dei beni più preziosi e degli affetti più cari, essendo stato nominato erede universale e titolare della terza parte del patrimonio dinastico.
La scomparsa di Malatesta da Verucchio, pertanto, consacrò il M. e Malatestino alla guida del casato, la cui influenza nei rapporti con la S. Sede e nella politica regionale era in progressivo incremento. Il M. si confermava al governo di Fano dove, approfittando dell'assenza del rettore, il 14 febbr. 1313 aveva di fatto imposto una signoria personale. Ma la cronica condizione d'instabilità vissuta dal centro marchigiano determinò una nuova espulsione del M. da parte di Alberto dei Petrucci, conte della Tomba, che si impossessò della città. La situazione tornò a favore del M. solo grazie all'intervento del rettore che, facendo irruzione a Fano nell'ottobre dello stesso anno, inflisse al Comune il pagamento di una gravosa ammenda.
Il ruolo del M. accrebbe ulteriormente alla morte di Malatestino (1317), quando al controllo sulla Marca cumulò la podesteria di Rimini che mantenne, senza soluzione di continuità, sino al 1326. Continuatore della linea politica paterna, nel 1319 il M. aderì al progetto di papa Giovanni XXII atto a realizzare una lega di signori romagnoli che fornissero costante assistenza al rettore Aimeric de Châtelus, inviato nella regione con il fine di ristabilire la legalità in una terra tradizionalmente votata alla ribellione. L'iniziale disponibilità dimostrata dal M., però, incontrò difficoltà di applicazione. Gli interessi fra Chiesa e Malatesta, nonostante gli accordi, erano spesso inconciliabili e penalizzavano proprio i rapporti con i rettori, rappresentanti in loco dell'autorità pontificia.
La disputa che animò il quinquennio 1320-25 riguardò principalmente il pagamento della tallia militum, che il M. non intendeva espletare, e il possesso delle saline di Cervia di fatto usurpate dai Malatesta ai danni della Camera apostolica. Il carteggio intercorso fra pontefice, rettore e signori di Rimini testimonia il protrarsi della controversia, non sempre gestita con coerenza dalla S. Sede. Se, infatti, la presenza dei Malatesta poteva rivelarsi scomoda per il largo seguito goduto nella regione, d'altra parte il casato romagnolo forniva alla Chiesa un sostegno logistico e militare imprescindibile contro l'espansionismo feltresco. Tornati, pertanto, nuovamente coincidenti gli interessi fra Chiesa e Malatesta, il M. si confermò uno dei massimi rappresentanti del guelfismo romagnolo, distinguendosi per valore e tenacia nella lotta armata contro i ghibellini.
Il M. coordinò principalmente le operazioni nella Marca accettando, nel febbraio 1321, l'incarico di condurre le milizie contro le città di Fano, Cagli e Urbino occupate da Federico da Montefeltro. Fano, scoraggiata dall'avanzata malatestiana, chiese l'intervento della Serenissima, con la quale intercorrevano intensi rapporti commerciali, affinché intercedesse al cospetto della Curia pontificia. Negando qualsiasi velleità di dominio sulla città, il doge di Venezia si limitò a favorire la riconciliazione fra Rimini e Fano che, in cambio dell'assoluzione dall'interdetto papale, assicurava di tornare all'obbedienza della S. Sede e dei Malatesta. Nell'aprile 1321, infatti, il Comune di Fano si consegnò spontaneamente al M. che, allontanato Cesanello del Cassero usurpatore del governo della città, attribuì la podesteria al nipote Ferrantino.
Nel frattempo gli scontri fra guelfi e ghibellini non accennavano a diminuire. Nel 1322 il M., nominato capitano generale delle milizie ecclesiastiche, espletò incarichi a Monte Fano, Montechiaro, Monte Granaro, San Giusto, Ascoli, cumulando un credito di paghe militari pari a 2700 fiorini d'oro.
L'operato dei Malatesta e del Comune di Rimini ricevette in più occasioni le lodi del pontefice, inviate per via epistolare da Avignone, alle quali erano frequentemente accluse specifiche richieste d'aiuto. In una lettera del 1( maggio 1323 Giovanni XXII richiamava all'attenzione del M. e di Ferrantino l'insurrezione di Fermo; pochi giorni dopo erano i comportamenti degli Estensi a destare le preoccupazioni del pontefice. I Malatesta, tuttavia, non si limitarono a rendere esecutive le direttive della S. Sede, ma tentarono di ricavare dalla lotta antighibellina strumenti efficaci per la crescita e il consolidamento del proprio casato.
La politica matrimoniale poteva rivelarsi assai proficua a tal proposito e il M., emulo del padre, segnò un trionfo diplomatico concordando nel novembre 1323 il contratto nuziale fra il secondogenito Galeotto ed Elisa, figlia di Guglielmo della Valletta e nipote del legato della Marca, Amelio di Lautrec.
Le nozze furono celebrate con la massima solennità e magnificenza: tale circostanza oltre ad attirare la partecipazione di illustri personaggi dall'intera penisola, consacrò nuovamente il M., che venne anche fregiato del titolo di cavaliere, capo indiscusso della famiglia.
Tale prestigio se, da un lato, investiva e beneficava l'intero casato, dall'altro, favoriva l'insorgere di pericolose rivalità interne. Nel gennaio 1324 il M. sventò una congiura ordita da Uberto, figlio del fratellastro Paolo e conte di Ghiaggiolo, divenuto sempre più insofferente nei confronti della condizione di subalternità alla quale era stato relegato dallo zio. La defezione di Ramberto, figlio di Giovanni, con cui il cospiratore aveva inizialmente preso accordi, impedì la consumazione del delitto e innescò la vendetta del M. che, invitato Uberto nel castello di Ciola Araldi presso Roncofreddo, condannò il nipote alla pena capitale. Altri motivi di attrito emersero con Ferrantino, pur senza sfociare in tragici epiloghi. Lo stesso pontefice, temendo, forse, una rischiosa frantumazione del casato, si premurava di smorzare i toni e, in una lettera del marzo 1325, incaricò il vescovo di Cesena di promuovere un'opera di pacificazione fra i due Malatesta. Il M., del resto, si confermava il capo del casato, continuando a riscuotere i plausi del papa nella lotta contro i Montefeltro, grazie alla quale ottenne innumerevoli riconoscimenti e cospicue concessioni di terre e castelli nel contado fanese. La frenetica militanza del M. fu condotta con perseveranza sino a ridosso della morte: nel maggio 1325 fu inviato dal pontefice a Macerata per contrastare alcuni moti insurrezionali; in novembre la sua presenza è attestata a Cagli come podestà.
Il M. morì negli ultimi giorni di aprile 1326.
Giovanni XXII manifestò le proprie condoglianze con l'invio da Avignone di due brevi diretti rispettivamente a Ferrantino e ai discendenti Malatesta e Galeotto. Il M. lasciava, inoltre, una figlia di nome Caterina e un erede illegittimo, Giovanni, per il quale, tramite dispensa papale, aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale. Il M. fu sepolto con ogni probabilità a Rimini, nella chiesa di S. Francesco - eletta, in seguito, a mausoleo di famiglia - dove, alcuni anni dopo, fu posta anche la tomba della moglie Taddea, figura peraltro sconosciuta.
Fonti e Bibl.: Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XVIII, 2, pp. 352 s., 360 s.; M. Battagli, Marcha a cura di A.F. Massera, ibid., XVI, 3, pp. 31 s., 75 s.; Cronaca malatestiana del secolo XIV (aa. 1295-1385), a cura di A.F. Massera, ibid., XV, 2, pp. 8 s.; C. Clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell'origine e vite de' Malatesti, II, Rimino 1627, pp. 1-19; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, III, Rimini nel sec. XIII, Rimini 1862, ad ind.; IV, Rimini nella signoria de' Malatesti, 1-2, ibid. 1880, ad ind.; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 74-78, 82-100; S. Pari, La signoria di Malatesta da Verucchio, Rimini 1998, ad ind.; C. Cardinali, Le lotte dei discendenti di Malatesta da Verucchio per la successione alla signoria di Rimini (1312-1334), Rimini 2000, ad ind.; Id., Dalle origini del casato alla legittimazione pontificia, in I Malatesti, a cura di A. Falcioni - R. Iotti, Rimini 2002, pp. 24-30; C. Cardinali - A. Maiarelli, Figure femminili alla "corte" malatestiana di Rimini nel Trecento, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, pp. 239-243.