TACITO, P. Cornelio (P. Cornelius Tacitus)
Storico romano, vissuto fra il sec. I e II d. C. Ciò che di lui si sa con sicurezza è ben poco. Il prenome stesso, che da fonte autorevolissima, dalla diretta tradizione tacitiana del Codice Mediceo I, ci è attestato per Publio, diventa Gaio nelle epistole del vescovo cristiano Sidonio Apollinare e, probabilmente, di là in manoscritti recenziori di T.: cosa che si dovrà a confusione o errore del retore gallico, esempio non unico della sua malcerta conoscenza in determinati campi della letteratura latina. Ignoto l'anno della nascita e della morte, se pur tutto ci porti a fissare i termini rispettivi fra l'incipiente regno di Nerone e di Adriano (55-120 circa). Ignota anche la famiglia: ragguardevole senza dubbio, ma se di ordine senatorio o equestre, se romana o italica, non si può dire, e il legame di padre a figlio, che variamente si vuole corresse fra il C. Tacito eques romanus procurator Galliae Belgicae, di cui Plinio il Vecchio parla come di persona a lui conosciuta, e lo storico, resta una pura ipotesi, per quanto ne possa piacere la verosimiglianza che appare dalla coincidenza del tempo e dalla rarità dei Cornelî Taciti; non è detto, a ogni modo, che membri di casa senatoriale abbiano disdegnato carriera di cavalieri. Chi si arrischiasse a giudicare dai sentimenti dello scrittore, lo prenderebbe per un aristocratico di vecchio e buon sangue. Originario o n0 dell'ordine senatorio, T. comunque fu, già giovanissimo, nel più alto grado sociale: dove, se non era per origine, entrò forse attraverso il posto di tribunus militum laticlavius che, insieme con un pubblico ufficio nel vigintivirato, si crede gli abbia conferito Vespasiano (69-79). Il matrimonio, che nel 78 o nel 77 strinse con la figlia di Giulio Agricola, legato di Vespasiano in Aquitania (74-76), console suffetto del 77, soggiogatore della Britannia (77-85), gli facilitò il cursus honorum. Fu questore sotto Tito (79-81), pretore sotto Domiziano nell'88 e quindecemvir sacris faciundis, nella qual doppia qualità partecipò alla festa dei ludi secolari di quell'anno. Dopo di che lo si sa lontano per un quadriennio da Roma, forse amministratore d'una provincia, forse legato d'una legione. Nel'93, morendo Agricola, non era ancora tornato alla capitale; poi se ne stette in disparte e conservò il silenzio che per l'intero principato di Domiziano si era imposto. Soltanto con Nerva, nel 97, assurse al consolato; quindi si dedicò tutto a meditare e a scrivere, e non interruppe più l'opera sua di pensatore e di narratore, se non per andare proconsole in Asia, pare verso il 112 o il 113. L'ultima grande parola della romanità pagana fu detta così nel giro di quel ventennio che va da Nerva a Traiano fino ad Adriano, e fu parola d'una potenza drammatica che s'incide nell'anima: dall'Agricola (De vita et moribus Julii Agricolae) e dalla Germania (il titolo varia da codice a codice; nella forma più estesa è: De origine, situ, moribus ac populis Germanorum), dal Dialogo degli oratori (Dialogus de oratoribus), qualunque sia il posto che cron0l0gicamente gli spetta, si sale verso le Storie (Historiae) e gli Annali (Annales ab excessu divi Augusti); un complesso di trenta libri, dei quali si discute se 12 o 14 appartenessero alle Storie, se 18 o 16 agli Annali; e questi degli Annali vennero alla luce, per chiarî indizî interiori, in sul terminar dell'impero di Traiano, gli altri delle Storie innanzi, in anni mal precisabili, presumibilmente dal 105 in poi: dei trenta libri, più della metà sono perduti, rimangono i primi quattro e parte del quinto per le Storie (anno 69-70) e per gli Annali (anno 14-29), e inoltre degli Annali il sesto (anni 31-37) e dall'undecimo al sedicesimo (anni 47-66), tranne capitoli iniziali del sesto e principio e fine dell'undecimo e del sedicesimo.
T. ha vissuto nella pace ordinata dell'impero. Unica interruzione l'anno 68-69, quando cade la casa Giulio-Claudia, e ben quattro sovrani muoiono di ferro, e la guerra civile infuria a Roma e nel vasto mondo romano fra catastrofi, atrocità, effusioni di sangue, profanazioni delle cose più sacre. Breve giro di mesi; quindi la calma si ristabilisce con Vespasiano, né nella capitale è più rotta per lunghissimo ciclo di tempo. Ma se c'è all'esterno, interiormente pace non c'è in quest'era storica, almeno nelle classi più elevate e negli spiriti migliori: a troppo caro prezzo essa è stata guadagnata, con la perdita della libertà individuale. T. fra la puerizia e la piena virilità ha dovuto assistere alle folli nefandezze di Nerone e alle crudeli violenze di Domiziano, ha sentito gravare l'oppressione d'un potere occulto, dei liberti e dei delatori. Anima di fierezza antica, imbevuta d'ideali di libertà repubblicana e di virtù romana, il che significa forza, decisione, fedeltà alla patria, egli serve bensì lealmente lo stato, e con tanto più mirabile equilibrio e senso del dovere quanto più calda è la sua passionalità, ma si serra in sé stesso, taciturno e disdegnoso e alfine, allorché con Nerva e Traiano - nunc demum redit animus! - l'aria soffocante dell'ultimo dei Flavî si rompe e il respiro si fa libero, pare che conquisti la sua grandezza, si osservò giustamente, in opposizione all'età che fu sua e alla tirannide domizianea. Un solco profondo gli hanno scavato nell'intimo le amare esperienze, e nel volto una ruga che non si cancella più: inquietudine e dolore suona la corda più viva del suo cuore di storico e di poeta, e a rasserenarlo non basta l'illuminato e felice regno di Nerva e del suo grande successore. Sotto di loro è un rifiorire della letteratura, e son gl'Itallici di nuovo a risnodare la lingua e a prendere il sopravvento, dopoché da un pezzo sembravano fatti fiochi di fronte alla fervida audacia dei provinciali, quasi sempre spagnoli: T. è il genio di questo risveglio, estremo meriggio italico folgorante di cupi bagliori. Spiccatissimo e quasi esasperato sentimento di nazionalità è in lui; e vecchie voci ataviche gli riecheggiano dal fondo, di aspra severità, di reazione contro l'invadenza straniera, e più orientale, di trepidazione davanti alle potenze del mistero, pur nella scossa fede religiosa dei padri, di alta dignità morale, onde l'offesa per le coscienze che nell'abiezione politica si degradano. L'uomo con le sue concezioni etiche, sociali e politiche, con la sua visione pessimistica della vita si è venuto formando attraverso gli anni della pubblica attività, soprattutto dei forzati silenzî: splendori non gli sono mancati, né onori né favori, né ha chiuso gli occhi ai benefici apportati dall'impero; ma certe luci non lo hanno illuso, il secolo delle vere virtù gli è apparso tramontato, e mentre, regnando Traiano, affonda le sue radici il mito della perennità di Roma, un turbamento per Roma lo tiene, e di essa non par che sappia rimirare se non gli aspetti tragici. Riso e sorriso non si addicono a quest'uomo. Sospira per un passato che non sarà più, franco però di vane chimere; nell'avvenire guarda con virile tristezza. Le lettere, per T., sono un'arma e uno strumento di vita. Nelle opere sue è un dramma spirituale; non soltanto, dice il Ranke, libri di storia son esse, ma un fenomeno storico.
L'educazione letteraria di T. appartiene a un periodo di tendenze in contrasto. Il nuovo stile della radicalmente mutata epoca imperiale, da Caligola a Nerone (37-68), in cui vero e falso cozzano e si fondono, e insieme è il grande e il terribile, aveva trovato la più originale espressione in Seneca, e suonava rottura di armonie classiche in un movimento di brusca drammaticità antitetica, pensiero atteggiato e acuito a sentenze, a bagliori di luce, a punte epigrammatiche, qualcosa di spasmodico talora e di artificioso: era un derivato dell'asianismo, ma in Seneca superamento sostanziale altresì dei caratteri all'asianismo inerenti, portato della sua natura medesima. Una creazione così genialmente significativa è destinata a lasciare vivide tracce al dilà dei tempi di cui è il portato e l'immagine. L'ultimo banditore del verbo letterario prima di T. era stato appunto Seneca; ma già all'avvento di Vespasiano, al ritorno d'un più mite e austero regime, nuovi avviamenti si facevano strada nei gusti di Roma, maestro Quintiliano, un allievo di Remmio Palemone, di colui che aveva fatto perno definitivamente nella scuola sui classici della latinità, sostituendoli agli arcaici e dando loro il debito posto accanto ai greci, allievo altresì di Domizio Afro, un oratore dal sano giudizio antico. Quintiliano riconosceva e ammirava le belle qualità di Seneca, il fascino e la potenza del suo ingegno, ma più che le doti sottolineava di lui i difetti, quali a lui apparivano, i dulcia vitia, il lascivire nell'arte, l'indulgere troppo volentieri alle proprie inclinazioni, lo sminuzzare in piccole sentenze il peso delle cose, e richiamava energicamente i giovani ai modelli della prosa aurea, massime a Cicerone, inaugurava il classicismo contro la maniera dei moderni, non senza, s'intende, fare le sue concessioni da critico e da scrittore alle cambiate esigenze e tendenze. Se T., al pari dell'amico Plinio il Giovane, uscisse dall'insegnamento di Quintiliano, s'ignora, ma è certo che la scuola quintilianea dominò largamente in Roma proprio durante la giovinezza e il divenire interiore di lui, e Plinio, pur con varî contemperamenti convinto classicista come il maestro, parla all'amico quale a seguace degli stessi principî. Sta il fatto che una molteplice complessità d'influssi lascia intravedere T., da Cicerone, da Livio, da Sallustio, da Seneca, avanti d'arrivare alla pienezza di quel dire ch'è tutto suo, vivido riflesso d'una robusta personalità morale e intellettuale, e che è rapida nervosità di concentrazione alla moderna, ma scevra d'ogni vano scintillio, e insieme severa gravità all'antica. Donde i disorientamenti della critica attraverso i secoli, non solo in riguardo al Dialogo, che ci ridà artisticamente una faccia dell'autore così nuova di fronte alle Storie e agli Annali, ma fin anche riguardo ai capolavori tacitiani, per l'eterogeneo che vi si credette scorgere nell'espressione: non si tenne conto né di quali impronte si fosse plasmata la mente di T. né di quanto il genio, se autentico, sia eguale ed altro da sé stesso. Secondo le schiette consuetudini romane, T. cominciò da oratore e i segni di questo iniziale atteggiarsi del suo spirito, non disconoscibili in ogni produzione sua, sono evidenti, a tacere del Dialogo, in abiti stilistici di tutto l'Agricola, segnatamente dell'esordio e della perorazione, quali essi possono ben dirsi. Nella eloquenza T. trovava due contrapposti indirizzi: il ciceroniano, modello della scuola classicistica, e il vigente dagli ultimi imperatori. Celebratissimi nell'eloquenza erano allora M. Apro e Giulio Secondo, gl'interlocutori del Dialogo: Apro, un rigido rappresentante del fare moderno; Secondo, l'amico di Quintiliano, più conciliativo, uomo dalla parola pura, elegante, concisa. T. fu al seguito di loro, e s'acquistò un nome nell'oratoria, da senatore e da avvocato, ed ebbe vaste aderenze di giovani ammiratori; né abbandonò così presto l'arte del dire, forse la condannò prima in teoria che in pratica, se ancora nel 97 pronunziò l'elogio funebre di Virginio Rufo, che tre volte console aveva ripetutamente rifiutato il trono dai suoi soldati, e se più ancora nel 100 splendette con la parola come accusatore di Mario Prisco, il proconsole dell'Africa reo di gravi estorsioni. Plinio (II, 11, 17), discorrendo di questa lotta forense, sottolinea per quintessenza dell'ingegno oratorio di T. la σεμνότης, cioè severità, nobiltà, tono di aristocrazia spirituale, e questo è veramente quod eximium orationi eius inest, l'individualità sua. In tutti gli scritti sta impresso codesto sigillo, qualunque ne sia la forma letteraria.
Teoricamente il verdetto contro l'oratoria è pronunziato dal Dialogo degli oratori, che sul terreno dell'eloquenza e in forma che risente dell'educazione e dell'esercizio retorico, ma anche, per naturale necessità di cose, dello stile dialogico ciceroniano, mostra già, più innanzi o più addietro che si debba collocare la data della sua composizione, l'occhio dello storico. Costì non un discutere di scuola sui valori o i non valori della corrente arte del dire di fronte alla repubblicana, non accademiche aspirazioni di risuscitare e di ravvivare un genere per cui il terreno è venuto meno, ma limpida e penetrante constatazione della realtà: le condizioni politiche e sociali dell'impero han tolto i succhi vitali all'eloquenza, la quale non è più che l'ombra di sé stessa. Il Dialogo degli oratori suona come l'addio ad essa, sembra segnare il passaggio definitivo di T. da un' attività ad un' altra. La nota centrale e feconda è questa: con i tempi mutano gli uomini e le forme letterarie; se l'eloquenza, come figlia delle agitazioni e delle contese politiche grandeggiò presso gli antichi, oggi, quando continuasse un regime di libertà, non le mancherebbe certo la sua gloria; quanto più nel passato infuriarono i partiti e le discordie, e più valida essa fu - rapporto dialettico fra bene e male su cui appuntò l'osservazione il Croce -: la pace e gli ordinamenti odierni son propizî ad altre forme, il che giustifica l'abbandono che Curiazio Materno, nella cui casa il dialogo avviene, fa dell'oratoria per la poesia, e giustifica certo implicitamente il congedo che T. prende dall'oratoria per la storia, la quale Quintiliano, oltre tutto, aveva definito sulle orme dei peripatetici proxima poetis et quodam modo carmen solutum, e Plinio il Giovane considerava così altamente poetica che non ammettesse parole pedestri o volgari, proprio come T. la tratta. Il Dialogo è dedicato a L. Fabio Giusto, il console suffetto del 102, e s'immagina svolto al tempo di Vespasiano, probabilmente nell'anno 77-78, il centoventesimo dopo la morte di Cicerone (cap. 17), giacché la sexta iam felicis huius principatus statio, qua Vespasianus rempublicam fovet (cap. 17) non indica, chi guardi attento al testo, il 6° anno del principato di Vespasiano, l'anno 75, che sarebbe poi in contrasto con l'altro anno riferentesi a Cicerone, sì il 6° periodo del regime monarchico, nel modo che tali periodi o stationes ivi stesso si vengono enumerando da Augusto in giù. Più arduo è determinare quando il Dialogo fu scritto; ma che appartenga alla almeno avviata maturità di T., e non sia tanto vicino al tempo in cui si pone tenuto, risulta dal distacco che nel sentire e nel dire dell'autore esiste fra gli anni di allora e quelli dell'oggi, dalla maniera con che egli parla degl'interlocutori e del loro tempo; emerge subito in principio dal fatto che T. è per Fabio Giusto un'autorità in problemi letterarî concernenti l'eloquenza; si deduce dalla dedica medesima a Fabio, giovanissimo ancora sotto Vespasiano e sotto Tito, se coetaneo all'incirca di Plinio il Giovane, che è del 61-62, e quasi di seguito a lui asceso al consolato: e se non il regno di Vespasiano o di Tito, neppure, d'altronde, il regno di Domiziano è accettabile per la pubblicazione del Dialogo, una volta che così franchi e arditi giudizî vi si trovano su uomini e su cose, e sotto Domiziano del resto attesta il biografo di Agricola d'aver tenuto il silenzio da scrittore. Tutto riporta il Dialogo verso l'impero di Nerva e di Traiano né a infirmare la conclusione può essere argomento perentorio la diversità di stile, che fra esso c'è e le due monografie storiche sicuramente appartenenti a quegli anni. La tecnica e la logica ragionata del dialogo, che si rivolge, così come nella miglior tradizione letteraria si era costituito, più all'intelletto che al sentimento, aveva altre esigenze di stile dalla calda commozione del racconto, né il divario stilistico è valso a nascondere ad occhi più acutamente indagatori la parentela di certi atteggiamenti spirituali che nella forma e nel contenuto c'è fra Dialogo da un lato e Agricola e Germania dall'altro, parentela che dopo persisterà ancora in proporzioni minori fra Dialogo e opere più propriamente storiche. Noi parliamo del Dialogo come di prodotto indubbiamente tacitiano, quantunque attraverso i secoli a lungo si sia discusso se esso non si debba piuttosto attribuire ad altri, a Plinio o a Quintiliano o a Svetonio. Una documentazione diretta della paternità tacitiana si desidera: nell'archetipo di Hersfeld esso stava senza nome d'autore; solo per congettura viene fuori il nome di T. col Panormita e, diventato certezza col Decembrio, passa quindi in codici umanistici. Ma ciò non senza legittimità; ché nella trasmissione manoscritta esso andava unito alla Germania e all'Agricola, del pari che le Epistulae ad Caesarem, oramai quasi unanimamente riconosciute per sallustiane, giunsero a noi, di nuovo senza indicazione d'autore, in un corpus con le orazioni e le epistole dei lavori storici di Sallustio; e, chi non preferisca giocare di congetture e di arbitrarie costruzioni, ha nella nota lettera di Plinio il Giovane a T. (IX, 10) il manifesto richiamo al Dialogo (cap. IX), mentre Plinio dice: "poemata... tu inter nemora et lucos commodissime perfici putas" e il Dialogo: "poetis... in nemora et lucos, idest in solitudinem, secedendum est"; non rispondenze generiche dunque, ma precise ("tu putas"), in egual pensiero e in identica forma, il che non è dell'epistola pliniana I, 6 dalla critica tirata fuori per molto ipotetiche dimostrazioni. E c'è nell'aureo libretto tale un addentrarsi nella visione storica delle cose, anche se di riconnettere il declino dell'eloquenza con lo stato dei tempi non è idea che nasca ora per la prima volta; c'è una guardatura così aliena da ogni scolastica retoricità; ci sono pensieri così vivi e profondi, e così nitidi e personali profili di uomini, proprio secondo l'abito di T., che pensare a Quintiliano o a Plinio o a Svetonio quali autori, mal si presenta possibile. Verso la fine del secolo I d. C. si cerca invano un ingegno a cui il Dialogo si addica come a T., all'uomo per cui militano le ragioni storiche; gli scrittori che furon messi in concorrenza di T. non sono da tanto. E allora nell'opuscolo abbiamo, oltreché una geniale creazione, un prezioso testimonio della formazione intellettuale del nostro scrittore, dell'efficacia particolarmente che su lui esercitarono Cicerone, specie col De oratore, col De republica, con l'Hortensius, e Quintiliano, senza dire dei Greci: nella reazione mossa da Quintiliano contro l'asianismo moderno T. occupa un posto suo.
L'Agricola è del 98 - il tentativo di trasportarlo al 100 ha un fondamento più apparente che reale - e segna il primo indirizzarsi di T. verso l'operosità storiografica, si annunzia anzi come un preludio al racconto del "passato servaggio e dell'odierno benessere", con aperta allusione alle Storie e ad una narrazione del principato di Nerva e di Traiano, che non fu mai scritta. A forma di biografia, l'Agricola allarga lo sguardo alle vicende e alle considerazioni storiche e storico-politiche, conquista della Britannia, giustificazione dell'imperialismo romano, tristezza e condanna del sistema di governo di Domiziano e si appunta nell'immagine superiore d'un uomo che tra i pericoli e le abiezioni sa mantenere la sua dignità e un prudente riserbo, lungi da ogni inutile ostentazione, e sa servire lealmente e valorosamente lo stato. È un lavoro che si allinea da sé nella nazionale tradizione biografica e autobiografica, fra prodotti da un pezzo sorti in Roma a tramandare il ricordo della virtus e della vera gloria, e lo fa con parole memorande che viva eco suscitarono fra i narrator di sé stessi e di altri dal Rinascimento fin giù all'Alfieri e al Goethe: una biografia però di vasto respiro, che rompe i soliti confini del genere, ed ha ricchezza di toni e di sfumature, l'elemento narrativo, l'encomiastico e l'oratorio, onde gli inani tentativi della critica filologica di cristallizzarne i caratteri nei tipi d'un genere letterario, o di elogio funebre o di encomio o di che altro. E una biografia a largo sfondo storico, con fervidi accenti di eloquenza: prosa di energia creatrice, nutrita di sostanza umana, originalissima anche dove è culta, storicamente piena d'interesse perché rappresenta per T. un momento di transizione e di avvio, e perché l'impronta sua prepotentemente individuale lascia pur vedere le tracce di Cicerone e di Seneca insieme, ma più di Sallustio, perché alla nativa sincerità dell'espressione vi si associa l'assoluta padronanza delle migliori tradizioni letterarie romane con una ideale propensione verso Sallustio.
La Germania pure sorge ai margini della storiografia. Posteriore all'Agricola, essa è però sempre del 98, e cioè del secondo consolato di Traiano, a cui manifestamente l'autore accenna come a fatto presente. È nella sua essenza una descrizione etnografico-geografica del paese che più parte ha negli avvenimenti esterni narrati dalle Storie, né tuttavia siamo in grado di asserire che sia scaturita dai materiali con cui le Storie furono preparate. Sulle genti di Arminio, alle cui frontiere occidentali stava allora l'imperatore a scopo di fortificazione, era sempre più volto l'occhio dei Romani. Da T. si affronta per la prima volta nella sua interezza il problema germanico e barbarico. Terra, clima, prodotti, soprattutto l'uomo viene da lui studiato della Germania, l'indomita nemica ereditaria di Roma, nello stato di cultura in che si trova, nelle istituzioni, nella fede religiosa, nella fierezza bellica, nella primitiva integrità dei costumi "plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges", nella semplicità frugale, in motivi da cui balza su il contrasto con la Roma attuale, ma anche nelle discordie intestine, a cui guarda con compiacimento (cap. 33), onde il monito che ai Romani insinua di colpire definitivamente la Germania nella sua debolezza interna, di troncare un'aspra lotta di due secoli, e l'amaramente ironica constatazione che fa, più essere rispetto alla Germania le vittorie da Roma festeggiate che non le vinte. Con codesto non si dice punto che nell'opuscolo siano esplicite finalità politiche, che da esse l'opuscolo tragga nascimento; ma non è nemmen vero che ivi sia solo l'interesse scientifico, alla maniera greca. Spirito e idee dell'etnologia greca ci sono - teoria dei rapporti fra razza e costituzione del suolo, fra esseri umani e condizioni atmosferiche, ecc. -, ma il carattere della storiografia romana non vi si smentisce: il mondo barbarico non attira esclusivamente per sé, sì per le sorti di Roma. Pennellature idealizzatrici di stirpi allo stato di natura vengono da un periodo di saturazione culturale, e sono tutt'altro che nuove nelle lettere greche e latine: ai colori di rosa si mescolano però anche le ombre. Traslatazioni di tinte, più forse che di motivi, ci sono dalle figurazioni di popoli, abituali all'antica etnografia: la somma delle cose fa l'impressione o porta limpido il segno del genuino e del veritiero. Dal modo come parla, è patente che T. non ha conosciuto con i proprî occhi la Germania: ottime fonti d'informazione le aveva in Posidonio, in Cesare - e l'intonazione iniziale della Germania è quella del De bello gallico -, in Sallustio, in Livio, in Plinio il Vecchio, a tacere di minori, e poi da negozianti, da ufficiali dell'esercito, da Germani soggiornanti in Roma, da vie svariate. II volumetto tacitiano è la gemma della produzione etnografica antica, è il dono di padrino, fu ben detto, che un Romano ha posto nella culla delle popolazioni germaniche. Lo stile si è fatto più smorzato e più nervoso, ma ha ancora di troppo nell'espressione e rivela più volte lo sforzo dell'antitesi: va verso la sua pienezza, pur se non vi arriva ancora.
T. è al culmine del suo potere con le Storie, comprendenti l'era dei Flavî, e più con gli Annales, come l'autore li chiama ripetutamente a indicarne il disegno annalistico a cui nelle linee generali si attiene, anziché darne il titolo autentico (Ab excessu divi Augusti), un'opera che da Tiberio o dagli estremi anni di Augusto andava fino alla scomparsa di Nerone, al giugno del 68. Il programma espresso nell'Agricola, di rappresentare i beni del principato di Nerva e di Traiano di contro alla servitù dei tempi che li precedettero, è rimandato nelle Storie alla vecchiaia; anche il pensiero di trattare Augusto è vagheggiato negli Annali (III, 24), e fu forse, più che la morte, la sua sempre più accorata visione della storia a impedire la compiuta esecuzione di un piano che si estendeva dunque all'intera età imperiale sino alle migliorate condizioni di Nerva e di Traiano. A Livio, storico della repubblica, si affianca T., storico dell'impero: due epoche radicalmente diverse, fervida di contese politiche e di conquiste, libera d'impulsi l'una, esteriormente pacificata e immota, salvo sporadici sussulti, l'altra, ma non perciò interiormente meno tormentata, e dominata più che mai da Roma, anzi da un uomo solo in Roma, il princeps. Si capisce che T. narrando miri essenzialmente alla vita della capitale, con un crescendo rispetto alla storiografia della repubblica, che si affissi sulla persona dell'imperatore, in cui lo stato s'incarna. Pregi, limiti e manchevolezze del suo racconto hanno un loro motivo principalissimo in siffatta impostazione. L'anima del principe, di quelli che più gli sono vicini, delle classi e delle folle che vivono intorno a lui, ecco dove tendono e convergono le fila della sua trama narrativa, la quale su questo terreno è d'una potenza insuperata, ha il respiro dell'eternità. Il problema o l'enigma psicologico del principe e dei potenti, il servilismo del popolo come ha culminato sotto Domiziano e come si è venuto evolvendo da Tiberio in giù, sono pensieri che signoreggiano le Storie e gli Annali. Avvenimenti esterni si contemplano solo in quanto fanno sentire le loro risonanze all'interno: il prosperare delle provincie importa assai meno che il loro muoversi fra gli urti che covano nei misteri del palazzo o che si agitano nelle contingenze storiche facenti capo a Roma e all'imperatore. È una storia veduta dall'interno, anzi dall'intimo, dalle fisionomie e dai caratteri dei suoi autori, drammaticamente esplorata e interpretata da un forte temperamento di uomo, di cittadino, di artista, che ha una fede, una passione politica ed etica da affermare. Fin dove questa storia ridà genuinamente la realtà delle cose? L'amore della verità in T. è fuori di questione, e non è neppure che a lui faccia velo un'opposizione di principio contro il regime monarchico. Egli sa che la memoria dei Cesari da Tiberio a Nerone, falsata, vivendo essi, per paura, fu, dopo la loro morte, infamata sotto l'ispirazione di odî troppo recenti (Ann., I,1), e di fronte a certe voci diffida o nega, di fronte all'incerto si arresta (Ann., I, 81). Quando gli risulta concorde la testimonianza degli storici, è tranquillo; in caso contrario riferisce con o senza nome d'autore le dissonanti versioni (Ann., VI, 29; XIII, 20), ad ora ad ora giudicando, discernendo, lasciando interrogativi. L'onestà dell'indagine, anche un'estensione e un approfondimento di essa entro i termini che furono consueti alla storiografia romana, hanno una prova palmare nelle famose lettere inviate da Plinio il Giovane a T. su richiesta del medesimo, che stava componendo le Storie, intorno all'eruzione del Vesuvio e alla fine di Plinio il Vecchio (VI, 16, 20) o in altra epistola ancora di Plinio (VII, 33) sopra la conoscenza che T. ebbe degli archivî pubblici. Documenti ufficiali, letteratura giornalistica, memorie storiche si citano insieme agli auctores, anche se non sia sempre chiaro fino dove per informazione diretta. Ad apprezzare esattamente T. quale investigatore di prima mano ci manca purtroppo l'ultima parte delle Storie. Per l'anno dei quattro imperatori le notevoli coincidenze fra T., Plutarco e Svetonio hanno condotto a concludere che al fondo di essi sta una medesima sorgente, con soprastruttura, s'intende, di fonti collaterali che è arduo determinare. I raccostamenti s'impongono del pari fra T., Svetonio e Cassio Dione negli Annali e dimostrano nuovamente comunanze di origine. Parecchio via via per i singoli imperatori deriva da una fonte principale. Ebbene, una relativa consonanza esiste fra scrittori greci e latini, nella valutazione dei Cesari a tinte nere, una uniformità di vedute sostanziali, comunque si sia formata, qualunque consistenza abbia, su che da un pezzo ferve la discussione fra gli studiosi di storia. Di costì parte T., da un'opinione ampiamenti diffusa e fondata sulle migliori attestazioni letterarie: sopra questi materiali intesse le linee maestre della sua costruzione, sprofondandosi nelle personalità storiche, che gli fanno intendere il corso degli avvenimenti, psicologicamente motivando su loro la scelta fra contrastanti dati della tradizione, sbozzando figure, non di fantasia propria, ma di su gli elementi che ha alla mano. Il pessimismo, proprio della natura sua, non sorretto da fermi principî religiosi o filosofici - "in incerto iudicium est", dice egli, quasi assommando nel suo il pensiero antico in proposito, o, piuttosto, ritrovando come somma il non-pensiero, il non-compreso (Croce) - grava la mano al pittore, ed è un pessimismo amaro di fronte alla storia. In più si deve tener presente, si diceva, l'esperienza del dispotismo di Domiziano, che tracce incancellabili impresse nell'animo suo e operò potentemente sulla sua mentalità, atteggiò definitivamente quella sua concezione di storico. E ancora: egli è un senatore, e contempla i fatti dal punto di vista dell'ordine sociale e politico a cui appartiene, e quindi della vecchia aristocrazia. Costante è in lui l'antitesi fra monarchia e libertà, e la monarchia per lui ha soffocato la libertà eliminando il senato: criterio centrale per il giudizio sui Cesari. Ha nel cuore l'antica libertas; i tempi felici li scorge nell'austera Roma primitiva (Ann., III, 26 s.); dell'estrema fase repubblicana condanna gli egoismi e le dissensioni; né disconosce che il principato dà garanzia d'ordine, accetta anzi il principato, ma sente che porta con sé la degenerazione e il declino. La tragedia di T. è nel sogno ardente di ciò che fu e nella non illusione che ciò che fu ritorni. T. è uno storico commosso, che ha l'interesse morale e la severa coscienza di giustiziere, ma di una commozione contenuta e virile. Il suo "mondo affettivo e nobilmente umano si nasconde e si dissimula quasi sotto l'intrepida imperturbabilità; narra senza sdegno le molte vergogne, senza entusiasmo le poche virtù dei mortali" (Donadoni).
È un artista sommo della storia. La vigorosa penetrazione dello psicologo, la calda fantasia del narratore scolpiscono sagome fortemente intagliate di uomini, scene che afferrano e scuotono. I personaggi lo prendono tutto, il loro pensare, il loro agire, i segreti, le ombre dell'anima loro. Ed essi sono rilevati per effetti di contrasto, del pari che in Sallustio con cui in T. c'è non poco di congeniale. Tutto è atteggiato e rappresentato a dramma. L'ordine generale è l'annalistico, ma i vincoli di questa forma sono spezzati dove entra la collisione con le esigenze artistiche. I libri culminano volentieri in catastrofi di malfattori: e sono organismi in sé chiusi, con alti e bassi, gl'intermezzi, le pause, in una crescente tensione; ridanno un'epoca nella vita del principe. I dominatori sono spiati nei nascondigli del cuore, nelle naturali disposizioni, nella parola, negli atti, negli arcani silenzî, senza che vi sia posto per il frivolo, per il favoloso, per l'aneddotico, solo per il grande: e si levano alto sulle turbe, sempre più alto dalle Storie agli Annali in un balenio di tragedia: Ottone, Tiberio, Seiano, Germanico, Nerone, Ottavia, Agrippina, Messalina, Poppea, tutti nomi circonfusi di tragicità. Anche nelle figure più truci è ricchezza umana, opacità e luce; e il meraviglioso e il soprannaturale si aggiunge a proiettare brividi di mistero. Con terribilità di virtù fantastica sono ritratte le moltitudini, plebe, senato, esercito; di solito vili e abiette, qualche volta grandi. Descrizione nulla: tutto è moto e azione, ed efficacia di scorci, e luminosità d'immagini. Mirabilmente espressivo il linguaggio: intessuto di classicità, di gravità d'arcaismi, di moderni ardimenti, è la voce dell'equilibrio artistico, dell'anima antica, del prepotente lirismo di T. Lo stile è vibrato, incisivo, è fatto di brusche variazioni, di sottintesi ellittici, di rapide e suggestive soppressioni, di concentrazione, di disarmonie, di periodi brevi in urto, di serratezze asindetiche, di nervose e tormentate rotture, di tratti che suggeriscono più che non dicano. T. è un solitario come artista e come uomo. Sovrano evocatore di anime, fa della storia un dramma psicologico e vi versa dentro il pieno suo io.
Estremo fulgore della letteratura romana, la sua nominanza non ebbe rilievo in anni di scadimento, nemmeno fra gli storici, tranne nel ridestato sec. IV e col migliore di essi, Ammiano Marcellino. I cristiani non potevano aver caro lo scrittore degli Annali, lo presero tuttavia in considerazione con Sulpicio Severo e Orosio. Di là egli passò al Medioevo attraverso lunghi silenzî: intero o in parte lo possederono i monasteri di Montecassino, di Fulda, di Corvey. Risorse dall'oblio col Boccaccio nel 1362, che trovò a Montecassino e ne portò via il cosiddetto Mediceo II, contenente gli ultimi libri degli Annali e i primi delle Storie. Da allora comincia a diffondersi fra gl'iniziatori dell'umanesimo, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Sicco Polentone. Poi il Mediceo II viene in mano di Niccolò Niccoli, e sotto papa Niccolò V Enoch d'Ascoli riesuma dal manoscritto di Hersfeld il T. minore. Al T. così discoperto tocca l'onor della stampa in Venezia per cura di Giovanni da Spira verso il 1470, all'Agricola solo intorno al 1476 in Milano, a cura del Puteolano. La vera fortuna dello storico non ha principio che con papa Leone X, quando comparisce da Corvey il Mediceo I coi primi libri degli Annali, editi dal Beroaldo a Roma nel 1515 e quindi da Alessandro Minuziano nel 1517 a Milano insieme con il resto di T. Da allora si moltiplicarono le edizioni, e di lui s'impadronì la filologia con Giusto Lipsio e con M. Antonio Mureto, e più la scienza politica, onde la fiorente letteratura tacitiana da Cosimo I de' Medici in poi (1537-1574), a Firenze, in Italia, in Europa. Firenze tra il sec. XVI e il XVII dà anche la celebre traduzione del Davanzati e l'edizione di Curzio Pichena. La Francia del Seicento ha la versione di Niccolò Perrot Sieur d'Ablancourt, la belle infidèle, dedicata al Richelieu, e addita in T. l'artista col Corneille e il Racine. Oracolo della politica continua ad esser T. nei secoli successivi, e ispira l'Alfieri, lo Chénier, il Geibel. Il secolo XIX segna anche per lui l'era degli studî critici e filologici.
Una storia della fortuna di T. come pensatore politico tra il sec. XVI e il sec. XVIII rientra propriamente nella storia della ragion di stato, in quanto T. è stato solo il pensatore a cui, dopo Machiavelli e in antitesi a Livio, si sono richiamati i teorici di dottrine politiche per chiarire, accettare o combattere la ragion di stato: in tal senso, sebbene in misura di gran lunga minore, ha avuto importanza anche Sallustio. Tuttavia, poiché questa stessa enunciazione presuppone l'importanza del nome di T. nel problema e poiché inoltre chi ha per primo visto e studiato nella sua interezza questo aspetto della storia delle dottrine politiche tra il Cinquecento e il Settecento (G. Toffanin nel libro Machiavelli e il "tacitismo", Padova 1921) ha consacrato una denominazione specifica, il "tacitismo" appunto, è opportuno dare qui un rapido sguardo alle significazioni assunte a questo riguardo da T. S'intende però che l'inquadramento e l'ampliamento dei fatti constatati dal Toffanin andrà cercato nelle storie della ragion di stato, e quindi soprattutto nella Geschichte der Staatsräson di F. Meinecke (Monaco 1924) e nei capitoli sulle teorie politiche della Storia dell'età barocca di B. Croce (Bari 1929). In linea generale, si comprende l'enorme interesse che doveva destare uno storico dominato dal problema politico in un'età che per prima si era venuta ponendo nella sua autonomia il problema della politica, uno storico che tratta di sovrani e non di repubbliche in un'età che vedeva il consolidarsi delle grandi monarchie: i libri più suggestivi degli Annali, i primi cinque su Tiberio, furono pubblicati nel 1515, quando appena il Principe del Machiavelli era scritto. Si aggiunga il crescente interesse stilistico, per una cultura che stava esaurendo il ciceronianismo: soprattutto tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento T. permette di rimanere nell'ambito del classicismo a quelli che sentono il bisogno di un'espressione moderna, e perciò costituisce il ponte di passaggio per un lato alla prevalenza del francese, che la filosofia e la diplomazia francese imporranno in Europa, per un altro lato al latino senza stile, "universale", dei dotti settecenteschi. Ma tali motivi sono ancora secondarî, o per lo meno generici. Il motivo essenziale è che i successori del Machiavelli, nell'atmosfera della Controriforma, tra l'esigenza religiosa di tenere fermo a un assolutismo morale e l'esigenza politica chiarita dal Machiavelli del fine giustificante il mezzo, trovano in Tacito il pensatore che permette loro di dare consistenza alle ambiguità del loro convincimento e nello stesso tempo di non citare Machiavelli condannato dalla Chiesa. Onde la varietà di queste riprese di T.: da chi praticamente nascondeva la sua adesione al Machiavelli, salvo lievi sfumature, citando T. (per es., Lelio Marretti), a chi corregge o addirittura combatte Machiavelli con T. La correzione assumeva un duplice senso o che ci si richiamasse alla paganità di T. e dei suoi imperatori, e quindi si dimostrasse la differenza tra la ragion di stato cattiva che poteva essere descritta da Tacito e la ragione di stato buona che doveva essere propria del principe cristiano, o che ci si richiamasse a quell'aspirazione indubbia di T. a un principato di moralità superiore e si facesse di lui, contro l'ateo Machiavelli, un cristiano avanti-lettera.
L. Settala, che nella Ragion di stato (1621) protestava che "ai tempi nostri pare non esservi altra ragion di stato che quella che si cava da T. e dalle cose da lui descritte... non facendosi differenza dalla ragion di stato buona e conveniente alli buoni principati alla rea, de' cattivi propria", può rappresentare la volontà di contrapporre una politica cristiana alla pagana di T. Invece T. si fa tipicamente cristiano nel suo grande ammiratore e commentatore Giusto Lipsio, come comprese finemente Traiano Boccalini, che, nel descrivere nel Ragguaglio 86 il processo intentato in Parnaso al Lipsio per eccessivo tacitismo, gli fa ottenere l'assoluzione esclamando che T. conobbe Dio "solo fra tutti gli scrittori gentili con l'altissimo saper suo essendo arrivato a conoscere quanto nelle cose della religione vaglia la fede di quelle cose che non si veggono o non si possono trovar con la ragione". Il che non impediva che gli avversarî più conseguenti e acuti della ragion di stato combattessero T. come Machiavelli: esempio. nelle sue Prolusioni accademiche (1617) il gesuita Famiano Strada, che gli oppose Livio. Il tacitismo perderà ogni senso quando la discussione sarà riportata al genuino pensiero del Machiavelli e nell'ultimo Settecento ne resterà solo una traccia deforme nel mito di T., che insegna ai popoli gli atroci secreta imperii.
Ediz.: Per le opere maggiori, oltre ai due codici medicei non han valore che le copie del Mediceo II, là dove l'archetipo è rimasto posteriormente lacunoso (Hist., I, 69-75, 86; II, 2). I manoscritti degli opuscula sono un'emanazione diretta o indiretta di quello di Hersfeld, del quale fu rintracciato nel 1902 a Iesi un quaternione col grosso dell'Agricola. Facsimili dei Medicei ad opera di E. Rostagno (Leida 1902); né mancano facsimili di altri codici tacitiani. Tra gli editori di T. intero ebbe grido Giusto Lipsio (Anversa 1574 segg.), a cui tennero dietro nei secoli XVII e XVIII Gronow, l'Ernesti, il Brotier, nel sec. XIX I. Bekker, F: Ritter, I.C. Orelli, F. Haase, C. Halm, C. Nipperdey, nel XX I. Müller, C.D. Fisher, H. Goelzer-H. Bornecque-G. Rabaud. La migliore edizione critica completa è di G. Andresen-E. Köstermann (Lipsia 1926-30, Annali, 1934). Recentissima edizione critica della Germania, a cura di R. P. Robinson, Middletown, Connecticut 1935. Numerose le edizioni parziali, per lo più con note. Edizioni commentate, distintamente, delle varie opere, in lingue diverse, sulle quali v. Schanz-Hosius, Geschichte der römischen Literatur, 4a ed., II, Monaco 1935, p. 613 segg.
Bibl.: L'orientamento più largo in Schanz-Hosius, quello criticamente più vagliato in C. Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Gesch., Lipsia 1895, p. 677 segg.; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 248 segg.; L. Schwabe, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 1566 segg.; N. Terzaghi, Storia della letteratura latina, Milano 1934, p. 381 segg. - Monografie o studî generali su T.: E. P. Dubois-Guchan, T. et son siècle, Parigi 1861; F. Leo, Tacitus, Gottinga 1896; G. Boissier, Tacite, Parigi 1903; C. Marchesi, T., Messina 1925; R. Reitzenstein, T. und sein Werk, Neue Wege zur Antike, IV, Lipsia 1926; H. Drexler, Tacitus, in Bursian Jahresberichte, 1913-27, e suppl. CCXXIV, 1928, p. 411 segg.; E. Fraenkel, Tacitus, in Neue Jahrbücher, VIII (1932), p. 218 segg.; F. Klingner, Tacitus, in Die Antike, VIII (1932), p. 151 segg.; G. De Sanctis, Problemi di storia antica, Bari 1932, p. 225 segg. - Da non dimenticare l'apprezzamento di T. come storico di L. Ranke, Weltgeschichte, III, i, Analecten, p. 286 segg., Lipsia 1883; anche R. Pöhlmann, in Sitzungsberichte d. bayrischen Akademie, 1910, p. 3 segg. - Sulle fonti non si può tacere Th. Mommsen, Gesammelte Schriften, VII, Berlino 1909, pp. 224 segg.; 253 segg. coi supplementi di H. Nissen, in Rheinisches Museum, XXVI, 1871, p. 497 segg. e di J. A. Marx, in Hermes, LX (1925), p. 74 segg.; P. R. Fabia, Les sources de T., Parigi 1893. Ultimissimi: A. Momigliano, in Rendiconti R. Accad. dei Lincei, VI, VIII, fasc. 5-6, 1930, p. 293; R. Hannsen, Die Quellenanführungen in T., in Symbolae Osloenses, XII (1933); E. Ciaceri, Tiberio, Milano 1934; Studien zu T. C. Hosius dargebracht, Stoccarda 1936. - Per il resto, sul Dialogo: F. Leo, in Göttinger gelehrte Anzeigen, 1898, p. 169 segg.; sull'Agricola: F. Leo, Griechischrömische Biographie, Lipsia 1901, p. 224 segg.; sulla Germania: E. Norden, Urgeschichte in T. Germania, 3a ed., Lipsia 1923 e Alt-Germanien, ivi 1934; I. Vogt, T. als Politiker, Stoccarda 1924; E. Hahn, Die Exkurse in den Annalen des T., Lipsia 1933; E. Courbaud, Les procédés d'art de T. dans les Histoires, Parigi 1918; R. Ullmann, La technique des discours dans Salluste, Live et T., Oslo 1927; P. Ammann, Der künstlerische Aufbau von T. Hist., I, 12; II, 51, Diss., Berna, Zurigo 1931; W. Kroll, Studien zum Verständnis der römischen Literatur, Stoccarda 1924, p. 369 segg.; F. Krohn, Personendarstellungen bei T., Diss., Lipsia, Grossschönau 1934. Per la lingua: E. Woelfflin, Ausgewählte Schriften, Lipsia 1933, p. 349; G. Sörbom, Variatio sermonis Tacitei, Upsala 1935; A. Gerber e A. Greef, Lexikon Taciteum, Lipsia 1903; F. Ramorino, Cornelio T. nella storia della coltura, Milano 1898.
Per il "tacitismo" cfr. Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce e S. Caramella, Bari 1930 e la bibl. ivi ricordata.