BAGLIONI, Pandolfo
Figlio di Oddo di Baglione, nacque a Perugia probabilmente nel 1343. Apparteneva al quartiere di Porta S. Pietro. Nel 1368, insieme al fratello Giovanni, seguì in esilio il padre dopo il fallimento di una congiura di nobili, i quali, favorevoli alla dedizione di Perugia alla Chiesa, dopo essersi alleati col popolino, avevano cercato di rovesciare il governo dei "Raspanti" (rappresentante gli interessi della borghesia, cui si erano uniti elementi della bassa nobiltà e del popolo minuto). Nella primavera del 1371 venne tuttavia riammesso in patria con i suoi congiunti in seguito alle clausole della pace conclusa tra il pontefice e il Comune.
A fianco del padre, che vi ebbe un ruolo assai importante, il B. prese parte attiva all'insurrezione di Perugia contro l'abate di Monmaggiore, governatore pontificio della città, ed assistette alla sua resa ed alla sua cacciata (fine 1375 - inizi 1376); il 1° luglio 1376 fu uno dei nobili eletti insieme a tre popolari alla magistratura degli "offitiales custodie civitatis". Ma l'anno successivo figurò, ovviamente, nell'elenco dei cittadini di Perugia colpiti dalla scomunica lanciata dal papa a coloro che avevano partecipato alla sollevazione contro l'abate di Monmaggiore. Nella primavera di questo stesso anno prese parte alla spedizione inviata dal Comune contro i nobili ribelli di Castiglion d'Ugolino, spedizione che vide la resa a discrezione dei rivoltosi e si concluse a Perugia con numerose esecuzioni capitali.
Non sembra che il B. fosse compreso tra i molti Baglioni esiliati ai primi del 1378 per aver partecipato ai moti che avevano cercato di abbattere il governo popolare. Poiché contro suo padre, come anche nei confronti di altri nobili, non furono prese misure punitive, è verosimile che il B., seguendo l'atteggiamento paterno, si fosse mantenuto fedele in questa occasione al governo popolare.
Negli anni immediatamente seguenti il 1378 egli dovette mutare radicalmente posizione, passando tra le file degli avversari dichiarati dei "Raspanti", se abbiamo notizia che nel 1382 egli primeggiava tra i fuorusciti che, come dice il cronista, "andavano travagliando il contado" di Perugia. Sappiamo inoltre che, in quello stesso anno 1382, con l'appoggio dei Tudertini, egli minacciò assai da vicino la città alla testa di un corpo di 300 cavalli e di 400 fanti.
Fu probabilmente in questo periodo di stretti rapporti coi Tudertini che Collazzone - di cui un documento notarile del 1387 ci indica come castellano il B. - entrò a far parte dei territori sui quali i Baglioni esercitarono poteri di tipo feudale.
Amnistiato al principio del 1383 col padre Oddo e col fratello Giovanni in virtù delle clausole della pace stipulata tra Todi e Perugia, il B. fu anche reintegrato nel possesso dei suoi beni; e, benché nell'ottobre dello stesso anno venga fatto il suo nome tra i compromessi nella congiura dei Michelotti (congiura che, favorevole all'antipapa Clemente VII, provocò una grave frattura in seno agli stessi "Raspanti" e severissime misure nei confronti dei Michelotti e fece escludere i fuorusciti complici dei congiurati dai progettati provvedimenti di clemenza), egli venne riammesso nel 1384 in Perugia con i suoi familiari e riacquistò i diritti politici. Iscrittosi all'arte dei Macellai, il 14 giugno lo troviamo "camerlengo" per il semestre che cominciava dal 1° luglio seguente, mentre il 30 giugno ed il 31agosto era uno dei fideiussori dei priori della sua arte, finché, nel 1385, divenne egli stesso priore per i mesi di maggio e di giugno.
Dall'aprile 1384 - da quando cioè i fuorusciti da poco riammessi incominciarono a prendere le loro vendette sugli avversari politici - si aprì per Perugia un periodo in cui il potere venne esercitato senza alcuno scrupolo di legalità da una fazione violenta di nobili, a capo della quale era il B., il "Satana perugino", come lo definisce il Bonazzi. Tutti i "Raspanti" furono costretti via via a prendere la strada dell'esilio. Nel 1385 il B. venne mandato per conto del Comune a trattare con Averardo, un capitano tedesco che si trovava con le sue truppe in territorio senese; quindi, negli ultimi mesi di quello stesso anno era a Cannara per prendere provvedimenti contro i fuorusciti fautori dei Michelotti. Al principio del 1386 fu spedito ambasciatore a Spello, a Foligno ed in diverse altre località. Il 28 genn. 1387 insieme a numerosi altri cittadini influenti (quattro per quartiere) andò ambasciatore presso il papa Urbano VI, che si trovava a Lucca, per invitarlo a Perugia a condizione che non vi mutasse gli ordinamenti politici esistenti. Nel 1388 il B. fu mandato come consigliere politico presso l'inglese Giovanni Beltott, un capitano di ventura che era stato assoldato con la sua compagnia dal Comune per la riconquista di Cannara. L'anno successivo, "eletto da quelli huomini et confirmato da' magistrati nostri", andò come podestà a Spello. Di questa cittadina, che sarà in seguito uno dei feudi più cari ai Baglioni, egli ricevette un'investitura probabilmente in questo torno di tempo da Bonifacio IX.
Il 7 sett. 1389, rafforzatasi ormai la sua posizione in Perugia, il B., con i suoi fedeli del quartiere di Porta S. Pietro, fu l'anima di quel movimento che finì per portare i nobili, ovvero i "gentiluomini", alla conquista del dominio assoluto sulla città.
Un episodio significativo che indica lo strapotere del B. è raccontato dalle cronache sotto la data del 14 apr. 1389. Viene commesso un delitto: un cittadino viene assalito e ferito da un partigiano del B.; contro l'attentatore nulla può fare la giustizia "a caldezza dei becarine de Pandolfo dei Baglione". Anzi, a completare la misura, l'offeso viene costretto a pagare una forte somma a chi lo aveva assalito e ferito.
Nel 1390 il B. fu l'ascoltato sostenitore della spietata esecuzione di quei fuorusciti caduti in potere delle truppe del Comune mentre, guidati dai Michelotti e dai Guidalotti, col sostegno del Comune di Firenze, scorrevano e devastavano il territorio perugino. Tuttavia profonde rivalità cominciavano a dilaniare la stessa fazione dominante, sfociando in disordini e conflitti armati. Il 9 febbr. 1391 fu emessa dai magistrati comunali un'ordinanza che proibiva l'uso delle divise: ciò non ostante il 5 maggio uno scontro, che vide affrontarsi sul colle Landone le bande degli Arcipreti e dei Ranieri da una parte, e quelle dei Baglioni, col B. alla testa, dall'altra, per poco non si risolse in un massacro. Nessun provvedimento fu preso, naturalmente, contro i responsabili. Tant'è vero che, sul finire di quello stesso anno 1391, il B. comandava i contingenti di truppe perugine inviate in territorio di Assisi a vigilare gli sviluppi delle feroci discordie tra Nepis e Fiumi.
"Non si facea in Peroscia se non quanto volesse Pellino e Pandolfo de' Baglioni, et facevansi allora in Peroscia molte laide cose", lasciò scritto di questi anni un cronista orvietano. Ma il destino dei due padroni di Perugia - ai quali congiuntamente si rivolgeva, come a una diarchia signorile, una lettera del 10 luglio 1392 inviata dal Comune di Firenze per reclamare la liberazione di certi suoi ambasciatori - andava maturandosi in rapida successione di eventi.
L'anno 1392 è uno dei più drammatici della storia perugina. Gli attacchi sferrati contro il territorio del Comune da parte degli esuli della fazione popolare (tra i quali emerge Biordo Michelotti) si andarono moltiplicando, mentre le trattative per una conciliazione tra nobili e i fuorusciti attestatisi in Deruta procedevano assai faticosamente. Intanto si trattava col papa Bonifacio IX, perché venisse, supremo moderatore, a Perugia, il cui governo si dichiarava pronto a sottomettergli. Il 17 ottobre il pontefice entrava nella città dilaniata dai dissensi per mettere pace tra i cittadini e per riaffermare nel contempo la sovranità della Chiesa su Perugia. Ma solo un mese più tardi, per la condanna inflitta a un fautore dei nobili da un ufficiale pontificio, si scatenò nuovamente, in modo clamoroso, la delinquenza aristocratica dei "beccherini", istigati dal B., ed il papa si vide costretto a rifugiarsi e a fortificarsi nel monastero di S. Pietro. Dal suo rifugio Bonifacio IX continuò l'opera di pacificazione che aveva intrapresa, riuscendo ad ottenere, grazie anche al persuasivo intervento dei Fiorentini, che il 19 maggio 1393 si giurasse solennemente in Deruta la concordia tra le fazioni avverse e si decidesse la riammissione in Perugia degli oltre duemila popolari esiliati. Rientrati questi in città (1° luglio), vennero pochi giorni dopo creati "a saputa" i nuovi priori, cinque gentiluomini e cinque popolari, che si insediarono nella casa di Simone dell'Abbate, il palazzo dei priori essendo riservato al papa.
Ma se è vero che né nobili né popolari avevano realmente intenzione di rispettare i patti giurati a Deruta (essendo i primi, come pare, in segreto accordo col papa, e gli altri, pieni del rancore covato in esilio, sentendosi forti della crescente potenza di Biordo Michelotti, il quale, per non aver aderito alla pace di Deruta, non era legato da alcun impegno preciso e si preparava perciò ad intervenire col peso della sua forza militare), è indubbio che la responsabilità mediata della nuova convulsione che di lì a poco avrebbe sconvolto ancora una volta Perugia ricade principalmente sul decennio di malgoverno aristocratico, che il cronista ha così bollato: "... nel qual tempo regnarono in questa povera città inganni, rapine, omicidii, assassinamenti, latrocinii, adulterii, violenze, sacrilegi e licenza d'ogni male".
Il 30 luglio 1393 i "Raspanti" scesero in piazza e spazzarono via da Perugia, dopo un'ostinata resistenza, gli avversari; tra i molti nobili che vennero massacrati in quel giorno furono i loro capi Pellino e Pandolfo Baglioni, il quale cadde, "a pie' dell'uscio suo", sul colle Landone dove era stato respinto, dopo che aveva cercato disperatamente di resistere con le armi nella piazza del Comune, con "parte della sua brigata".
Con la morte del B. e di Pellino incominciò l'esilio della fazione aristocratica, mentre Biordo Michelotti si preparava a fare il suo ingresso in Perugia. Quando, il 7 genn. 1395, la moglie del B., "domina Biancia filia condam Arlocti Arlocti de Michelottis de Perusio", redasse il suo testamento, i suoi figli Malatesta e Nello - in esso ricordati insieme alle loro sorelle Nese, Francesca ed Onesta - non sono "in benivolentia comunis Perusii".
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