ROSAI, Ottone
– Nacque a Firenze il 28 aprile 1895, in un quartiere popolare, da genitori di umili origini: Giuseppe, falegname e intagliatore, e Daria Deboletti, proveniente dalla provincia senese. Oreste, Perseo e Ada erano gli altri figli della famiglia Rosai.
Finite le scuole elementari, Ottone fu mandato a lavorare in una bottega di stipettai in previsione di entrare nel laboratorio paterno, ma ottenne di iscriversi all’Istituto di arti decorative di piazza S. Croce, dove iniziò a studiare disegno ornato. Al 1906 risalgono i primi disegni di paesaggio e di figura. Sfiorite le prime curiosità, la vita scolastica apparve insopportabile all’adolescente rivoltoso e ricco di autonomi interessi, che preferiva spingersi nascostamente in solitarie passeggiate, così come nelle bettole, nei locali dove si giocava a carte e a biliardo, nelle botteghe, per disegnare e prendere appunti dal vero. Espulso dall’Istituto, si iscrisse all’Accademia di belle arti sotto il maestro Arturo Calosci, rimanendo attratto piuttosto dalla scuola libera del nudo e poi dalla scuola libera di incisione di Celestino Celestini. Nel 1912, a seguito di un grave diverbio insorto con Calosci, venne espulso anche dall’Accademia. Malgrado questo, l’anno successivo, a Pistoia, in una mostra organizzata da Celestini per i suoi allievi, espose le sue incisioni all’acquaforte.
Si trattava di visioni inquiete, raffiguranti piazze e monumenti fiorentini, che evidenziarono suggestioni dagli scenari teatrali che Edward Gordon Craig aveva disegnato a Firenze fra il 1908 e il 1913, e nondimeno anche dalle morsure forti e dai neri profondi del maestro Celestini.
A conclusione della mostra, il giovane volle visitare Siena, dove rimase affascinato dalle opere dei ‘primitivi’, in particolare da Duccio e dai fratelli Lorenzetti. Fu in quel periodo che si dedicò alla lettura, scoprendo Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, Rudyard Kipling, Fëdor Dostoevskij, Oscar Wilde. Dopo aver preso studio con Berto Lotti, espose quindici dipinti e due sculture in una saletta in via Cavour, nel novembre-dicembre 1913, in coincidenza con l’esposizione futurista di Lacerba aperta nella vicina saletta del libraio Gonnelli.
Grazie a Giovanni Papini, la mostra venne visitata dai futuristi: «Mi vollero tutti conoscere, mi fecero elogi, che ricevetti come enormi ricompense e mi invitarono a unirmi a loro » (O. Rosai, Nota autobiografica, in Il Frontespizio, IX (1937), 4 (aprile), pp. I-II; ripubblicato in Cavallo, 1973, p. 165).
Con il 1914 si avviò l’anno futurista di Rosai, alimentato dai fuochi interventisti degli intellettuali di Lacerba e inaugurato dall’olio su cartone Dinamismo bar S. Marco, poi dall’olio su tela con collage Scomposizione di una strada. Fra aprile e maggio l’artista venne invitato a partecipare all’Esposizione libera futurista a Roma, presso la galleria Sprovieri.
Iniziarono in questa temperie le frequentazioni di Ardengo Soffici, che andava indicando al più giovane amico le possibilità della scomposizione cubo-futurista e del collage, ma soprattutto le amate esperienze francesi, da Paul Cézanne a Pablo Picasso, dai pittori impressionisti al Doganiere Rousseau.
Allo scoppio della prima guerra mondiale partì soldato e venne inviato al confine italoaustriaco, nei pressi di Gorizia, dove si distinse per le eroiche prodezze, tanto da essere decorato e poi accolto nel reparto di assalto degli arditi che combatté sul monte Grappa. Al fronte nacquero dipinti che, pur attingendo alla sintesi futurista, accolsero nuovi spunti dal linguaggio del Doganiere.
La cruciale esperienza della guerra venne raccontata da Rosai ne Il libro di un teppista, del 1919, poi nel libro Dentro la guerra, del 1934. In questa prima stagione della sua ricerca artistica già emersero il temperamento insofferente, eversivo, e la latente inquietudine del giovane, alla ricerca di un linguaggio inedito, di forte disprezzo per le convenzioni.
All’indomani della guerra, con un gruppo di nature morte del 1919, seguite da alcuni paesaggi toscani e dalle prime originali composizioni di figure in interno, imboccò con straordinaria concentrazione la propria linea di ricerca e inaugurò un decennio ricco di capolavori.
Nacquero quadri di piccolo formato che avevano elaborato l’essenzialità geometrica del cubismo, ora declinata partendo dallo studio del vero, con originali assonanze metafisiche, per la silente astratta concentrazione, malinconica a tratti, che avvolgeva figure e cose, oltre che per la qualità della luce, metallica e ferma. Erano indicazioni che parimenti provenivano da Soffici, il quale si accostava a Valori plastici di Mario Broglio e proclamava il ritorno alla classicità e allo studio del vero, in una sorta di realismo purificato che traeva le sue basi dall’asciutta semplicità giottesca.
Nel novembre-dicembre del 1920 allestì la sua prima personale a Firenze nelle stanze di palazzo Capponi, in via de’ Bardi, introdotta in catalogo dall’amico Soffici. Fra i ventinove dipinti esposti e il ricco corpus di disegni, apparirono Serenata o Concertino, Partita a briscola e, in particolare, Giocatori di toppa, primo di una lunga e fortunata serie di opere con lo stesso tema.
Soffici nell’occasione apprezzò «la spontaneità di visione», «la profondità del linguaggio pittorico», «la schiettezza e sincerità», «la vigoria» così come «la sottolineatura di certo grottesco», «non disgiunto da una poeticità e bellezza recondite e sui generis» (A. Soffici, Ottone Rosai (catal.), Firenze 1920, p. n.n.).
Nel 1921 conobbe Francesca Fei, una giovane impiegata del quotidiano La Nazione, che divenne sua moglie l’anno successivo, in un periodo altamente drammatico per Rosai, a causa della morte suicida del padre, oppresso dai debiti, che ricaddero conseguentemente sulle spalle di Ottone. In gesto d’aiuto gli amici realizzarono una piccola mostra alla saletta Gonnelli, con catalogo Vallecchi introdotto da Soffici. A questa mostra fece seguito, alla fine del 1922, la personale romana alla galleria Bragaglia, con oltre cinquanta dipinti, fra i quali Trattoria Lacerba (1921) e, in particolare, Via Toscanella (1922), purissima e tersa come una predella trecentesca. Ma entrambe le proposte non portarono la gratificazione economica attesa dall’artista, desolato dall’indigenza e dalle incomprensioni, e costretto dagli impegni della bottega paterna che lo distolsero a lungo dall’amata pittura fra il 1923 e il 1926. Si riaffacciò alla vita artistica dal 1927, partecipando alla prima mostra del gruppo del Selvaggio, a Firenze, in un periodo segnato dalle frequentazioni nell’ambito di strapaese e dalle nuove amicizie con i giovani scrittori Romano Bilenchi e Vasco Pratolini. Una gita nella campagna senese confermò all’artista il suo amore per la terra dei «primitivi». Nacquero in questi tardi anni Venti nuovi capolavori di alta espressività, in particolare Suonatori (1928), la grande versione dei Giocatori di toppa del 1929, alcune vedute urbane di masaccesca severità, vari ritratti.
I personaggi rosaiani, in particolare, palesavano una radice plebea dichiaratamente toscana e insieme risentimenti anarchici, umori patetici e rivoltosi, oltre la cronaca: omini seduti all’osteria, in piedi o appoggiati a un muro, erano per l’artista modelli di una umanità barbarica, fuori dal tempo sebbene ambientata nei vicoli più umili di Firenze fra il Carmine, Santo Spirito, San Frediano o nelle prode di Villamagna, condotti con sconcertante essenzialità, aspro realismo, tavolozza terrosa e asciutta.
Con questi esiti l’artista si presentò nel 1928 alla I Mostra d’arte regionale toscana e alla XVI Biennale di Venezia, mentre s’interrompeva il sodalizio con Il Selvaggio. Nel 1929 Rosai iniziò a collaborare alle riviste Il Bargello e Il Frontespizio, in un momento di drammatica crisi dell’amicizia con Soffici, attestata dall’opuscolo violentemente polemico Alla ditta Soffici-Papini & compagni, del 1931. Dopo la pubblicazione per le edizioni Vallecchi del libro intitolato Via Toscanella, nel 1930, espose al Kursaal di Viareggio con i pittori Lorenzo Viani e Mario Marcucci; quindi nella personale milanese presso la galleria Il Milione, che tuttavia si risolse in un insuccesso, tanto da produrre in lui l’abbandono della pittura per un anno. Fu in questo periodo, tra il 1928 e il 1931, che l’artista lavorò alla propria monografia Hoepli con Giovanni Scheiwiller e al suo libro Dentro la guerra, che, rifiutato dal ministero per la Stampa e la Propaganda, non passò inosservato a Giuseppe Ungaretti, il quale volle pubblicarlo a puntate sulla sua rivista Vita nuova, prima della versione integrale uscita nel 1934 per i tipi di Novissima (Roma). Dal 1931 collaborò alla rivista L’Universale, diretta da Berto Ricci e quindi da Romano Bilenchi, e nata con lo scopo di diffondere la pittura rosaiana e difendere le ragioni di un moderno realismo. Verso la fine del 1931 abbandonò l’attività di falegname per dedicarsi integralmente alla pittura, malgrado le precarie condizioni economiche. La sua pittura divenne più chiara nei colori, e più leggera e vibrante nel rinnovato contatto con lo studio del vero, mentre l’artista accoglieva in bottega due allievi, Dino Caponi e Sergio Donnini: il frutto del nuovo corso delle ricerche apparve nella grande mostra personale presso la galleria di palazzo Ferroni, a Firenze, gestita dall’antiquario Luigi Bellini, e si rivelò il primo successo. Dopo la mostra personale tenuta nel 1933 a Milano presso la galleria delle Tre Arti e curata da Edoardo Persico, nel 1934 espose sette suoi quadri alla Biennale di Venezia, mentre si trasferiva nel nuovo studio di via S. Leonardo, dove sarebbe rimasto definitivamente. Parallelamente alla collaborazione con Il Frontespizio, venne dato alla stampa nel 1935 il volume di Mario Tinti L’architettura delle case coloniche in Toscana, illustrato da trentadue disegni di Rosai. Nello stesso anno dipinse i due grandi pannelli raffiguranti Paesaggi toscani per la sala ristoro della nuova stazione ferroviaria di Firenze, progettata da Giovanni Michelucci. Le mostre ufficiali cominciarono ad accogliere con consenso le opere rosaiane, come attestò l’invito alla II Quadriennale nazionale d’arte di Roma, poi alla Mostra d’arte italiana contemporanea a Varsavia, e quindi nuovamente alla Biennale di Venezia, mentre la pittura dell’artista si avviava verso una stagione più pacata, che sarebbe durata sino al 1938. Nella primavera del 1936 si tenne frattanto a Firenze la mostra personale di Rosai al Lyceum, inaugurata con la pubblica lettura di una conferenza che lo stesso artista aveva intitolato Difesa e che era parallelamente uscita sul Frontespizio.
Qui denunciò apertamente i suoi detrattori: «Si è detto che non so disegnare, che manco di colore, che non ho tecnica, che la mia arte è popolaresca, che i miei quadri sono una stornellata». Di fronte a tali accuse, rivendicò la propria ricerca pittorica: «Ch’io non sappia disegnare mi sembra un’affermazione troppo grossa, dal momento che in me la passione d’esprimere è così forte, che un dato oggetto, prima ancora di averlo disegnato, lo avverto già vivere nelle sue forme, realizzate nella mia mente e nei nervi, da sentirmelo quasi uscire dalla punta delle dita»; l’arringa continuava, in difesa di una poetica ormai pienamente consapevole: «Relativamente al colore, confesserò che punto o poco m’attrae il colorismo, ovvero il cromatismo alla spagnuola [...]. Il contrario matematico dei toscani, dei nostri grandi maestri toscani, tutta secchezza, sobrietà ed essenzialità». E ancora: «Che importa a me che un malleolo sia ben lisciato, ben fatto? [...]. Io voglio scoprire l’anima della mia creatura, il suo viso interno: voglio trovare il suo dramma: essere quella santità di luce e di spazio dipinti in cui si esala il suo grido» (O. Rosai, Difesa, 1936, p. 6).
Nel 1939 venne nominato per chiara fama docente del Reale liceo artistico di Firenze, poi nel 1942 docente di pittura presso l’Accademia di belle arti, mentre si moltiplicavano le soddisfazioni espositive, la fortuna critica, i riconoscimenti. Nel tempo della seconda guerra mondiale affrontò nuovi soggetti religiosi, mentre la sua casa di via de’ Benci diveniva rifugio per i gappisti della Resistenza. Sebbene la sua adesione al fascismo fosse stata scettica, anche a causa della discriminazione subita per motivi personali (nello specifico, la sua omosessualità) pur mai apertamente dichiarati, conclusa la guerra dovette subire l’ostracismo della nuova classe dirigente, che chiedeva l’espulsione dall’insegnamento di chi aveva rappresentato il regime. Furono momenti drammatici di solitudine, delusione e amarezza. La ricerca artistica di Rosai nel secondo dopoguerra tuttavia non si fermò, mentre i poeti ermetici del Frontespizio si stringevano intorno all’artista e al suo seguito, trovando nella neonata galleria Il Fiore, in via Portinari, un nuovo punto di aggregazione.
La sua pittura, in quei frangenti, si decantò, si fece più scandita e rarefatta nelle vedute urbane; le figure più isolate e intense nella loro espressività; i nudi virili chiusi da un pesante contorno nero che li isolava da un fondo neutro, intriso e livido.
Il dopoguerra portò a Rosai vari inviti e riconoscimenti internazionali, a New York, al Cairo, a Parigi, a Zurigo, a Londra, alla Biennale di Venezia, in varie città tedesche. Nel 1951 uscì per le edizioni Vallecchi, con prefazione di Carlo Bo, il volume Vecchio autoritratto, che raccolse tutti gli scritti più noti di Rosai, il quale parallelamente vinceva il premio del Fiorino e si vedeva tributato nel 1952 l’onore di un’ampia retrospettiva, a cura di Alessandro Parronchi, nell’ambito della XXVI Biennale di Venezia. Grazie a Carlo Ludovico Ragghianti, Firenze gli tributò il proprio riconoscimento con la personale presso la neonata galleria La Strozzina, in palazzo Strozzi, nel 1953.
Nel clima del dopoguerra, la scuola rosaiana si era ormai affermata divenendo un baluardo delle ricerche figurative, in contrasto con quelle astratte e neoavanguardiste che vedevano nel maestro un ostacolo alla modernità di segno internazionale, un modello oleografico e superato di toscanità, che parallelamente andava producendo copie e imitazioni.
Mentre si affacciava lo spettro di una grave cardiopatia, fra successi e perduranti ostracismi, nel 1957 venne organizzata da Pier Carlo Santini una mostra storica a lui dedicata nel Centro culturale Olivetti di Ivrea. Questa volta il consenso fu unanime. Rosai partì in auto per Ivrea per allestire la mostra ma, colpito da infarto, morì improvvisamente il 13 maggio presso l’albergo Dora.
Al suo funerale accorsero gli amici di una vita – poeti, artisti, compagni di strada, allievi – in una città distante e straniera. Da Firenze il poeta Carlo Betocchi pubblicava Lamento per Ottone Rosai nella sera della sua morte: «Una grande stagione di poesia è finita. E la morte di Rosai è una di quelle a cui si addirebbe il lamento di Lorca per la morte del torero». E concludeva, riconoscendo in quella scomparsa l’epilogo di una generazione: «Mentre viene la nuova estate e Ottone non c’è più, e scomparso il suo fluire, anche noi, come l’acqua del fiume, ci andiamo adagio adagio adagio arenando tra i sassi» (C. Betocchi, Lamento per Ottone Rosai nella sera della sua morte [1957], in Id., 100 opere di Ottone Rosai, Prato 1965, pp. 10 s.).
Fonti e Bibl.: La ricca bibliografia di Ottone Rosai non può prescindere da almeno tre volumi: P.C. Santini, R., Firenze 1960; L. Cavallo, O. R., Milano 1973; O. R. (catal., Prato - Milano), a cura di L. Cavallo, Milano 1995. Fra i contributi autobiografici dello stesso artista, si segnalano: Il libro di un teppista, Firenze 1919; Via Toscanella, prefazione di A. Soffici, Firenze 1930; Dentro la guerra, Roma 1934; Difesa, in Il Frontespizio, VIII (1936), 3 (marzo), pp. 6-10; Vecchio autoritratto, prefazione di C. Bo, Firenze 1951. Fra i contributi di specifico interesse monografico: O. R. (catal., galleria Il Milione), Milano 1930; Il Frontespizio, IX (1937), 4 (aprile), numero speciale dedicato a Rosai; A. Gatto, Disegni di O. R., Venezia 1939; O. R., a cura di A. Parronchi, Milano 1941; P. Santi, Gli autoritratti di O. R., Firenze 1943; A. Parronchi, Preistoria di R. (1911-1919), in Paragone, 1952, n. 25, pp. 31-40; Firenze di R. (catal.), a cura di C.L. Ragghianti, Firenze 1954; O. R. (catal.), a cura di P.C. Santini, Ivrea 1957; A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento, Firenze 1958, pp. 139 ss.; P. Santi, Ritratto di R. Lineamenti di un’esistenza, Bari 1966; R. Bilenchi, I silenzi di R., Firenze 1971; O. Rosai, Lettere 1914-1957, a cura di V. Corti, Prato 1974; R. oggi, venticinquesimo anniversario della morte, 13 maggio 1982 (catal.), a cura di A. Parronchi, Firenze 1982; O. R. Opere dal 1911 al 1957 (catal., Roma), a cura di P.C. Santini, introduzione di C.L. Ragghianti, Firenze 1983; M. Pratesi, R. nella cultura artistica toscana, attraverso le opere della Galleria d’arte moderna, in Quartiere Borbonico o Nuovo Palatino. Sale restaurate... (catal., Firenze), Livorno 1995; O. R. Catalogo generale dei disegni 1906-1957, a cura di A. Parronchi et al., Firenze 1998; O. R., Ardengo Soffici, Carteggio 1914-1951, a cura di E. Pontiggia, Milano 2010. Relativamente a Rosai nel contesto della cultura artistica contemporanea: M. Pratesi - G. Uzzani, L’Arte italiana del Novecento. La Toscana, Venezia 1991, pp. 78-108, 110-126, 163-189, 247-262; Il Futurismo attraverso la Toscana... (catal.), a cura di E. Crispolti, Livorno 2000.