PALMIERI DI MICCICHE, Michele
PALMIERI di Miccichè, Michele. – Nacque a Termini Imerese nel novembre 1779 dal barone Placido e da donna Rosalia Morillo.
Quartogenito di sette figli, visse infanzia e adolescenza tra le dimore di famiglia – Termini, il castello di Villalba nei pressi di Caltanissetta e palazzo Comitini a Palermo – in un ambiente familiare rigido, dominato dalla figura del padre e del fratello maggiore Niccolò, l’erede destinato alla successione dei feudi del casato. Cadetto fra i cadetti, ben rappresentò le ristrettezze finanziarie della maggioranza della gioventù nobile isolana, dotata di rendite così basse da far sì che fossero talvolta poco praticabili anche le carriere tradizionalmente loro riservate (il clero, le armi, la diplomazia).
Nondimeno Palmieri non ne fu impedito. Brillante per temperamento, amabile conversatore, assiduo frequentatore dei salotti palermitani, trascorse la gioventù impegnandosi nelle attività piacevoli di un’aristocrazia apparentemente immune dalle tensioni rivoluzionarie di fine secolo, dando prova, fin da allora, di una verve e di uno spirito critico essenziali per un’ascesa mondana non sostanziata da capitali ma poggiante solo sulla eccellenza nelle qualità richieste a un gentiluomo del suo rango.
Palmieri il «pazzo» – così come amava definirsi – fu dunque tra i protagonisti dell’alta società palermitana al punto che la principessa di Belmonte, sua protettrice, lo descrisse alla regina Maria Carolina come il miglior cuore e la peggior testa esistente nel regno. Nella rappresentazione del giovane aristocratico – abbastanza olografica in verità – non sembrano trovar spazio altri interessi che non siano quelli del duello, del gioco, della seduzione. Tuttavia Palmieri non fu estraneo alla temperie politico-culturale del tempo. Certo ne fu più osservatore che protagonista, però, ugualmente, partecipò alla stagione del 1812-15 – gli anni della costituzione liberale sul modello inglese – dominata dalla figura di lord William Bentick comandante dell’armata anglo-sicula e rappresentante diplomatico presso la corte siciliana; fu coinvolto nelle traversie istituzionali e politiche, collegate oltre che al travagliato rapporto tra le due anime del partito ‘inglese’ – quella più tradizionale, dove militavano il padre e il fratello maggiore di Palmieri, capeggiata dal principe di Belmonte, e quella più aperta al rinnovamento economico e all’abrogazione di istituti giuridici quali il fidecommesso, con a capo il principe di Castelnuovo e l’economista Paolo Balsamo – al susseguirsi degli eventi sul proscenio europeo dopo la disfatta di Napoleone e di Gioacchino Murat. Di fatto però, il ritorno dei Borbone da Palermo a Napoli segnò la fine del disegno costituzionale delle élites isolane, preparando la strada all’esplosione rivoluzionaria del 1820-21.
Intanto Palmieri, apparentemente dimentico della partecipazione a quanto appena consumatosi nel regno, spostò la sua residenza a Napoli sotto l’ala protettrice di donna Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia e, dal 1814, moglie morganatica di Ferdinando IV. Dal 1816 al 1818, visse quindi nella città partenopea alla stregua degli anni precedenti ma con una diversa sensibilità che sarebbe stata rivelata dagli aneddoti narrati nelle sue opere più note – i Moeurs e i Pensées – laddove l’ironia cedeva spesso posto al sarcasmo nella descrizione di eventi e personaggi. In quegli anni si assiste insomma a un passaggio ‘generazionale’ nel pensiero di Palmieri: oramai ultratrentenne, egli appare meno disposto alla leggerezza del passato, più infastidito da atteggiamenti che ritiene inadatti per rango e stile, più distaccato da ambienti cortigiani che propongono cliché irritanti verso la Sicilia.
Tornò nell’isola dopo due anni, per assistere alla morte del padre. Un evento vissuto con amarezza da Palmieri che a lungo aveva cercato di creare un legame con un genitore sostanzialmente anaffettivo e che nei due anni successivi dovette intraprendere insieme con i fratelli una dura lotta contro l’erede Niccolò per ottenere vitalizi adeguati. Riuscì a ottenere, in ciò, un relativo successo, che coincise tuttavia con la partenza per la Francia dove giunse alla fine del novembre 1820 insieme col fratello Rodrigo. Si trattò di un allontanamento ‘prudente’, giacché i due partirono con regolare passaporto e ampie rassicurazioni sulla clemenza dei Borbone per il coinvolgimento nei moti del 1820 che li aveva visti fautori del ripristino della costituzione del 1812, protagonisti della conquista di Caltanissetta oltre che in aperto scontro con i fautori isolani della costituzione spagnola. In ogni caso fu un breve impegno politico-militare, conclusosi con l’arrivo del generale Florestano Pepe e con il successivo ripristino del controllo borbonico del regno.
A Parigi i due fratelli presero strade diverse: mentre Rodrigo lasciò gli ardori rivoluzionari e dopo essersi sposato si ritirò a Versailles continuando a condurre un’esistenza troppo prodiga, Palmieri alternò la frequentazione dei salotti parigini e del principe d’Orléans, Luigi Filippo, a quella degli esuli politici che provocarono in lui una sorta di maturazione degli ideali fino allora sottotraccia, sino a giungere a una tensione verso un’unità nazionale assai distante dalle motivazioni separatiste che erano state fino ad allora alla base del suo agire.
Nondimeno tutto ciò non avvenne rapidamente. Si trattò, infatti, di una lenta maturazione, peraltro assai segreta giacché Palmieri, sebbene con scarsi mezzi finanziari, continuò nel suo stile di vita, alternando il soggiorno francese con passaggi a Bruxelles, a Londra e, infine, con una più lunga permanenza a Ginevra.
Fu comunque Parigi la chiave di volta del suo cambiamento politico. La capitale abbondava, infatti, di fuoriusciti e intellettuali italiani – da Berchet a Giovanni Aceto, da Pietro Giannone a Manzoni – e di essi egli divenne assiduo frequentatore. Degli stessi anni è peraltro la nascita dell’amicizia, duratura e reciproca, con Stendhal che citò spesso il siciliano come fonte di ispirazione di alcune sue opere.
Conoscenze, amicizie, rapporti di vario genere furono gli elementi di rilievo di un periodo segnato per altri versi dall’insicurezza economica, dai debiti, dai contrasti con il fratello maggiore che rimaneva l’unica fonte da cui ottenere denaro per risolvere i disagi materiali di un esilio vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Né giovarono i tentativi dei due fratelli di tornare in Sicilia, poiché il principe di Castelcicala, ambasciatore napoletano a Parigi, non solo non perorò la loro causa ma operò affinché essi venissero definitivamente banditi dal regno delle Due Sicilie. Fu questo provvedimento lo spartiacque tra un prima e un dopo, giacché da allora Palmieri cercò di adattarsi alla sua condizione di esiliato cercando nella scrittura una forma di riscatto e, al tempo, un divertissement per il pubblico in grado di comprendere e godere appieno la ricca e fine aneddotica. Gli anni ginevrini furono, infatti, anni di riflessione, in parte indotti dall’avanzare dell’età, in parte da un ambiente con ben pochi stimoli per una personalità così mondana. A Ginevra compose il primo volume dei Pensées et souvenirs historiques et contemporaines, suivis d’un Essai sur la tragédie ancienne et moderne, et de quelques aperçus politiques, e iniziò il secondo, completato poi nella Francia di Luigi Filippo (entrambi Parigi 1830). Qui nel frattempo egli era tornato entusiasta per l’affermazione del principio della non-intervention enunciato nel dicembre 1830 dal governo presieduto da Casimir Périer, che consegnava speranza a quanti credevano nella possibilità di un’Italia repubblicana-federalista. Un entusiasmo spentosi però appena tre mesi dopo, quando a seguito di un rimpasto ministeriale fu sostituito con il principio del juste-milieu che, di fatto, dichiarava la volontà francese di non entrare in competizione con l’Austria.
Fu una delusione per Palmieri e per quanti avevano sperato in una politica francese in difesa delle aspirazioni nazionali dei popoli, che egli espose nell’opera Le duc d’Orleans et les emigrés français en Sicile ou les Italiens justifiées (Parigi 1831), subito tradotto in italiano, un vero e proprio atto di accusa verso un regnante che, da esule, aveva ricevuto grande considerazione ma che adesso perseguitava quanti si trovavano nella stessa condizione. Ormai Palmieri aderiva apertamente all’ala moderata dei repubblicani, e anche per ragioni pratiche poiché riteneva che in Italia non vi fosse un sovrano costituzionale su cui fare affidamento: non lo erano, infatti, né Carlo Alberto – mostratosi indegno – né il duca di Modena, che amava tramare senza fondamento con gli esuli italiani in Francia.
Ma ciò che più rileva è l’idea di ‘repubblica’ di Palmieri: non unitaria, per le disparità sociali e politiche della penisola, ma composta da un sistema di repubbliche federate per arginare le inevitabili tensioni e provvedere al necessario sviluppo dei popoli. Si tratta di posizioni interne agli esuli repubblicani, solo in parte condivise, rafforzatesi dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 che Palmieri attribuì ancora all’atteggiamento assunto dalla Francia, guadagnandosi così l’approvazione entusiasta di Mazzini per come egli aveva difeso la «nostra causa» (Scritti editi e inediti di G. Mazzini, Imola 1909, p. 8). Alla sua opera di pubblicista politico vanno inoltre ascritti i due pamphlets – À chacun selon sa capacité (Parigi 1831) e la commedia contro Luigi Filippo Le nouveau Gargantua (ibid. 1832) – che precedettero la sua opera più nota, Moeurs de la Cour et des Peuples des Deux-Siciles (Parigi 1837). L’opera fu subito un successo per il suo appartenere al miglior genere memorialista e per il suo descrivere piacevolmente e finemente episodi e personaggi.
Sta di fatto che oramai Palmieri era stanco e solo, giacché il fratello Rodrigo nel 1830 aveva ottenuto la grazia ed era rientrato in Italia. Nel 1840 chiese anch’egli la grazia al ministro napoletano Francesco Saverio Del Carretto e l’attese per altri due anni, segnati da un travagliato carteggio che coinvolse anche il fratello maggiore deciso a impedirla.
Il ritorno nell’isola non risolse, infatti, la lite tra i due fratelli, malgrado la mediazione di Del Carretto, che nutrì sentimenti di simpatia per Palmieri, e l’indulgenza di Ferdinando II. Neppure la morte di Niccolò nel maggio 1844 e la nomina a suo erede del fratello minore Rodrigo ebbero l’effetto di stabilire la pace, poiché i tre fratelli superstiti iniziarono a dubitare della condotta del nuovo marchese nei loro riguardi. Iniziò così un altro periodo di liti, meno animose rispetto al passato ma ugualmente fastidiose, che finirono con una transazione finanziaria che contentò un Palmieri oramai disilluso e con un atteggiamento da vittima che in gioventù avrebbe deriso.
Stabilitosi quasi definitivamente a Palermo, andò ad abitare presso il palazzo di Girolamo Pilo, conte di Capaci, padre del più famoso Rosolino di cui divenne amico e in cui forse rivide molti dei suoi ardori del passato. Ma certamente Palmieri non ebbe ruoli politici nella sollevazione del 1848, alla quale partecipò come simpatizzante e autore di alcuni articoli e di un pamphlet, sebbene ben attento a non esporsi come in passato. Palmieri era, infatti, anziano, malato e, soprattutto, logorato da una vita vissuta sempre in bilico tra ricchezza e povertà, tra fuga e libertà. Condusse così la sua lunga vecchiaia da spettatore degli eventi che avrebbero portato alla creazione dello Stato italiano.
Morì a Palermo il 9 febbraio 1864.
Fonti e Bibl.: N. Palmeri di Villalba, Memorie storiche e biografiche della famiglia Palmeri di Villalba, Palermo 1902, passim; P. Martino, Une rencontre italienne de Stendhal: M. du Micciché, in Revue de Littérature comparée, VIII (1928), pp. 672-687; L. Natoli, M. P. di M., in La Sicilia nel Risorgimento italiano, gennaio-giugno 1931, pp. 11-56; A. Valenti, M. P. di M. e le sue memorie della vita della corte e dei popoli delle Due Sicilie, in Archivio storico per le province napoletane, XXXIV (1955), pp. 253-278; U. Caldora, I Borboni di Napoli ed i loro tempi, Napoli 1964; M. Palmieri di Micciché, I Borboni di Napoli ed i loro tempi, a cura di U. Caldora, Napoli 1964; F. Della Peruta, M. P. di M., in Nuova Rivista storica, XLIX (1965), pp. 345-356; M. Palmieri di Micciché, Costumi della corte e dei popoli delle Due Sicilie, a cura di E. Sciacca, Milano 1969; N. Cinnella, M. P. di M., Palermo 1976; M. Colesanti, La protesta di Micciché, in Id., La disdetta di Nerval, Roma 1995, pp. 229-246, F. Della Peruta, Politica e società nell’Italia dell’Ottocento: problemi, vicende e personaggi, Milano 1999, pp. 261-266.