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Il Pakistan, ufficialmente Repubblica Islamica del Pakistan, è il secondo paese musulmano più popoloso del mondo, dopo l’Indonesia. La sua collocazione geografica, cerniera tra il Medio Oriente e l’Asia meridionale, ne fa uno dei punti nevralgici della politica mondiale fin dalla sua nascita nel 1947. Tale rilevanza si è evidenziata in particolar modo negli ultimi anni, in coincidenza del fatto che tutti i paesi ai suoi confini hanno guadagnato eccezionale rilevanza dal punto di vista politico, economico e strategico. Se India e Cina, per quanto riguarda il versante meridionale e orientale, sono infatti state protagoniste di una rapidissima ascesa al rango di potenze economiche mondiali, Afghanistan e Iran, che coprono i suoi confini settentrionali e occidentali, si sono invece ritrovati in cima alla black list del Dipartimento di stato americano: il primo come palcoscenico principale della guerra globale contro il terrorismo islamico, il secondo come ultimo imputato dalle diplomazie occidentali nell’ambito del loro impegno per la non proliferazione nucleare. Tutte le priorità della politica estera del Pakistan, che hanno notevoli ricadute anche interne, riguardano proprio le relazioni con i suoi vicini e sono influenzate dal complesso intreccio di interessi che si addensa in questa regione del mondo.
La contrapposizione con l’India domina fin dall’indipendenza l’agenda estera di Islamabad. Alle differenze religiose, etniche e culturali esistenti tra le due nazioni si sono sommati negli anni gli effetti di quattro conflitti armati, di reiterate schermaglie di confine e ancora di una continua corsa agli armamenti, che ha portato entrambi i paesi a dotarsi di arsenali nucleari. Dopo un periodo di disgelo, inaugurato nel 2003, le tensioni tra le due potenze del subcontinente indiano si sono nuovamente infiammate a seguito dell’attentato terroristico del novembre 2008 all’hotel Taj Mahal, nel cuore di Mumbai, portato a compimento da un gruppo fondamentalista pakistano (Lashkar-e-Taiba) e di cui Nuova Delhi ritiene direttamente responsabile Islamabad.
Sistematiche sono poi le accuse che Islamabad muove a Nuova Delhi: soffiare sul fuoco delle contrapposizioni etniche della società pakistana, o sostenere gli irredentismi interni ai suoi confini, come quello della regione del Belucistàn, con l’obiettivo di minare l’integrità e l’unità della Repubblica Islamica. Allo stesso modo sono risapute le accuse indiane che denunciano il diretto supporto del Pakistan ai gruppi fondamentalisti e jihadisti che operano in India, così come i sospetti che attribuiscono a Islamabad la regia e la responsabilità dei frequenti attentati terroristici che negli anni hanno insanguinato città e regioni indiane.
Se rivalità e sospetto sono radicati nelle opinioni pubbliche di entrambi i paesi, i rispettivi punti di vista politici in questa turbolenta relazione differiscono in maniera rilevante: infatti, mentre per Islamabad il rapporto con il suo ingombrante vicino rimane tutt’oggi in cima alle preoccupazioni di politica estera, Nuova Delhi, che si sta affermando come uno dei protagonisti della scena politica ed economica mondiale, coltiva e gestisce interessi di carattere globale che spostano il focus del proprio raggio d’azione ben oltre le dinamiche regionali. L’India, a differenza del Pakistan, è inserita nel G20, è in prima fila per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, vede una numerosissima classe media migliorare ogni anno le proprie condizioni di vita, registra da anni tassi di crescita eccezionali, attira ingenti investimenti da tutto il mondo: tutti dati che distanziano notevolmente sia le preoccupazioni in capo ai rispettivi governi, sia gli interessi e le responsabilità che questi si trovano a dover gestire. Sono in tanti a non volere, né a potersi permettere, una guerra nel subcontinente e le pressioni sul governo indiano in questo senso sono formidabili: prova ne sia il fatto che l’attentato a Mumbai non ha portato a un’escalation militare tra i due paesi, ma ha solo raffreddato il processo di distensione in atto dai primi anni del Duemila. Dai primi mesi del 2011 il dialogo indo-pakistano sembra infatti essere ripartito: sui binari della cosiddetta ‘diplomazia del cricket’, il primo ministro pakistano Yousuf Raza Gilani è stato invitato in India per assistere appunto alla semifinale della Coppa del mondo di cricket, sport popolarissimo in entrambi i paesi.
Altro attore regionale con cui Islamabad intrattiene relazioni altalenanti è il Bangladesh, che fino al 1971 costituiva la parte orientale del Pakistan: alle tensioni coincidenti con la guerra civile e con il primissimo periodo postbellico è seguito un progressivo processo di normalizzazione delle relazioni, trainato dalla comune identità musulmana, che rappresenta un naturale elemento di vicinanza tra le popolazioni dei due paesi. Con Dacca non mancano tuttavia contenziosi di difficile risoluzione: dall’accertamento delle responsabilità nella guerra del 1971 (e dei relativi indennizzi), al trattamento riservato alle rispettive minoranze.
Anche la stretta amicizia che lega il Pakistan alla Cina si iscrive pienamente nelle complesse logiche degli equilibri geopolitici dell’Asia centro-meridionale. Nata sostanzialmente dalla comune rivalità contro l’India, in funzione di copertura strategica, e rinsaldata negli anni della Guerra fredda dalla volontà condivisa di contenere l’Unione Sovietica, l’alleanza sino-pakistana è considerata da sempre a Islamabad come un’alleanza ‘per tutte le stagioni’ (‘all-weather ally’) in quanto si è dimostrata stabile e costante dal 1951 in avanti, anno in cui furono instaurate le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Da allora, infatti, Pechino si è affermato come il primo fornitore di armi per la difesa pakistana, ha sempre fornito assistenza militare, economica e tecnica a Islamabad e ne ha sostenuto il programma nucleare.
Più controverso e di certo più instabile è invece il rapporto con gli Stati Uniti: ‘amico solo quando c’è bel tempo’ (‘fair-weather friend’) è infatti il detto con cui a Islamabad si apostrofa la relazione con Washington.
Il primo trattato di alleanza tra Pakistan e Usa è del 1954 e s’inscriveva nel pieno del clima della Guerra fredda, con la necessità statunitense di contenere la possibile espansione sovietica nell’Asia centro-meridionale. Dello stesso periodo sono inoltre le adesioni di Islamabad a due alleanze di difesa filo-occidentali nella regione, vale a dire la Southeast Asia Treaty Organization (Seato) e la Central Treaty Organization (Cento).
Gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, con le due guerre indo-pakistane e il rischio incombente di una corsa agli armamenti nucleari nel subcontinente indiano, portarono alla scelta americana di un taglio unilaterale della relazione e alla conseguente chiusura dei finanziamenti erogati generosamente da Washington negli anni precedenti.
L’invasione sovietica dell’Afghanistan del dicembre 1979 obbligò la Casa Bianca a una decisa inversione di tendenza, trasformando il Pakistan nel più naturale e prezioso alleato nell’intento di ostacolare l’Unione Sovietica. Dopo il 1989, collassata la rigidità degli allineamenti bipolari, le relazioni sono tornate a vivere un altro decennio di relativa distanza, con gli Usa che decisero nuovamente di condizionare appoggio politico e aiuti economici all’abbandono da parte del Pakistan del suo programma nucleare.
Ma sarà ancora l’invasione dell’Afghanistan, questa volta a opera degli Stati Uniti nel 2001, a marcare l’ennesimo cambio di temperatura tra Washington e Islamabad, rendendo di nuovo necessaria la collaborazione logistica e operativa di quest’ultimo: una collaborazione che nel 2004 porterà l’amministrazione Bush a inserire il Pakistan nella lista dei ‘Major Non-Nato Ally’.
L’importanza della rinnovata partnership è stata infine riconfermata anche con la nuova presidenza Obama e in particolar modo da quando gli strateghi di Washington hanno elaborato la cosiddetta strategia dell’Af-Pak, che esprime tanto la nuova volontà di unificare dal punto di vista operativo i due versanti della Linea Durand (il confine tra Pakistan e Afghanistan), quanto la consapevolezza dell’impossibilità, per l’Alleanza atlantica, di conseguire alcun successo duraturo in Afghanistan senza una stretta collaborazione da parte di Islamabad.
Insieme agli aiuti militari e finanziari, il Pakistan ha così visto aumentare anche le pressioni degli Usa per un suo impegno più stringente nella lotta contro il terrorismo islamico. Un impegno che non può più permettersi di compiere alcun distinguo tra talebani afghani, talebani pakistani, terroristi di al-Qaida o altri gruppi estremisti operanti nelle regioni di confine, né di alimentare, come spesso in passato, l’idea di un Pakistan impegnato, con una mano, ad appoggiare Washington nella lotta contro il terrorismo globale e con l’altra a finanziare gruppi jihadisti operanti nella regione, convinto della loro utilità strategica in funzione anti-indiana.
Gli Usa, inoltre, sono oggi sempre più persuasi della necessità che i loro aiuti finanziari non possano essere destinati solo a scopi militari (e quindi venir utilizzati ancora una volta da Islamabad principalmente in funzione di deterrente anti-indiano), ma debbano essere impiegati anche per rilanciare l’economia nazionale e migliorare lo stato sociale pakistano, completando dunque, parallelamente all’offensiva militare, l’opera di sradicamento dell’estremismo islamico, che trova terreno fertile in regioni povere, degradate e con alti tassi di disoccupazione.
Le relazioni tra Washington e Islamabad sono costantemente sotto i riflettori del dibattito pubblico pakistano e il forte antiamericanismo diffuso nella società diventa un argomento rilevante nella competizione politica nazionale. Un sentimento, quello dell’antiamericanismo, alimentato dalle reiterate ingerenze degli Usa nelle dinamiche politiche pakistane (come per esempio nella richiesta di una comune gestione dell’arsenale nucleare di Islamabad, soprattutto in caso di attivazione di procedure d’emergenza), dalle frequenti operazioni militari che travalicano il confine tra Afghanistan e Pakistan, condotte tramite l’utilizzo dei cosiddetti droni (velivoli senza pilota impiegati dalla Cia per attacchi mirati contro i terroristi), e dal sospetto destato dalle strette relazioni diplomatiche che Washington intrattiene con l’India. A tali sospetti si è raggiunto l’imbarazzo provocato dalla vicenda dell’uccisione di Osama Bin Laden nel maggio del 2011. L’operazione che ha portato alla morte del leader di al-Qaida è stata infatti condotta da forze speciali statunitensi presso Abbottabad, città a circa cinquanta chilometri da Islamabad. Il fatto che il terrorista più ricercato dagli Stati Uniti si nascondesse proprio in territorio pakistano ha destato sospetti circa l’effettiva collaborazione del Pakistan nella lotta al terrorismo, cosi come la mancata informazione preventiva dell’azione da parte statunitense ha creato malumori presso il governo di Islamabad. L’episodio, tuttavia, non ha compromesso la cooperazione tra i due paesi, che continua ad essere fondamentale nella strategia antiterroristica di Washington.
Il Pakistan fa parte della South Asian Association for Regional Cooperation (Saarc), la principale organizzazione internazionale della regione: creata nel 1985 con lo scopo di promuovere una maggiore cooperazione politica ed economica in Asia meridionale, l’organizzazione ha spesso risentito nel suo funzionamento delle forti tensioni tra alcuni dei suoi otto membri, e in primis proprio di quelle tra Pakistan e India. Oltre che della Saarc, il Pakistan è un importante membro dell’Organizzazione della Conferenza islamica (Oic) e ha con uno dei suoi membri più influenti, l’Arabia Saudita, una partnership economico-culturale e strategica di straordinaria intensità e consolidata tradizione, anche in chiave anti-iraniana. Il suo programma nucleare lo ha invece allontanato dalle principali iniziative internazionali per il disarmo e la non proliferazione messe in atto negli ultimi decenni. Islamabad è infine membro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite fin dalla sua fondazione, fa parte del Commonwealth ed è stato inserito tra le cosiddette ‘next eleven economies’ – le economie che potrebbero emergere nei prossimi anni insieme a Brasile, Russia, India e Cina – così come nel G20 delle nazioni in via di sviluppo.
Il Pakistan è una repubblica parlamentare, dal 2008 tornata sotto la direzione di un governo civile, in seguito all’elezione alla presidenza di Asif Ali Zardari, il leader del Pakistan’s People Party (Ppp), che ha posto fine al decennio di presidenza del generale Pervez Musharraf.
La principale criticità che affligge il sistema statuale pakistano rimane la cronica indeterminatezza, in termini di definizione di competenze, tra la sfera militare e quella politico-civile. Se storicamente i militari hanno infatti governato il Pakistan per circa la metà degli anni della sua storia, dalla prima dittatura militare (1957-1968) del generale Ayub Khan, passando per la seconda (1977-1988) retta dal generale Muhammad Zia ul-Haq, fino alla presidenza di Musharraf (1999-2007), ancora oggi si può riconoscere nel paese un sostanziale duopolio nella gestione del potere politico. Le principali istituzioni elettive, infatti, come la presidenza e il Parlamento, anche se formalmente detengono la piena sovranità legislativa ed esecutiva, de facto devono scontare il forte condizionamento che i vertici militari riescono a esercitare nei processi decisionali di settori rilevanti della politica nazionale. Il quartier generale di Rawalpindi, la capitale militare del paese, continua infatti a mantenere un’influenza determinante in tema di politica estera, di sicurezza nazionale così come nella gestione del programma nucleare pakistano. Il ruolo dell’Inter-Service Intelligence (Isi), ovvero i servizi segreti pakistani, e il suo rapporto storicamente ambiguo rispetto tanto all’esecutivo quanto al resto dell’apparato militare, è poi un altro dei maggiori nodi che complicano il già precario equilibrio nelle relazioni tra civili e militari. Se la visione dell’Isi come ‘stato nello stato’ può apparire eccessiva, è altresì vero che i servizi segreti pakistani, che solo formalmente rispondono al primo ministro, mantengono un buon margine d’azione indipendente e che il pericolo di una radicalizzazione di alcuni dei loro comparti è considerato fonte di legittima preoccupazione.
Se alla precarietà di questo equilibrio si aggiunge la proliferazione di gruppi fondamentalisti interni e la turbolenza di intere regioni del territorio nazionale, dove Islamabad non riesce a dispiegare un controllo capillare ed efficace, si intuisce immediatamente l’incertezza che vige circa il presente e il futuro prossimo del paese. Il ventaglio dei possibili scenari costantemente al vaglio delle diplomazie di tutto il mondo è davvero ampio: dalla possibilità che il paese si avvii sui binari del consolidamento democratico al rischio che un’implosione del sistema politico-istituzionale trasformi il Pakistan in uno ‘stato fallito’, passando per la possibilità che i militari organizzino un nuovo golpe, trascinando il paese verso una deriva autoritaria, o ancora che le posizioni politiche radicali possano prevalere, spingendo la democrazia pakistana verso l’islamizzazione. Delle quattro opzioni, quella del consolidamento democratico, sulla quale convergono i maggiori interessi della comunità internazionale e in primis degli attori più coinvolti nell’area, si scontra con molteplici fattori interni, endemici al sistema pakistano, che ne allontano una sua piena realizzazione. Tra questi, oltre alla già ricordata delicata coabitazione tra potere civile e potere militare, si registra la sostanziale debolezza dei partiti pakistani, il mancato rinnovamento della leadership politica nazionale, una cronica incapacità dei governi civili nel portare a termine i propri mandati e ancora una corruzione dilagante, che innerva tutti i rami dell’amministrazione. Il fatto che nell’ultimo decennio di governo civile, dal 1988 al 1998, gli esecutivi siano stati guidati alternativamente da Benazir Bhutto (ex leader del Ppp) e da Nawaz Sharif (leader della Pakistan Muslim League, Pml-N), entrambi eletti due volte e in altrettanti casi rimossi a causa di accuse di corruzione, è la fotografia più emblematica delle difficoltà che affliggono la democrazia pakistana.
L’istituzionalizzazione e la sedimentazione di prassi politiche democratiche è infine messa a dura prova dall’instabilità che caratterizza la società pakistana, attraversata da profondi conflitti etnico-religiosi e fortemente condizionata dal terrorismo politico interno che, specie in anni recenti, non solo ha ripetutamente insanguinato città e regioni del paese, ma ha anche colpito personalità politiche di primissimo piano: dall’ex primo ministro Benazir Bhutto, uccisa nel dicembre 2007 durante la campagna elettorale, al governatore dell’importante regione del Punjab, Salman Taseer, ucciso nel gennaio del 2011 per avere criticato la legge sulla blasfemia, fino al cattolico Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose, caduto per mano del fondamentalismo nel marzo del 2011.
Al momento della Partition, nel 1947, il Pakistan era composto da due distinte aree geografiche, divise da circa 1700 km di territorio indiano: da una parte, un’ala orientale, sostanzialmente omogenea sotto il profilo etno-linguistico, con una struttura produttiva agricola incentrata sui piccoli appezzamenti, una tradizione di mobilitazione politica e una classe media urbana moderna; dall’altra, un’ala occidentale, composita sotto il profilo etno-linguistico, con livelli bassissimi di istruzione e partecipazione politica, una classe media urbana quasi inesistente e una struttura produttiva caratterizzata dalla coesistenza del latifondo e di un’economia di sussistenza, legata al nomadismo e a strutture tribali. Nelle istituzioni pakistane, inizialmente controllate dai Mohajir (gruppi urdofoni provenienti dall’India settentrionale), divenne via via dominante la presenza dei Pangiabi -un’eredità, questa, delle politiche coloniali britanniche e dell’importanza economica del Punjab (Panj¯ab in urdo). Gli altri gruppi etnici, inclusi i Bengalesi (che costituivano l’etnia numericamente maggioritaria), vennero progressivamente emarginati nelle sedi decisionali e discriminati nell’allocazione delle risorse. La classe dirigente, restia a rinunciare ai propri privilegi e temendo che eventuali concessioni ai regionalismi facilitassero la disintegrazione dello stato, impose al paese una struttura centralizzata. Le rivendicazioni di Sindhi, Beluci e Pashtun rimasero inascoltate e in alcuni casi si inasprirono dinnanzi all’atteggiamento di chiusura delle autorità centrali. Le proteste bengalesi, che iniziarono a farsi sentire negli anni Cinquanta, sfociarono nel 1971 in una guerra civile, che si concluse nella secessione dell’ala orientale. Il ruolo giocato da Nuova Dehli a favore degli insorti alimentò la convinzione tra la classe dirigente pakistana che dietro i movimenti autonomisti e indipendentisti su base etnica ci fosse l’intenzione indiana di frammentare il paese. La perdita del Pakistan orientale, divenuto Bangladesh nel gennaio 1972, indusse Zulfiqar Ali Bhutto, allora primo ministro, e le forze armate, in cui l’elemento pangiabi era preminente, a reprimere nel sangue, con il sostegno iraniano, anche la rivolta beluci che divampò tra il 1973 e il 1977. Nei confronti dei Pashtun, invece, lo stato centrale continuò ad adottare quella politica di cooptazione e di concessioni all’autonomia locale che aveva già caratterizzato i colonizzatori britannici. Le migrazioni interne e il fenomeno dell’inurbamento negli anni Cinquanta-Ottanta, così come il flusso consistente di rifugiati afghani a partire dagli anni Settanta, hanno contribuito a complicare il quadro etnico del paese: rimescolando la composizione della popolazione urbana, in situazioni di diffusa povertà e alienazione da uno stato che è latitante sulle questioni di welfare, le migrazioni interne hanno alimentato scontri interetnici tra gruppi autoctoni preesistenti e nuovi arrivati.
Per mettere a tacere le rivendicazioni etniche, la classe dirigente pakistana ha fatto ricorso alla comune identità religiosa, nella speranza che diventasse col tempo un fattore di aggregazione. Le rivendicazioni etniche sono state accusate di minare l’integrità del paese, facendo il gioco degli indiani, e di contraddire l’identità nazionale, fondata sulla religione islamica. L’islam pakistano, tuttavia, è frammentato in associazioni, partiti e movimenti che esprimono interpretazioni talora divergenti. Il tentativo di trovare un’unica definizione di islam, evidente già nei dibattiti in seno all’Assemblea costituente, ha avuto l’effetto di mettere in luce queste differenze, esasperandole. Si sono così moltiplicati nel corso dei decenni gli episodi di violenza, volti a imporre la propria interpretazione. Le violenze hanno preso di mira non solo le minoranze religiose (cristiani e indù, che costituiscono circa il 3% della popolazione), ma anche gruppi che si considerano musulmani, ma che sono tuttavia ritenuti dalla maggioranza sunnita ‘eterodossi’ (gli sciiti, circa il 15% della popolazione) o ‘non musulmani’ (gli ahmadiyya, il 2,3%). Anche chi, tra giornalisti, docenti e attivisti, ha espresso un’interpretazione progressista o laica della religione è stato spesso oggetto di violenze, non di rado sancite da leggi che, come quelle sulla blasfemia, si prestano ad essere abusate e piegate a interessi che nulla hanno a che fare con la religione.
Il Pakistan ha una popolazione di circa 180 milioni di abitanti, dato che lo pone al sesto posto mondiale nella classifica dei paesi più popolosi. Allo stesso tempo le condizioni di vita pakistane sono ancora molto critiche e Islamabad deve affrontare una serie di sfide nel campo dell’istruzione, della sanità e della qualità della vita, dal momento che la maggior parte della popolazione soffre ancora di gravi carenze di base dal punto di vista socio-economico. Accanto alle problematiche di natura sociale, è poi da considerare l’estrema varietà della composizione etnica del Pakistan, che rende difficile un’integrazione tra culture e religioni diverse, soprattutto nelle aree rurali.
La grande maggioranza dei pakistani, circa il 95%, è di religione musulmana, con delle minoranze hindu e cristiane. Dietro quest’apparente omogeneità, comunque, la popolazione musulmana risulta molto divisa tra la componente sunnita (circa il 75% dei musulmani) e quella sciita, divisione che genera tensioni che spesso sfociano in violenze. Il gruppo etnico più numeroso è costituito dai Pangiabi, circa il 45%, cui seguono i Pashtun (15%), i Sindhi (14%) e altre minoranze come i Sariaki e i Beluci.
La popolazione, che prevalentemente vive lungo il fiume Indo, è per la maggior parte rurale, nonostante il tasso di urbanizzazione sia in costante crescita: attualmente, il Pakistan è il secondo paese dell’Asia meridionale quanto a popolazione urbana, sebbene il dato sia comunque basso (circa il 36%) se confrontato con altre regioni. Legato al fenomeno dell’urbanizzazione vi è poi quello della crescita dei grandi centri urbani, come per esempio Karachi che, con più di 10 milioni di abitanti, è la prima città del paese.
La popolazione pakistana è caratterizzata da forti disuguaglianze sociali e da livelli di sviluppo socio-economici molto bassi. Il sistema di istruzione risulta ancora deficitario e il governo non è riuscito a imprimere al settore un cambiamento adatto ad adeguare il paese alle necessità strutturali che presenta. Gli investimenti pubblici sono destinati in misura maggiore all’istruzione di alto livello, accessibile solo dalle élites al potere, piuttosto che alla scuola primaria e secondaria. In tal modo si incentiva un processo di immobilismo sociale e di arretratezza culturale, come testimoniato dal basso tasso di alfabetizzazione della popolazione, che in alcune aree rurali è sotto l’1%.
Allo stesso tempo, tale condizione favorisce il fiorire delle madrase, vale a dire di quei centri di istruzione islamici da cui potenzialmente potrebbe svilupparsi il fondamentalismo religioso. Anche il sistema sanitario non è adeguato a una popolazione così numerosa e gli investimenti in tale campo risultano ancora insufficienti.
La situazione critica delle condizioni socio-economiche del paese, del resto, è resa evidente dal fatto che circa il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. A rendere il quadro ancora più complesso si aggiunge il dato dei rifugiati provenienti dall’estero, in maniera particolare dall’Afghanistan: il Pakistan è infatti il primo paese al mondo per numero di rifugiati ospitati al suo interno (circa 1,7 milioni).
Sono invece sette milioni i cittadini di origine pakistana che vivono all’estero, soprattutto in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in Gran Bretagna.
Il Pakistan sta ancora vivendo la fase di transizione da un governo di stampo militare a uno civile, eletto nel 2008. Infatti, nonostante l’ex presidente Musharraf si sia dimesso, permettendo una parziale riforma interna del sistema politico, la classe militare controlla di fatto ancora gran parte delle politiche governative. Il processo elettorale, d’altro canto, non sembra essere del tutto trasparente e libero, come testimoniato da molti osservatori esterni e come confermato dal fatto che durante l’ultima campagna elettorale vi sia stato un clima particolarmente violento, che ha portato alla morte di più di 100 persone. Sebbene il Pakistan non venga incluso, nella speciale classifica stilata dall’ Intelligence Unit dell’«Economist», tra gli stati di tipo autoritario, rimane comunque un paese caratterizzato da forti restrizioni in ambito politico e civile. Il sistema politico è ancora percepito come fortemente corrotto e vi sono ampie ingerenze dei servizi segreti e dell’esercito nel normale svolgimento degli affari politici. Anche la libertà di stampa risulta limitata e il Pakistan, nel 2010, è stato il paese con più giornalisti uccisi di tutto il mondo, ben 11 secondo i dati di Reporter senza frontiere.
In alcune zone del paese, soprattutto quelle più rurali e quelle di frontiera con l’Afghanistan, al sistema legale statale si sovrappongono sistemi legislativi e consuetudinari basati su tradizioni locali e sulla religione, rendendo di fatto tali aree quasi indipendenti da Islamabad. In particolar modo, le cosiddette Aree tribali di amministrazione federale (Federally Administered Tribal Areas, Fata), a maggioranza pashtun, sono governate da funzionari non eletti, afferenti al sistema tribale locale, che vengono nominati dal presidente, senza l’intermediazione di partiti politici. Allo stesso modo nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, nota in passato come Provincia della frontiera del nord-ovest (North-West Frontier Province, Nwfp), ha destato preoccupazione il fatto che, nel distretto di Swat, il governo di Islamabad abbia raggiunto un accordo con i gruppi islamisti locali legati ai talebani, per permettere l’applicazione della legge islamica (sharia) in quell’area. In alcune aree, inoltre, vi sono ancora tribunali religiosi e negli ultimi anni si sono verificati dei casi di lapidazione per adulterio; infine, non solo secondo le usanze locali, ma anche secondo l’ordinamento giuridico dello stato la blasfemia è ancora considerata un reato punibile con la morte. Il sistema legale tribale vigente di fatto in alcuni distretti limita molto anche l’uguaglianza di genere, nonostante a livello istituzionale questa sia garantita dal numero fisso di seggi (60) destinati alle donne in Parlamento. Del resto, si ricordi come Benazir Bhutto, ex primo ministro del paese, nel 1988 sia stata la prima donna a ricoprire tale carica in un paese musulmano.
L’economia pakistana soffre di carenze strutturali, dovute soprattutto alle difficoltà nel creare un’industria diversificata, oltre che all’instabilità politica che da anni caratterizza il paese. Nonostante tali difficoltà, il sistema economico è in ripresa dopo il calo del 2008, grazie anche agli aiuti provenienti dall’estero e in particolar modo dagli Stati Uniti, nel quadro della rinnovata cooperazione tra Washington e Islamabad, legata alla guerra al terrorismo.
Il settore industriale è quello che risulta meno sviluppato, mentre l’agricoltura è di nuovo in crescita e da quest’ultima, nonostante incida sul pil totale per solo il 21%, continuano a dipendere, direttamente o indirettamente, circa i due terzi della popolazione pakistana. Il settore dei servizi contribuisce invece al 55% del pil e il Pakistan ha una sua eccellenza, sebbene ancora in via di sviluppo, nel campo della tecnologia informatica. L’industria si basa prevalentemente sul settore tessile, risultandone strutturalmente dipendente, anche per ciò che concerne le esportazioni complessive del paese. Tale fattore rende l’economia pakistana vulnerabile, soprattutto alla luce della concorrenza della Cina da un lato e, dal punto di vista interno, della dipendenza delle coltivazioni di cotone dalle condizioni climatiche, soggette a frequenti periodi di siccità e di inondazioni. Un elemento che ha in parte sopperito a tale condizione di debolezza strutturale negli ultimi anni è stato l’innalzamento delle quote del tessile dirette verso l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Turchia, grazie al quale si era registrata nel 2007 la crescita del settore industriale, adesso nuovamente in calo.
La politica economica del governo è stata mirata, negli ultimi anni, a promuovere le riforme necessarie per la privatizzazione del sistema, ma vi sono ancora ampi settori controllati dallo stato. Anche per ciò che concerne il settore agricolo vi è un sistema di proprietari terrieri, legati alle élites di potere e interessati al mantenimento dello status quo, che ostacola il cammino delle riforme.
L’instabilità politica del Pakistan nuoce anche al flusso di investimenti esteri in entrata, in declino dal 2008, proprio in concomitanza con l’aggravarsi della crisi politica seguente all’assassinio della Bhutto e con la nuova ondata di attentati terroristici che hanno sconvolto il paese. Vi è comunque da sottolineare l’importanza degli aiuti internazionali (circa un miliardo e mezzo di dollari l’anno), così come il peso delle rimesse inviate al paese dai lavoratori all’estero, che nel 2009 sono ammontate a 8,7 miliardi di dollari, corrispondenti a circa il 5% del pil nazionale.
Islamabad ha l’ambizione di diventare un corridoio di transito tra l’area mediorientale e l’Asia centro-meridionale, ma per raggiungere tale scopo deve far fronte alle lacune strutturali che, al di là dell’instabilità politica, riguardano soprattutto l’inefficienza del sistema infrastrutturale. La rete ferroviaria non cresce dal 1998 e il 96% delle merci viaggia su strada. Sebbene siano stati fatti investimenti sul sistema di collegamento stradale, le autostrade costituiscono solo il 4,2% del totale; a fronte di tale dato, il 90% di tutto il trasporto avviene proprio su autostrada, rendendo evidente il bisogno di un ampliamento delle infrastrutture, soprattutto in rapporto a una popolazione molto numerosa e che continua a crescere con un tasso annuo di circa l’1,6%.
Lo sviluppo infrastrutturale del Pakistan potrebbe dipendere proprio dagli investimenti esteri e, in tale ottica, un paese molto attivo è la Cina. Il governo di Pechino è interessato a creare un corridoio per il proprio commercio che eviti di passare per lo Stretto di Malacca e ha investito molto nell’area del Belucistàn e nel porto di Gwadar, nel sud del paese. La Cina ha infatti individuato quest’area come possibile terminal per le proprie importazioni petrolifere e, oltre al porto, sta costruendo un aeroporto e una raffineria, per un investimento totale di circa 15 miliardi di dollari. La Cina è anche il maggior partner delle importazioni pakistane, che per il resto arrivano soprattutto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (Eau), come diretta conseguenza della dipendenza del paese dalle importazioni petrolifere. Le esportazioni, rappresentate per il 56% dal settore tessile, sono invece dirette soprattutto verso gli Stati Uniti, gli Eau e il vicino Afghanistan.
Il mix energetico pakistano è molto composito, ma per più del 50% dipende dagli idrocarburi, e tra questi il 32% è rappresentato dal gas naturale e il 24% dal petrolio. Il Pakistan produce poco petrolio e ciò lo rende un paese dipendente dalle importazioni, che ammontano a circa 350.000 barili al giorno e derivano in gran parte dall’Arabia Saudita. Questo fattore fa sì che l’economia di Islamabad sia in parte vincolata dal prezzo del petrolio sul mercato internazionale, per cui la crescita di questo ha ripercussioni negative sulla bilancia pakistana. D’altra parte il paese ha una rilevante produzione di energia da fonti rinnovabili (in tutto il 38% del totale), tra cui l’energia idroelettrica pesa per quasi l’8%, ma è soggetta a cali di rendimento, in correlazione ai problemi di siccità che periodicamente affliggono il Pakistan. Vi sono anche centrali nucleari, ma questa fonte energetica contribuisce a solo lo 0,5% del mix energetico. Per ciò che riguarda il gas naturale, il paese mira ad accrescere le proprie importazioni sia dai paesi del Golfo, in particolare del Qatar, che dall’Asia centrale. Il Pakistan, inoltre, è al centro di due progetti di gasdotti regionali, che per motivi geopolitici sono stati, e sono tutt’ora, oggetto di controversie. Da un lato, infatti, vi è il progetto del cosiddetto ‘gasdotto della pace’, che dovrebbe trasportare gas naturale dall’Iran all’India attraverso il Pakistan (Iran-Pakistan-India, Ipi). Dall’altro, vista l’opposizione soprattutto statunitense a un’infrastruttura simile, che porterebbe dei vantaggi economici all’Iran per via delle rendite delle esportazioni, vi è il progetto del gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, anche detto Tapi, pensato appunto per aggirare l’Iran. La realizzazione di quest’ultimo, tuttavia, comporterebbe costi molto maggiori, mentre l’Ipi è stato in parte già avviato grazie a un accordo tra Iran e Pakistan, a cui però l’India non si è ancora aggiunta. Secondo tale accordo, l’Iran dovrebbe esportare in Pakistan circa 7,5 miliardi di metri cubi l’anno, ma questa infrastruttura è potenzialmente a rischio, viste le continue tensioni geopolitiche nel territorio del Belucistàn, attraverso cui dovrebbe passare.
Essendo uno dei paesi più popolosi al mondo, il Pakistan ha anche una domanda di energia elettrica molto elevata e in costante crescita. La generazione di elettricità è uno dei maggiori problemi per il paese e per il lento sviluppo del suo settore industriale. A fronte di una crescita della domanda di più del 9% l’anno, la produzione di energia elettrica, infatti, cresce solo dello 0,6% su base annua e ancora oggi circa il 40% della popolazione non ha accesso all’elettricità, dato che nelle aree rurali raggiunge anche il 60%. Anche la rete di distribuzione elettrica non è efficiente e gli sprechi ammontano a circa un quarto del totale. A causa della scarsa disponibilità di energia elettrica nel paese sono poi frequenti le interruzioni nell’erogazione dell’elettricità, non sempre pianificate.
Le condizioni climatiche del Pakistan provocano spesso disagi e talvolta veri e propri disastri, da un lato per via dei periodi di siccità e, dall’altro, per le inondazioni che colpiscono il paese.
Nell’agosto del 2010 il Pakistan è stato colpito dalla più grave ondata di alluvioni della sua storia, provocate dalle ingenti piogge monsoniche e dallo straripamento del fiume Indo. Circa un quinto di tutto il territorio pakistano è stato infatti sommerso dalle acque e più di 20 milioni di pakistani sono stati colpiti dall’evento, che ha provocato la morte di circa 2000 persone. Le alluvioni hanno causato gravi danni all’economia pakistana e alle infrastrutture energetiche, e l’impatto economico totale è stato stimato in circa 40 miliardi di dollari.
L’entità del danno ha spinto le Nazioni Unite ad attivarsi per far fronte all’emergenza umanitaria, stanziando quasi 500 milioni di dollari per gli aiuti. La gestione di tali fondi è però controversa e vi sono state diverse critiche alle autorità pakistane per la lentezza dell’intervento. Il malcontento generato dalla poca prontezza nel rispondere a una simile emergenza ha generato anche un alto livello di instabilità sociale che, a sua volta, è stato utilizzato dai gruppi radicali di matrice islamista in maniera funzionale alla propaganda antigovernativa e antioccidentale.
L’esercito è senz’altro uno degli attori più rilevanti della realtà pakistana sotto tutte le dimensioni: oltre al monopolio dell’uso della forza, infatti, l’esercito pakistano detiene importanti risorse di tipo economico, simbolico e politico.
In primis, le forze armate pakistane sono titolari di tutta una serie di interessi, prerogative e benefici economici che, cresciuti notevolmente sotto la presidenza di Musharraf, continuano a essere garantiti e tutelati anche da quando nel paese è stata ripristinata la normalità democratica. Stime del patrimonio dell’esercito ne calcolano un ammontare prossimo ai 20 miliardi di dollari, che scaturisce dal possesso di quasi 5 milioni di ettari di terreno e dalle partecipazioni in industrie nazionali di diversi settori e ancora dalla presenza del loro capitale in banche e compagnie assicurative.
In secondo luogo l’esercito gode tradizionalmente di una notevole legittimazione popolare, guadagnata negli anni non solo grazie al suo ruolo di difensore e garante della sicurezza nazionale, specie in riferimento alla forte contrapposizione con l’India, molto sentita dalla popolazione pakistana, ma anche grazie alla reputazione di essere l’unica istituzione nazionale al riparo dalla corruzione.
Infine, le forze armate pakistane detengono in qualche modo il ruolo di ultimo arbitro della politica nazionale: da una parte, infatti, non è possibile raggiungere il governo del paese e mantenerne la direzione e il controllo senza l’appoggio dell’esercito – in quanto unica istituzione del paese presente sulla totalità del territorio nazionale, oltre che importante bacino elettorale con i suoi oltre 600.000 effettivi; dall’altra, la sua forza e la sua presenza incidono in maniera determinante sulla realizzabilità dei diversi scenari circa il futuro del paese. Tanto il rischio di un collasso istituzionale, quanto la probabilità di una deriva fondamentalista della politica pakistana appaiono infatti scongiurati proprio dalla forza posseduta dall’esercito e dall’opera stabilizzatrice che questo è in grado di svolgere. Inoltre, nonostante l’attuale dirigenza, sotto la direzione moderata del generale Ashfaq Kayani, stia mostrando deferenza verso la leadership politica civile, un ritorno al regime autoritario a guida militare non può essere escluso in un paese che ha conosciuto dittature militari per la metà della sua storia. È poi in questo senso molto significativo che nella celebre lista delle persone più influenti al mondo stilata annualmente dalla rivista «Forbes», nel 2010 l’unico pakistano annoverato, al 29° posto su 68, sia proprio il generale Kayani, mentre non si trovi né il primo ministro, né il presidente del paese.
Dalla fine degli anni Novanta il Pakistan è diventato ufficialmente una potenza nucleare: la decisione di dotarsi di armamenti nucleari rispondeva alla volontà di Islamabad di controbilanciare la schiacciante superiorità dell’India – che già da venti anni aveva portato a compimento il suo programma atomico – in termini di capacità militari convenzionali e di disponibilità finanziarie da destinare alla spesa per la difesa. Entrambi i paesi, come è noto, non aderiscono al Trattato di non proliferazione, volto a contenere e controllare la diffusione di testate atomiche a livello globale. La dotazione nucleare a disposizione, che si stima intorno alle 80-100 testate nucleari, trasforma automaticamente la stabilità del paese in una delle priorità per la sicurezza internazionale, specie alla luce dei rischi connessi alla sua gestione in caso di collasso delle istituzioni politiche nazionali, o del pericolo di contrabbando e vendita di componenti nucleari ad altri paesi o alle reti terroristiche globali.
Per altri versi il paese può essere considerato un sostenitore attivo del multilateralismo: da qualche anno il Pakistan si alterna con il Bangladesh nel primato mondiale per contributi, in termini di numero di truppe, alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. I maggiori contingenti pakistani sono impegnati in Costa d’Avorio, nella Repubblica Democratica del Congo, in Liberia e in Sudan.
Dal 2005 il Pakistan, insieme a India e Iran, è membro osservatore nell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (Sco) e da allora ambisce a ottenerne l’ammissione a membro effettivo dell’organizzazione, potendo contare sul sostegno cinese alla sua candidatura. L’adesione pakistana alla Sco necessita, però, anche del sostegno della Russia, che tuttavia ne avrebbe vincolato l’accettazione alla condizione di estendere la membership anche all’India, cui il Pakistan si oppone.