MORMILE, Ottavio
– Figlio di Nicola Maria, di antica famiglia nobile napoletana del Seggio di Portanova, duca di Castelpagano e di Campochiaro, marchese di Ripa (Ripalimosana), e di Caterina Francone dei principi di Ripafrancone, nacque a Napoli il 25 settembre 1761; è noto con il titolo ducale di Campochiaro.
Non si hanno notizie sui suoi studi: apparentemente coltivò interessi giuridici, di certo ebbe fama di persona colta. Nel 1792 sposò Isabella Coppola dei duchi di Canzano.
Nel 1798, già nominato ministro plenipotenziario a Copenaghen, fu inviato a Vienna per concludere il trattato di mutua difesa con l’Impero, trattato atteso con ansia a Napoli, ma osteggiato dal ministro degli Esteri Johann Amadeus Franz de Paula Thugut. Sebbene la regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena temesse che non fosse «assez ferré pour lutter contre la finesserie» del ministro (Correspondance, 1911, p. 517), Mormile, ignorando le istruzioni ricevute, riuscì a concludere e firmare trattato (19 maggio), aggiunte e articoli segreti (18 luglio). Giunse infine in Danimarca in settembre e vi rimase fino al settembre 1799.
A Napoli, dove era tornato solo nella seconda metà del 1800, fu consigliere di Stato. Nel 1801 inviò al re Ferdinando IV due ‘ragionamenti’, proposte di riforma giudiziaria e legislativa (edite in De Martino, 2003, pp. 82-94) in armonia con l’editto ferdinandeo del 25 aprile 1800, in cui auspicava l’abolizione della giurisdizione baronale e un moderno codice civile del Regno, e consigliava di «agire senza riguardi per privilegi nobiliari e di casta».
Nel febbraio 1806 la Reggenza di Napoli, designata dai sovrani in fuga, lo nominò capo della delegazione inviata al quartiere generale dell’esercito francese per trattarne l’ingresso in Napoli. Gli inviati accettarono, invece, subito le condizioni imposte dai francesi (22 febbraio). Dopo l’avvento del re francese Giuseppe Bonaparte, Mormile fu nominato ministro della Real Casa e consigliere di Stato. Soppresso per esigenze finanziarie il ministero nell’aprile 1807, ricoprì in seguito, soprattutto nel corso del regno di Gioacchino Murat, molteplici cariche di rilievo. È difficile ricavare notizie certe circa gli incarichi diplomatici, molti dei quali non ebbero seguito per cause non dipendenti dal re. Agli inizi del 1810 fu nominato ambasciatore a Parigi, dove giunse in marzo.
In un clima sfavorevole per gli attriti tra Napoli e Parigi Mormile dovette affrontare le gravose richieste francesi relative al debito contratto da Napoli all’epoca di re Giuseppe: Napoleone esigeva la firma immediata di un trattato «de liquidation qui reconnût la dette, reglât les sommes, fixât les échéances» (Vandal, 1910, I). Infine la regina di Napoli Carolina Bonaparte riuscì a ottenere condizioni meno gravose e Mormile concluse il trattato il 23 giugno. Il soggiorno parigino di Murat nell’aprile-maggio 1811, che sembrava avesse rasserenato i rapporti franco-napoletani, fu seguito da contrasti sempre più gravi tra Napoleone, che considerava vassalli i sovrani da lui creati, e Murat che aspirava al pieno possesso dei poteri regali. A Napoli il ‘partito’ italiano, cui apparteneva anche Mormile, premeva per un governo autoctono. Il 14 giugno 1811 Murat impose per decreto ai funzionari civili e militari del Regno l’obbligo di assumerne la cittadinanza pena il licenziamento. Napoleone rispose il 6 luglio decretando che, poiché il Regno di Napoli costituiva parte integrante dell’Impero francese, tutti i cittadini francesi erano cittadini del Regno. Nel corso di contrasti sempre più accesi Mormile, solidale con Murat, incorse nell’ira dell’imperatore: fu rinviato «sans audience officielle de congé, sans présenter ses lettres de recréance» (Espitalier, 1910, p. 168). Infine Murat comprese che doveva sottomettersi e, riconciliatosi con la regina Carolina già da lui estromessa dalla corte ed esiliata a Capodimonte, le chiese di recarsi a Parigi onde «détourner de lui la foudre que Jupiter va lancer» (Masson, 1906, p. 204). Giunta a Parigi il 2 ottobre, Carolina affidò a Mormile una lettera rassicurante per il re implorandolo di ascoltare il latore della stessa. Avvisata dallo stesso Murat della sua intenzione di abdicare, implorò Mormile di recarsi con la massima celerità a Napoli per dissuaderlo. Dopo un viaggio volutamente lentissimo, Mormile, partito il 9 ottobre, giunse a Napoli il 14 novembre. Murat non aveva abdicato.
Ministro della Polizia generale dall’aprile 1812, il suo operato fu unanimemente lodato, allora e successivamente. Dopo gli accordi austro-napoletani del gennaio 1814 fu nominato rappresentante napoletano presso il quartier generale degli Alleati, incarico che lo portò successivamente a Parigi, in giugno, a Londra in luglio, e infine a Vienna, dove giunse il 19 settembre, delegato al Congresso.
Ebbe per collega l’ambasciatore a Vienna Gennaro Spinelli, principe di Cariati: dovevano convincere gli Alleati che avevano approvato l’accordo austro-napoletano a riconoscere il Regno di Murat, obiettivo perseguito anche dal principe Klemens von Metternich. Persino i britannici ne rifiutavano il riconoscimento pur avendo ratificato anche l’articolo del patto segreto austro-napoletano dell’11 aprile 1814, che garantiva a Murat accrescimenti territoriali nelle Marche (400.000 anime). Con il cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi Mormile proseguì la serrata contesa iniziata a Parigi, i cui esiti erano di vitale importanza per ambedue gli Stati. Il papa Pio VII non accettava la cessione dei territori marchigiani, chiedeva lo sgombero delle truppe napoletane dallo Stato pontificio e poneva condizioni per il riconoscimento di Murat. Alla fine Metternich dovette cedere alle insistenti pressioni del papa, di Consalvi e altri. I successivi movimenti militari di Murat gli offrirono una onorevole via d’uscita: con la nota del 26 febbraio 1815 dichiarò che qualsiasi movimento di truppe oltre i confini in Norditalia sarebbe stato considerato atto ostile all’Austria. Appena ebbe notizia della dichiarazione di guerra di Murat (15 marzo) Mormile, contrario a questa nuova politica, rassegnò, come aveva minacciato e promesso, le proprie dimissioni e partì il 24 giugno.
Nella Napoli della Restaurazione borbonica Mormile non ebbe incarichi. Nel 1817 fu nominato consigliere del Supremo Consiglio di Cancelleria del Regno. Dopo la rivoluzione napoletana e la concessione della costituzione di Spagna, il 7 luglio 1820 il duca di Calabria Francesco di Borbone, vicario del Regno, lo nominò ministro degli Esteri e, ad interim, dell’Interno, ministero cui fu nominato due giorni dopo Giuseppe Zurlo, osteggiato dalla carboneria, soprattutto nelle province, per le sue ben note tendenze accentratrici.
Il governo Zurlo-Campochiaro, moderatamente liberale, comprendeva le personalità più rappresentative dell’epoca murattiana, estranee alla rivoluzione e ostili alla costituzione spagnola, in particolare al Parlamento unicamerale. I murattisti, infatti, erano consci che il loro governo avrebbe potuto conservare il potere solo se fossero riusciti ad assicurare al Regno la pace in virtù di accordi internazionali subordinati all’abolizione o a radicali modifiche della costituzione, tali da dividere carboneria e Parlamento. Oltre a misure di sicurezza governative, la presenza dagli inizi di ottobre delle flotte britannica e francese nel porto di Napoli con modalità non conformi alle convenzioni vigenti, assicurava sicurezza sia al re sia al governo, come ricordava Mormile al ministro britannico sir William à Court implorandone il mantenimento nel mentre protestava ufficialmente. Mormile cercò senza successo di ottenere dall’Austria, decisa alla guerra, un qualche segnale di disponibilità a trattare, seppure nell’ambito delle clausole segrete del trattato austro-napoletano del 1815 che impegnavano il re a non introdurre nel Regno alcun cambiamento inconciliabile sia con le precedenti istituzioni monarchiche sia con i principi adottati dall’imperatore per il governo delle sue province italiane. Assicurò Metternich che «cette belle entreprise» era «appelée bien faussement une révolution, n’étant qu’un petit arrangement de famille» (Metternich, 1881, III, p. 424). Molti furono i diplomatici inviati a Vienna, dove l’ambasciatore titolare aveva rifiutato il giuramento costituzionale. Ad alcuni fu concesso di entrare a Vienna, ma nessuno fu ricevuto ufficialmente. Il manifesto di protesta contro la politica austriaca, che Mormile aveva «tanto trattenuto di farlo che poteva» fu pubblicato solo alla vigilia della sua prima relazione al Parlamento, il 4 ottobre (Atti, 1931, V/1, pp. 101-107; lettera al vicario, 2 ottobre). In questa occasione rese note le succitate clausole segrete e riferì dettagliatamente sui molti sforzi e scarsi risultati della diplomazia napoletana. Diverso andamento ebbero le relazioni con la Francia, i cui governanti avevano rinunziato per motivi di politica interna ed estera a svolgere un proprio ruolo nella questione napoletana. I numerosi inviati regnicoli in Francia – tra questi Cariati e Francesco Brancia – pur non riconosciuti, ebbero colloqui con i maggiori esponenti del governo francese, alcuni dei quali sembrarono disposti a considerare una richiesta di mediazione da parte del Regno di Napoli. Tuttavia il ministro degli Esteri Etienne-Dénis Pasquier, nel suo riassunto della questione napoletana (Mémoires du chancelier Pasquier, a cura di E.A.G. Audiffret-Pasquier, pt. 2, Restauration, II, 1815-1820, Paris 1894, pp. 46-57: non nomina mai Mormile), assicura che «il n’y avait été fait à ce sujet [mediazione] aucune ouverture qui pût la motiver», aggiungendo che forse era stata male interpretata una frase del sottosegretario agli Esteri Maximilien Gérard Rayneval. Brancia e Cariati avvisarono che «gli affari di Napoli saranno decisi dalla condotta, che si terrà in Napoli, e non già da ciò che potrà dirsi dai diplomatici napoletani» e, opinava Cariati, la «condotta della Francia sarà quella che fisserà il Congresso» di Troppau (dispacci di Brancia e Cariati, dal 14 al 23 novembre: Atti, 1931, V,1, pp. 160-172). Mormile, d’accordo con il vicario, contattò i diplomatici presenti a Napoli, primo fra tutti il chargé d’affaires francese, Anne-Louis-Gabriel de Fontenay e, riferendosi ai dispacci ricevuti da Parigi, espose sinceramente il proprio programma: indurre il Parlamento a chiedere ufficialmente al re di Francia di «agréer la prière qui lui sera faite d’accorder sa puissante médiation et d’en dicter les conditions» aggiungendo «que cette médiation soit accordée ou non, j’aurais compromis le parlement avec les provinces» e compiuto « auprès du Roi une démarche dont je pourrai avantageusement profiter dans l’avenir» (a Pasquier, 30 novembre 1820, in Sperber, 1968, p. 210). Il 1° dicembre diede inizio a quella che il Censore (19 dicembre 1820) definì «farsa della “mediazione francese”» presentandosi in veste privata in Parlamento in comitato segreto. Espose la difficile situazione del Regno in ambito internazionale, illustrò i dispacci di Brancia e Cariati e consigliò al Parlamento di chiedere al re di Francia la sua mediazione. Il Parlamento rispose il giorno dopo che «essendo la progettata mediazione uno degli attributi del potere esecutivo, la riponeva interamente nell’augusto esercizio delle attribuzioni sovrane» (L’Amico della costituzione, 4 dicembre 1820). Il 4 dicembre Mormile in veste di ministro presentò al Parlamento in seduta segreta la lettera con la quale Ferdinando I comunicava – quasi che Parigi avesse confermato la propria disponibilità – che «la Francia sarebbe stata la mediatrice fra noi, e le altre potenze di Europa, a condizione di un cangiamento di costituzione» (ibid., 7 dicembre 1820). Lo stesso giorno Mormile chiese udienza al vicario per un «affare, che è della maggiore importanza, ed in cui sono interessati li Ministri della Guerra e dell’Interno, che prego a V.A.R. di far trovare presenti» (Atti, 1931, V, 1, p. 195). È probabile si trattasse delle misure da adottare in caso di rifiuto del Parlamento. Rifiuto che venne il 5 dicembre: «secondo i sacri principj, che V.M. ci ricorda, noi preferiamo il partito di essere vittima, a quello di comprarcene colla viltà e col delitto» (L’Amico della costituzione, 7 dicembre 1820). Il 6 dicembre i rappresentanti di Austria, Prussia e Russia presentarono a Ferdinando I la lettera d’invito al congresso di Lubiana e il re consegnò loro immediatamente la sua lettera di accettazione. È probabile che, come nota Bertier de Sauvigny (1970, II, p. 419), l’invito dei sovrani alleati «prît au dépourvu le gouvernement napolitain et dérangea ses projets», ma il governo seppe reagire con grande abilità, servendosi dell’invito per proseguire più arditamente. L‘invito contemplava una risposta univoca: accettazione incondizionata o rifiuto. Ma i murattisti vollero «mettre à profit la circomstance pour renverser le carbonarisme et se maintenir» al potere ponendo «dans un faux jour» i diplomatici (così l’adiratissimo Metternich, 1881, III, pp. 423 s.). I tre diplomatici, cui ben presto si aggiunsero Fontenay e à Court, accettarono di concordare le mosse successive con i principali ministri napoletani e con il vicario. Esito di queste trattative fu infine un semplice quanto incostituzionale messaggio firmato dal re, tramite il quale i ministri vollero imporre le proprie condizioni al Parlamento. Lo stesso giorno il documento fu controfirmato da Mormile e trasmesso al Parlamento. Il re vi annunziava l’accettazione dell’invito, e prometteva che si sarebbe adoperato per una legge fondamentale – di chiaro stampo murattista – che assicurasse «libertà individuale, e reale, dei sudditi», vari diritti civili e qualche vago accenno a una non meglio definita «Rappresentanza Nazionale». Di certo il documento non era riferibile alla ultrareazionaria «Real Segreteria» cui Mormile e Zurlo attribuirono poi la paternità. Zurlo, conformemente a quanto prescritto dal vicario già il 6 dicembre (Atti, 1931, V,1, p. 124) fece pubblicare e diffondere il messaggio, e comandò a tutti gli intendenti provinciali di assicurare l’ordine «con tutti i mezzi della loro autorità» secondo «il voto di tutte le potenze alleate». Il ministro della Guerra, Michele Carrascosa, riteneva che in caso di rifiuto, «il fallait absolument faire un effort pour renverser les anarchistes en opérant un autre neuf thermidor» (Mémoires historiques … sur la Révolution, Londres 1835, p. 237). D’accordo con governo e diplomatici egli aveva rafforzato la guardia del palazzo reale con otto cannoni d’artiglieria nel cortile e un reggimento fidato in Castelnovo. Le flotte britannica e francese erano già state rafforzate il 3 dicembre per un totale di 500-600 bocche di fuoco. Ma già il primo tentativo di sovvertimento della costituzione aveva allarmato la carboneria e molti parlamentari e portato al consolidamento dei loro rapporti rendendo così possibile il tempestivo e risolutivo afflusso a Napoli delle milizie provinciali come anche la mobilitazione in città e la chiusura del passaggio dalla reggia all’Arsenale. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre le milizie carbonare avevano già acquisito il pieno controllo della città, e Carrascosa dovette constatare di non poter più fare affidamento sulle forze da lui ritenute sicure, per cui annullò le operazioni previste in caso di sovversione. L’8 dicembre il Parlamento rispose: «Non ha esso facoltà alcuna di aderire a tutto ciò che il Real foglio [... ] contenga di contrario a’ giuramenti comuni ed al patto sociale che stabilisce la Costituzione di Spagna» e neppure alla partenza del re «se non in quanto essa fosse diretta a sostenere la Costituzione di Spagna comunemente giurata» (Atti, 1928, III, p. 373).
Accusati di avere violato la costituzione Mormile e Zurlo presentarono le dimissioni, seguite da quelle degli altri ministri e accettate il 10 dicembre.
Mormile era accusato di avere controfirmato la missiva incostituzionale del re (in regime costituzionale la responsabilità è esclusivamente del ministro competente) e di averne comunicato il testo a Zurlo. Chiamati a difendersi dinanzi alla commissione parlamentare, l’autodifesa di Zurlo non convinse. Grande, invece, fu il successo di Mormile in aula: «Tale il Duca mostravasi, e tale o disarmava i più rigidi, o si rendeva docili i cuori» (Minerva napolitana, 1820, 2° trim., p. 276). Dichiarò di avere apposto la propria firma nella convinzione che servisse solo ad autenticare la copia della lettera dell’imperatore d’Austria. Alla fine la commissione giudicò «svanita l’accusa» (ibid., p. 280). La lettura dei giornali coevi sembra indicare che nell’ambito dell’aggregazione costituzionalista dominante sussistesse un movimento in favore di Mormile, con scopi politici non chiari. Infine il Parlamento votò il rinvio sine die con la severa e rivelatrice motivazione di Pasquale Borrelli: «Restino i Ministri incerti della loro sorte, così la giustizia non sarà offesa, così rimane intatta l’accusa, ed il parlamento non sarà tacciato di una importuna precipitanza». Ma per la Minerva napolitana Mormile «si vide frodato dell’assoluzione che il pubblico voto già gli accordava; tristo effetto per lui di avere avuto compagni [leggi Zurlo] nella sua causa» (ibid., p. 281).
Mormile, rimasto indisturbato a Napoli, vi morì il 12 gennaio 1836.
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