pacifismo
s. m. – Il movimento pacifista degli inizi del 21° sec. sta rielaborando la sua identità su un piano globale intrecciando sempre di più la sua azione con quella dei movimenti sociali e no-global e dedicandosi a costruire alternative politiche di pace fondate sul disarmo, la prevenzione dei conflitti, il ruolo delle istituzioni sovranazionali, ma anche la costruzione di una cultura di pace. La sua azione si concentra su governi, parlamenti, policy makers, nel tentativo di condizionarne la politica estera e la legislazione: temi centrali sono il disarmo, la soluzione non violenta dei conflitti e la funzione degli organismi sovranazionali come Nazioni Unite e Unione Europea. I conflitti nei Balcani tra 1991 e 1999, così come gli attentati terroristici di matrice jihadista avvenuti negli Stati Uniti e in Europa a partire dal 2001, hanno segnato una decisa ripresa del movimento pacifista. Contemporaneamente lo hanno posto di fronte alle nuove sfide e ai temi di uno scenario internazionale radicalmente mutato rispetto ai parametri del 20° secolo. Venuta meno la contrapposizione bipolare tra paesi dell’area NATO (North Atlantic treaty organization) e quelli del blocco sovietico con la dissoluzione dell’URSS, si è aperta una fase di conflittualità diffusa, alimentata dalla ripresa di mai sopiti nazionalismi e dispute a sfondo religioso. Le tensioni con riflessi sulla politica estera delle maggiori potenze si concentrano soprattutto in Medio Oriente. A infiammare la regione la contesa tra Israele e Palestina, i contrasti tra Siria e Libano, la difficile costruzione della democrazia nell’Iraq post-Saddam Hussein e negli stati dell’Africa settentrionale dove la primavera araba ha rovesciato dittature decennali. I conflitti che hanno devastato l’ex Iugoslavia tra il 1991 e il 1995, conditi da massacri e pulizie etniche, hanno riaperto il dibattito sull’utilità delle missioni militari di peace keeping. Emblematico il caso del genocidio compiuto a Srebrenica dalle truppe serbo-bosniache sotto gli occhi dei caschi blu delle NU, senza che questi intervenissero poiché il loro mandato non lo consentiva. I raid della NATO su Belgrado e la cosiddetta guerra umanitaria in Kosovo (1999) hanno invece riportato sulla scena l’interventismo dell’Occidente: fallita la mediazione diplomatica è ricorso a una prolungata azione di guerra contro la Serbia per fermare la sistematica violazione dei diritti umani nella regione. L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha dal suo canto determinato il confronto del p. con due dinamiche strettamente collegate: il terrorismo e la dottrina/pratica della guerra preventiva portata avanti dagli Stati Uniti guidati dal presidente G.W. Bush. L’intervento delle truppe NATO in Afghanistan (ottobre 2001) esoprattutto quello angloamericano in Iraq (marzo-aprile 2003) hanno fatto crescere un forte movimento pacifista a livello globale, culminato nella giornata del 15 febbraio 2003, quando 110 milioni di persone hanno manifestato in tutto il mondo contro la guerra. Un movimento definito dal New York Times «la seconda superpotenza mondiale». Nei paesi che hanno inviato contingenti militari in Afghanistan e Iraq le richieste di ritiro delle truppe si sono moltiplicate, a seguito della morte di numerosi soldati rimasti vittime di attentati. Molteplici anche le manifestazioni di protesta organzzate durante l’operazione condotta dalle truppe israeliane nella Striscia di Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009). Decine di migliaia di persone sono scese in piazza, in Cisgiordania come a Parigi, New York e Londra, per contestare i raid dell’esercito iraeliano contro Ḥamās, che hanno causato vittime tra i civili palestinesi, tra cui diversi bambini. Le tematiche pacifiste vengono portate avanti anche dai movimenti sociali no-global e anticapitalisti che, dopo la contestazione del vertice della WTO (World trade organization) a Seattle nel 1999 e il Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2001, si sono sviluppati in tutto il mondo. Gruppi che identificano la guerra come altra faccia del neoliberismo e strumento di imposizione di interessi economici, e che però in alcuni casi sono caratterizzati dall’utilizzo della violenza di piazza, in antitesi con le tradizionali proteste pacifiste. L’Italia ha una lunga tradizione di impegno pacifista. Ha raccolto molte adesioni la campagna di affissione delle ‘bandiere arcobaleno’ ai balconi e alle finestre di abitazioni private, uffici ed edifici pubblici. Molto partecipate anche le manifestazioni: 800.000 persone alla marcia Perugia-Assisi (14 ottobre 2001), un milione alla marcia a conclusione del primo Forum sociale europeo di Firenze (9 novembre 2002), tre milioni alla manifestazione organizzata a Roma il 15 febbraio 2003 contro l’intervento militare in Iraq. In questo clima di ritorno alla mobilitazione sono sorti nuovi coordinamenti e organizzazioni all’interno del movimento per la pace. In Italia il Comitato Fermiamo la guerra ha unificato l’intero arcipelago di forze e organizzazioni contrarie alla guerra in Iraq. In altri paesi le coalizioni e le reti dei movimenti sociali si sono trasformate nelle sedi di coordinamento delle mobilitazioni contro la guerra. La ripresa del movimento è stata molto significativa anche negli Stati Uniti, grazie all’azione di organizzazioni quali United for peace & justice (una rete di 1300 gruppi pacifisti), Peaceful tomorrows (l’organizzazione delle famiglie delle vittime dell’11 settembre), Democracy now!, una mobilitazione passata in pochi mesi da meeting e manifestazioni isolate di poche centinaia di persone a un movimento diffuso con iniziative che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone. La contestuale crescita di Internet ha contribuito alla diffusione su larga scala dei contenuti e delle iniziative.