PENNA BUSCEMI, Ottavia
PENNA BUSCEMI, Ottavia. – Nacque a Caltagirone (Catania) il 12 aprile 1907 dal barone Francesco e dalla duchessa Ignazia (Ines) Crescimanno.
Terzogenita di cinque figlie, ricevette i primi insegnamenti, come di consueto nei ceti possidenti e aristocratici della Sicilia di inizio secolo, dalle istitutrici di casa, per continuare poi gli studi nei collegi di Poggio Imperiale in Toscana e di Trinità dei Monti a Roma. Nel 1933 sposò il medico Filippo Buscemi, poi direttore sanitario del convalescenziario di Santo Pietro e più tardi dell’ospedale di Caltagirone, dove fu primario del reparto di ostetricia e ginecologia.
Madre di tre figlie (Maricò, Ines e Cristina), fu cattolica devota e di fede monarchica. Anticonformista nelle scelte politiche, rivendicò la parità dei diritti e l’emancipazione delle donne. Erede di una solida tradizione familiare di impegno politico – il nonno paterno Guglielmo, deputato liberale nel collegio di Modica (XIX e XX legislatura), la sorella Carolina vicina all’Azione cattolica e al Partito popolare e sindaco di Caltagirone dal giugno 1956 al febbraio 1957, le amicizie familiari con i calatini don Sturzo e Mario Scelba – Penna Buscemi, finì per attirarsi l’ostilità degli ambienti cittadini civili e religiosi, quando abbracciò l’ideologia del Fronte dell’uomo qualunque, fondato nel 1944 da Guglielmo Giannini. Nelle sue fila fu eletta il 2 giugno del 1946 con 11.765 preferenze nel XXIX collegio di Catania, ritenuto ‘difficilissimo’ dallo stesso Giannini, in quanto «gli eredi di Don Sturzo vi fanno il bello e il cattivo tempo» (V. Gorresio, Ottavia Penna baronessa, in Oggi, 30 luglio 1946). Fu per Penna Buscemi un successo personale, se raffrontato ai 39.587 voti di Mario Scelba e ai 14.773 di Carmelo Caristia, entrambi candidati illustri della Democrazia cristiana.
Penna Buscemi fu inoltre l’unica donna candidata alle elezioni del primo presidente della Repubblica, nel giugno 1946, risultando terza, anche grazie ai voti dei qualunquisti, dopo Enrico De Nicola e Cipriano Facchinetti.
Con altre quattro donne (Nilde Iotti, Teresa Noce, Lina Merlin e Maria Federici) venne nominata nella Commissione dei Settantacinque, alla quale l’Assemblea costituente aveva demandato la stesura del progetto di Costituzione, dalla quale tuttavia si dimise dopo pochi giorni (ricoprì l’incarico dal 19 al 24 luglio 1946).
Partecipò invece ai lavori dell’Assemblea costituente in seduta plenaria da marzo a dicembre 1947, senza mai intervenire né presentare interrogazioni. Sostenne, insieme ad altri deputati, alcuni emendamenti e un ordine del giorno sull’istruzione professionale – la deputata escludeva la competenza regionale – e sull’istituzione delle regioni, con la proposta di affidare direttamente alle popolazioni interessate la scelta della regione di appartenenza.
Nell’ambito della discussione tra i costituenti su come garantire l’indipendenza e, insieme, il collegamento dell’ordine giudiziario con i poteri rappresentativi, votò il progetto presentato il 22 novembre 1947 da Gennaro Patricolo, ex esponente del Fronte dell’uomo qualunque.
La proposta intendeva riunire la magistratura requirente e giudicante, ma anche la polizia giudiziaria e gli istituti di prevenzione e di pena, come organi del potere giudiziario, che così si sarebbe svincolato e liberato da ogni influenza politica, sia nella fase di preparazione del giudizio, spettante alle indagini di polizia, sia in quella finale dell’esecuzione della pena, affidata agli istituti penitenziari. Al progetto si oppose decisamente Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei Settantacinque, strenuo interprete del modello liberale della separazione dei poteri e che reputava un grave errore considerare quali organi dello stesso potere la polizia, tutt’al più ausiliaria della magistratura, e l’amministrazione penitenziaria, dipendente invece da un dicastero e da un ministro chiamati a rispondere al Parlamento. Alla fine, l’emendamento venne respinto a larga maggioranza.
Nella seduta del 3 dicembre 1947 (dedicata al testo del titolo V sulle garanzie costituzionali), Penna Buscemi aderì alla proposta di una votazione segreta sulla soppressione dell’art. 131 (attuale 139), che sottraeva alla revisione costituzionale la forma repubblicana. Nonostante lo stesso Giannini osservasse che l’articolo così formulato avrebbe inficiato il diritto ‘dell’uomo qualunque italiano’ di scegliere un’altra forma istituzionale, l’articolo fu approvato con 274 voti favorevoli e 77 contrari, con l’attuale enunciazione: «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale».
Fatte salve queste eccezioni, Penna Buscemi non intervenne più in aula. Poco incline al sodalizio con le colleghe, sui banchi parlamentari restò appartata ed estranea. La democristiana Angela Gotelli la descrisse molti anni dopo come una distinta signora seduta sui banchi della destra, «con cui c’erano rapporti cortesi ma che non fece mai gruppo con noi» (Le donne e la Costituzione. Atti del Convegno promosso dall’Associazione degli ex-parlamentari, Roma 22-23 marzo 1988, Roma 1989, p. 10). Durante la sua esperienza nell’Assemblea costituente Penna Buscemi fu anche oggetto di una querela per diffamazione da parte della trapanese Ester Lombardo, sua compagna di Partito e giornalista di storiche testate femminili sin dagli anni Trenta, che la accusò di averle indirizzato apprezzamenti offensivi nel corso di un congresso dell’Uomo qualunque nel 1947. Non ritenendo provate le diffamazioni, l’Assemblea costituente negò tuttavia l’autorizzazione a procedere.
Se non era stata figura di particolare rilievo nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, Penna Buscemi fu ben più presente nel campo della comunicazione pubblica, attraverso la corrispondenza con personalità politiche e gli interventi sugli organi di stampa. Alla fine del 1947 scrisse al deputato democristiano Giuseppe Caronia, formulando un’interpretazione minoritaria e singolare del patto costituzionale e protestandosi per principio «avversaria di tutti quei compromessi, prepotenze e ingiustizie diluite in tanti articoli e propinati al popolo italiano come Vangelo» (Archivio Penna Buscemi, Lettera a G. Caronia, 29 dicembre 1947). Risoluta nella scelta di proporsi sulla scena politica nazionale e di militare in un partito eccentrico e non facilmente classificabile nella nuova democrazia del dopoguerra, Penna Buscemi restò una monarchica convinta, sino a sfidare clamorosamente in un’occasione le autorità di polizia: nel corso di un comizio alle elezioni del 1948, la temeraria baronessa collocò lo scudo monarchico nella banda bianca del tricolore, affermando poco dopo, in una lettera al ministro dell’Interno Scelba, il proprio diritto a esporre nei comizi successivi l’emblema del partito monarchico (Archivio Penna Buscemi, Lettera a M. Scelba, 11 maggio 1948).
Intanto, i dissensi con Giannini l’avevano indotta, il 15 novembre 1947, a dimettersi dalle fila del movimento, per aderire all’Unione democratica nazionale.
Alle elezioni amministrative del 1953 fu eletta nelle fila del Partito monarchico, ma presto, delusa dalle vicende nazionali e interrompendo ogni rapporto con la politica e le istituzioni, si ritirò a vita privata trovando rifugio, dopo la morte del marito e della figlia Ines, nel palazzo di famiglia di Caltagirone.
Testimonianza del suo «personalissimo pensiero» ispirato a un autentico cattolicesimo sociale è la sua risposta a una lettera del 1948 del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che la interpellava a proposito dei provvedimenti urgenti che si intendevano prendere quell’inverno a favore dei senza lavoro in Sicilia. Penna Buscemi sostenne l’opportunità di adottare non sussidi in danaro per i soli disoccupati, espressione di una pratica fugace e occasionale della carità, ma un programma a vantaggio di tutti «gli infelici» per «combattere l’ignoranza tremenda del nostro popolo». Si sarebbe dovuto avviare un piano di ricostruzione delle vie intransitabili, delle case distrutte dalla guerra, delle scuole rurali e cittadine, dedicando infine proposte e risorse per il «ricovero» dei bimbi abbandonati, che sulla strada «apprendono la delinquenza, sin dalla tenera età» (Archivio Penna Buscemi, Lettera a De Gasperi, 9 gennaio 1948), questione per cui lei stessa si era prodigata, fondando a Caltagirone, con padre Quinci, l’associazione assistenziale La città del ragazzo.
Morì nella stessa città il 2 dicembre 1986. Al suo funerale, nonostante la grande partecipazione di gente ‘qualunque’, non fu pronunciato alcun discorso ufficiale che ricordasse una delle più inosservate e silenziose costituenti, probabilmente perché donna per più versi appartata e controcorrente.
Fonti e Bibl.: Caltagirone, Archivio di famiglia Penna Buscemi; Archivio Maria Attanasio; Atti Parlamentari. Assemblea Costituente, seduta del 12 gennaio 1949, doc. I, n. 57; seduta del 31 gennaio 1948, doc. I, n. 57/A; La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, 1976, IV, p. 2510, V, pp. 2783, 3969 s.
Voti personali dei candidati Caltagironesi, in La Croce di Costantino, 14 giugno 1953; Gli ex Parlamentari della Repubblica, Roma 1985; S. Correnti, Donne di Sicilia. La storia dell’Isola del sole scritta al femminile, Catania 1990; M. Addis Saba - M. De Leo - F. Taricone, Alle origini della Repubblica. Donne e Costituente, Roma 1996; Kore (C. Alario), La baronessa O. P., in L’obiettivo, 8 marzo 2005; E. Pelleriti, O. P. B., in Siciliane. Dizionario biografico, a cura di M. Fiume, Siracusa 2006, pp. 777-779; Le donne della Costituente, a cura di M.T.A. Morelli, Roma-Bari 2007, pp. LXXVI-LXXIX; E. Pelleriti, Una donna qualunque alla Costituente: O. P. B., in Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti, cl. di Scienze giuridiche, economiche e politiche, LXXVII (2008 [ma 2010]), pp. 117-138; C. Alario, O. P.: madre costituente. Storia di una singolare esperienza di vita, Caltagirone 2009.