MANFREDI, Ottaviano
Figlio di Carlo (II), signore di Faenza e conte di Val di Lamone, e di Costanza di Rodolfo Varano da Camerino, nacque a Faenza il 6 ag. 1472.
Faenza era in quegli anni governata da Carlo (II), che esercitava il vicariato apostolico sulla città e il potere comitale sulla Val di Lamone grazie alla successione disposta per testamento dal padre Astorgio (II) nel 1467. Questi aveva infatti stabilito che i figli succedessero l'uno all'altro secondo la nascita (nell'ordine Carlo, Galeotto, Lancillotto) tranne l'ecclesiastico Federico, vescovo di Faenza. I Manfredi gravitavano nell'orbita della lega di Milano, Firenze e Napoli, stipulata nel 1467 e rinnovata nel 1470: Carlo in particolare era stipendiato di Ferdinando d'Aragona, re di Napoli.
Nel 1477, ammalatosi Carlo in modo grave, la reggenza passò nelle mani del vescovo Federico, nominato dal fratello luogotenente generale dello Stato pur non godendo di grande popolarità a Faenza. Federico, visto che Carlo era vicino alla morte, ottenne che fosse riconosciuto per investitura papale il diritto di successione nella contea e nel vicariato del M., che, ancora bambino, il vescovo contava di manovrare a proprio piacimento come tutore. Si andava così contro il dettato del testamento di Astorgio (II), alterando l'ordine previsto nella successione. Il 2 ott. 1477, con l'approvazione di Sisto IV e l'appoggio di Girolamo Riario, signore della vicina Imola e nipote del papa, i Faentini giurarono fedeltà al M., erede designato dell'infermo Carlo. Nella questione si intromise anche il re di Napoli, impegnandosi a dare in moglie al M. una sua figlia naturale.
Tale sviluppo ledeva i diritti di Galeotto, dal 1476 lontano da Faenza per gravi dissidi con i fratelli Carlo e Federico e sotto la protezione di Venezia: Galeotto, ottenuto l'appoggio di Lorenzo il Magnifico, presa licenza da Venezia e con il coperto sostegno di Imola e di Forlì, entrò in Faenza il 16 nov. 1477 a seguito di un tumulto popolare, e vi fu proclamato signore il 17 novembre. Carlo si era rifugiato nella rocca con il vescovo, il M. e la moglie Costanza. Di qui uscì l'8 dicembre, dopo avere ottenuto garanzie per se stesso e i familiari, e si rifugiò prima in territorio estense, poi a Napoli sotto la protezione di Ferdinando.
Non è chiaro se il M. e la madre abbiano seguito a Napoli Carlo, che morì nel 1484 (secondo taluni a Rimini, dove si era recato per vedere la moglie - ancora quindi in Romagna - gravemente malata). Ferdinando d'Aragona in ogni caso cercò di tutelare i diritti di Carlo e del figlio in alternativa alla signoria di Galeotto: nella primavera del 1488 il M. risiedeva a Lugo, in territorio ferrarese, pronto ad accorrere a Faenza in caso di crisi. Galeotto era stato avvertito da Lorenzo il Magnifico della presenza del M. ai confini.
Alla morte di Galeotto, ucciso il 31 maggio 1488 da congiurati diretti dalla moglie Francesca Bentivoglio secondo un piano concertato con il padre di lei, Giovanni (II), la città cadde nelle mani di quest'ultimo che, appoggiato da truppe milanesi, instaurò un Consiglio di reggenza presieduto da Francesca e governato da lui stesso: il piano era di agganciarsi alla potenza sforzesca come signore di Bologna e luogotenente generale di una galassia di città romagnole sottratte all'egemonia papale.
Questi eventi andavano una seconda volta contro il dettato testamentario di Astorgio (II): in questo caso erano i diritti alla successione del M. in quanto più vecchio fra i nipoti a essere danneggiati; diritti che erano stati inoltre ribaditi, per quanto all'epoca in modo scorretto, dalla nomina pontificia del 1477.
La svolta bentivolesca e sforzesca delle sorti faentine non poteva non allarmare Firenze, di cui Galeotto era stato stipendiato e aderente. Lorenzo, che aveva già commesso un errore sottovalutando i sospetti di Galeotto nei confronti del suocero, agì ora con prontezza: il commissario straordinario Giovanbattista Ridolfi, attivando tutti gli aderenti fiorentini nel mondo rurale appenninico, sollevò gli uomini della Val di Lamone dando loro a vedere in un primo tempo che assecondava il loro intento di abbattere la reggenza bentivolesca e di imporre il M. come signore di Faenza. Nel frattempo a Faenza il popolo si sollevò contro Giovanni Bentivoglio all'arrivo in città, il 4 giugno 1488, di alcuni armati milanesi agli ordini del conte Giovan Pietro Carminati di Brembilla detto il Bergamino: i Faentini assalirono il palazzo del Comune, massacrarono il Bergamino e presero prigionieri Francesca e Giovanni Bentivoglio. Il giorno stesso Ridolfi giunse in città con un migliaio di uomini della Val di Lamone e riuscì a farsi consegnare come ostaggio Giovanni, che fece trasferire nella fortezza appenninica di Modigliana. La fortezza di Faenza aprì le porte ai Fiorentini fra il 6 e l'8 giugno.
Al termine di complesse manovre politico-diplomatiche, Faenza fu retta da un Consiglio di reggenza che governava insieme con un commissario fiorentino in nome del figlio di Galeotto, il piccolo Astorgio (III). Il M. non seppe trovare l'occasione, e i valligiani che inizialmente ne avevano fatto il loro candidato furono abilmente circuiti da Ridolfi; allorché, non soddisfatti della subalternità in cui erano venuti a trovarsi, tentarono di sostenere davvero il M., i Fiorentini riuscirono a evitare il pericolo di questa avventura offrendo al M. (che aveva sedici anni) una condotta in cambio della rinuncia a creare disordini.
Il 20 luglio Antonio Boscoli, già commissario fiorentino a Faenza sotto Galeotto, si recò in Val di Lamone e lì incontrò il M., che mostrò di avere tanta fiducia nella signoria fiorentina da partire per Firenze con Boscoli il giorno dopo: Bentivoglio e Ludovico Sforza ancora a novembre non si rassegnavano al fatto che Firenze avesse disinnescato il pericolo rappresentato dal M. per il reggimento filofiorentino che sosteneva Astorgio (III) a Faenza. Dopo varie trattative tra Faenza e Firenze, si giunse all'accordo: il M. avrebbe ricevuto 600 ducati l'anno dalla provvisione che Firenze accordava ad Astorgio (III).
Il M. era e rimaneva un comodo schermo per tutti gli scontenti: così nell'agosto del 1488 attorno a lui si ordì una congiura che univa alcuni valligiani e cittadini contrari al reggimento faentino (veri partigiani del M. come anche coloro che pensavano a una sua reggenza per conto di Astorgio, o infine quelli che avrebbero voluto sostituire la reggenza di fatto). I congiurati furono scoperti ancor prima di poter condurre il M. in Val di Lamone: il suo reale ruolo nella vicenda rimane oscuro, ma per evitare che simili episodi dovessero ripetersi, nel novembre gli Otto di pratica deliberarono di mandare il M. ad Arezzo, sotto buona custodia. Non è chiaro dove egli trascorse gli anni successivi, comunque ben controllato in Toscana: si hanno di nuovo sue notizie nel 1494, quando, essendo a Pisa all'arrivo del re di Francia Carlo VIII, poté liberarsi della custodia fiorentina. Donati narra come il M., che si diresse nel dicembre 1495 in Val di Lamone, inizialmente non avesse intenzione di muovere contro il cugino Astorgio, ma semplicemente di confermare la fedeltà dei valligiani alla Repubblica fiorentina. Raggiunto dalla notizia delle trattative per una condotta tra Astorgio e Venezia che di fatto poneva Faenza sotto la tutela veneziana, il M. avvertì Firenze e, a capo degli uomini di Val di Lamone guidati da Dionigi e Vincenzo Naldi, si avvicinò nella notte del 18 dicembre alla città, contando probabilmente su qualche appoggio interno. Era un tentativo improvvisato e mal coordinato, che non si appoggiava su un aperto sostegno fiorentino, e fallì.
Se il duca di Milano Ludovico Sforza poté scrivere al suo oratore a Bologna che "havemo piacere che epso Octaviano sia stato rebutato indreto", a Firenze "questi signori ne restano non cum pocho dispiacere" (Ludovico Sforza a Nicodemo Tranchedini, Milano, 29 dic. 1495 e Nicodemo Tranchedini a Ludovico Sforza, Firenze, 25 dic. 1495, cit. in Donati, p. 111).
Unica conseguenza del tentativo compiuto dal M. fu che il provveditore veneziano Bernardino Contarini appena giunto a Faenza gli intimò di ritirarsi e si spinse poi in Val di Lamone, dove bruciò due case dei Naldi, prese qualche prigioniero che fu giustiziato a Faenza e pose una taglia di 1500 scudi sulla testa del M.: i Veneziani peraltro non ritennero opportuno entrare in urto troppo diretto con la Val di Lamone, il cui potenziale militare era ben noto, per cui non infierirono.
Il M., rientrato in Toscana, fu nuovamente assoldato dalla Repubblica fiorentina, impegnata nella guerra di Pisa, e distolse temporaneamente la propria attenzione dallo scenario romagnolo, dominato dal contrasto fra la minata autorità sforzesca (che si fondava sul doppio pilastro rappresentato da Bentivoglio a Bologna e da Caterina Sforza Riario a Imola e Forlì) e la crescente influenza veneziana. Negli anni della nuova condotta fiorentina il M. conobbe e si legò d'amicizia con Ottaviano Riario, figlio di Caterina, anch'egli al servizio di Firenze.
Nel 1498 i Fiorentini videro con apprensione il consolidarsi del controllo veneziano su Faenza: in quel contesto gli interessi fiorentini coincidevano con quelli di Caterina Sforza e di Milano. Nel dicembre Firenze autorizzò dunque il M. a muoversi dal campo di Pisa e a recarsi in Val di Lamone e Caterina, mossa a contrastare Astorgio dalla sua aperta scelta filoveneziana, intraprese azioni di disturbo nel contado faentino. Il duca di Milano però non voleva essere spinto a uno scontro aperto con Venezia: frenò dunque Caterina, nelle cui terre tuttavia il M. aveva preso base.
Una volta di più le condizioni politiche generali non furono favorevoli alle aspirazioni del M.: nella primavera successiva sembrava rassegnato ad abbandonare ogni velleità faentina e ad assicurarsi unicamente una buona condotta fiorentina. Proprio per confermare la propria condotta al soldo della Repubblica fiorentina e ricevere la paga che gli spettava, il M. lasciò Forlì il 12 apr. 1499 diretto a Firenze: Caterina Sforza gli aveva offerto una scorta armata, ma il M. aveva preso con sé solo Francesco Fortunati, pievano di Cascina, e sei uomini. Dopo avere pernottato a San Benedetto in Alpe, il M. fu assalito sul passo da un gruppo di uomini di Val di Lamone e ucciso.
Fra i responsabili pare vi fossero sia il figlio, o i figli, di Corbizo da Castrocaro (già aderente fiorentino della cui morte, avvenuta tre mesi prima, il M. e Dionigi Naldi, suo partigiano, erano ritenuti responsabili) sia Gabriele dei Bosi della Val di Lamone, di parte astoresca. Caterina Sforza fece portare il corpo del M. a Forlì, dove fu sepolto nella chiesa di S. Girolamo, nel sepolcro di Barbara di Astorgio (II) Manfredi, moglie di Pino Ordelaffi, morta a Forlì nel 1466. Nonostante fosse stato promesso nel 1477, come detto, a una figlia naturale di Ferdinando d'Aragona, non si hanno notizie di un suo matrimonio e di suoi figli.
J. Larner (Signorie di Romagna, Bologna 1972), considerando le discordie interne delle città romagnole, legge il succedersi degli eventi tumultuosi di quegli anni come il sintomo del collasso dell'ordine civico: anche la morte del M. - apparentemente incongrua e frutto dell'esplodere locale di odi e conflitti di parte maturati nei contrasti tra città e montagna - può leggersi come l'esito di un simile collasso, nel contesto di quello che Fubini definisce lo smarrimento del "senso delle certezze giuridiche, dei codici di condotta" nel policentrico mondo romagnolo degli ultimi decenni del Quattrocento.
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